UNA DELLE PARTI piu' interessanti del viaggio in Dubai e' stata quella in aereo. Li' ho conosciuto un ragazzo della mia eta', piu' o meno, di Citta' di Castello in Umbria. Tornava a Dubai City per l'ennesima volta - come gli capita con regolarita' dal 1990.
Il lavoro e' quello di responsabile di area per un bel pezzo di mondo: Medio Oriente, Africa, pezzetti di Asia e quelle terre che una volta appartenevano alla Russia. Pure l'Austrialia. Il lavoro e' per una ditta romana che produce guarnizioni per i Caterpillar.
I Caterpillar, a quello che ho capito, non sono il nome generico dei bulldozer, ma una marca specifica. Sono dei mostri, adatti a tutta una serie di lavori speciali su larga scala. In pratica, vanno alla grande in tutta una serie di parti del mondo dove si estraggono le materie prima, dove si edifica (talvolta in modo selvaggio), dove si combatte e si ricostruisce. Non necessariamente in momenti distinti tra loro.
E, soprattutto, praticamente non ci sono due Caterpillar uguali. O quasi. Insomma, sono un patchwork di pezzi per far funzionare il bestione la' dove serve. Deserto ma in discesa, ghiacciaio di notte, montagna con terriccio. Insomma, avete capito.
Loro vendono queste guarnizioni, qualunque cosa siano. E ci sono solo altre due aziende al mondo che le fanno. Quindi, gira come un matto per coprire tutto il business.
Mi ha raccontato che Dubai city e il suo aeroporto sono la porta del Medio Oriente. Da li' si entra nel circuito di tutte le altre citta' e paesi: Qatar, Oman, Iran e chi piu' ne ha. Pero' mi ha colpito il fatto che lui, come tanti, giri. Adesso, da tutte le parti, in classe economica. Sul pullman che ci portava al terminal mi e' venuto in mente (e gli ho detto) che stiamo vivendo quelli che saranno poi i ricordi della nostra vita. Cioe', stiamo facendo quello che a raccontarlo agli altri si fa nel pieno della maturita' di uomini. Il classico "quando giravo come un matto di qua e di la'".
Questo magari non e' importante, soprattutto perche' ne e' pieno il mondo di persone che hanno ricordi. Ma e' anche una metodologia, quella della storia sociale. Che postula di costruire il racconto di quello che succede dal punto di vista del popolo, dei lavoratori, delle persone comuni. Insomma, usando lo scenario della storia istituzionale per dipingere il periodo in generale, e poi i racconti delle persone qualunque per raccontare la vita e i fatti del momento. Una prospettiva diversa da quella delle cancellerie e dei passaggi diplomatici.
Questo lo pensavo subito dopo esser sceso dal pulcioso 767 di Alitalia che cinque volte alla settimana vola sino a Dubai da Milano. Chissa' poi perche' Milano e non Roma, visto che Fiumicino dovrebbe essere - nelle parole e nelle strategie - l'hub della compagnia aerea con la volonta' di guardare al bacino Mediterraneo e dintorni. Non per far polemica stile Panorama (che pare da anni abbia un conto aperto con la compagnia di bandiera).
Il mio momentaneo compagno di viaggio, pantaloni marroni, camicia bianca di cotone senza colletto, barba corta alla Del Piero, si e' fatto con me il tunnel di collegamento tra l'entrata della pista e il salone del controllo passaporti. Quello che i viaggiatori abituali chiamano "immigration", per far vedere che sono stati negli Usa. E li' siamo stati in coda un'oretta. In fila dietro a una settantina di personaggi dei piu' vari generi: soprattutto quegli immigrati che hanno il permesso di lavoro e fanno girare l'economia del Paese.
In pratica, il Dubai ha pochi abitanti nativi (i figli e i nipoti della tribu Bani Yas della famiglia Al-Maktoum che ha fondato il paese girando intorno all'oasi nel 1830) e tanti, tantissimi che ci vanno per lavorare. Oltre al petrolio, alla tecnologia e quant'altro, sono specializzati nell'ippica. Ci sono le piu' grosse scuderie del mondo. L'85 per cento, insomma, sono persone che vengono da altri posti. E se aprono una qualunque attivita' nel Paese, devono fare un accordo con un locale che funzioni da prestanome.
Nel giro in Dubai, comunque, qualcosa ho visto. Per esempio le architetture - avvolte dall'afa micidiale di quel posto. Dopotutto, e' la costa di un deserto micidiale. Caldo. Umido. Nebbioso. Chiudono spesso l'aeroporto causa nebbia, neanche fossimo a Linate.
Tutti i palazzoni, che poi sarebbero grattacieli fatti da architetti internazionali, abbondano di piattaforme per elicotteri sulla cima. E poi il mio vestito da lavoro, quello di fresco di lana. A parte che vorrei conoscere chi ha chiamato il fresco di lana "fresco di lana". Non per il concetto di lana, che mi e' noto, ma per quello di fresco. Perche' a me tanto fresco non pare. Insomma, quel vestito ha girato mezzo mondo, assaggiando un sacco di climi. E' stato seduto sulle seggiole di salette stampa e executive rooms di alberghi e centri conferenza di mezzo mondo. Senza fare una piega. Senza neanche bisogno di appenderlo nel bagno dell'albergo invaso dai vapori dell'acqua calda per rimetterlo in tiro.
Pero' il Dubai l'ha piegato. Anzi, stropicciato. E questo non era mai successo. Direi che qualcosa di nuovo si vede sempre. In questo caso, e' bastato aspettare mezz'oretta il taxi alle sei di sera, in coda con una folla di personaggi usciti da Gitex, la fiera dell'informatica del Medio Oriente. Si accedevano le luci dei grattacieli circostanti. Si cominciava a sentire l'aria posarsi. Ma l'umido no. Quello, afoso e asfissiante, oltre che appiccicoso, non si posava.
Sono stato parcheggiato per due notti all'hotel della catena Starwood, una sorta di parallelepipedo di cemento e acciaio con una caverna scavata al suo interno, una falsa piazza circondata da ristoranti e bar (anche un Night, oltre alla concierge) dove rilassarsi o fare business. Business. Business. Che poi e' quello che siamo andati a fare.
Io in particolare dovevo seguire, su invito, le strategie e le tecniche di un'azienda italiana. Con l'amministratore delegato - ligure - ex Olivetti. La cosa che mi incuriosisce di piu', dopo aver conosciuto uno che viaggia sempre in business, ha l'autista dietro l'angolo e vive dei ricordi dei suoi viaggi di quando era giovane manager trentenne di un gruppo cazzuto e lanciato, e' il ricordo e il rimpianto della mancanza della sua citta'. Tanti anni passati tra Tokio e Singapore, l'Africa e il Sud America, e il rimpianto del bar sotto casa, dove prendere il cappuccio prima di andare in ufficio.
A mangiare, per il pranzo, io mi son preso un pesce (branzino al limone) e lui il salmone. Niente vino, dopo un espresso fatto neanche male (ma il cuoco era italiano). Idem a cena: dal giapponese per mangiare sushi. Birretta per lui, sake caldo per me. L'idea e', secondo me, che tra professionisti in viaggio si mangi leggero per non stordirsi. L'unica discrasia e' stata per la partenza. Un volo red eyes, come dicono quelli fighi, cioe' partenza dopo mezzanotte e arrivo alle sei del mattino. Ergo, una giornata di lavoro piena davanti.
Il Ceo ha organizzato il viaggio cosi': praticamente digiuno prima di partire, un po' di tramezzini (giusto due e una birretta leggera) in sala business e poi dormire tutto il tragitto, perche' "a stomaco vuoto si dorme meglio". Io mi sono scofanato decine di cavolate varie (pesce, carne, dolci) al buffet della conferenza con i clienti. Poi un giro in barca sino al suk, una coca cola al night dell'albergo e uno strapuntino in classe economica. Stavolta non avevo accanto nessuno, ho anche rifiutato spuntino e colazione e cercato di dormire, appoggiato al finestrino dell'uscita di emergenza. Il posto dove si allungano le gambe ma non si reclina il sedile. Poi sono arrivato a Malpensa. E li' ad aspettarmi c'era la donna antipatica del bar ("aspetti dieci minuti, devo fare la cassa") il trenino finto-express e poi il bus da Cadorna fino in dipartimento. E via in riunione. Ma questa e' un'altra storia, fatta di biciclette, squallidi uffici in periferia, progetti futuristici. Ne riparleremo.
8.10.04
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2 commenti:
ma perche' non impari un minimo di italiano prima di scrivere? mai letto niente di simile.
infatti si capisce poco.. ci vuole molta fantasia.
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