27.6.11
LIN-AMS-SEA
VADO UN ATTIMO a Seattle e torno. Tutto con KLM (o quasi). Poi vi racconto anche questa. Saluti per adesso.
26.6.11
Il mestiere del giornalista 2.0
C'È COME SEMPRE un gran discutere sulle strategie e sulle tecnologie per fare le cose dell'informazione nel web. La crisi, lo spauracchio di una professione morente (ma forse già morta), l'incapacità di affrontare il cambiamento: tutto congiura a fare in modo che il giornalismo 2.0 sia diventato qualcosa che probabilmente rintrona chi di lavoro nella vita fa altro. Come se si stesse a discutere dalla mattina alla sera sulle affascinanti conseguenze tecniche e di fattura delle otturazioni in composito rispetto a quelle in amalgama per la professione odontoiatrica. Non credo appassionerebbe la popolazione più di tanto. Comunque.
La "spinta" poi viene dall'America, come sempre, e dal New York Times in particolare che, se starnutisce, fa sobbalzare tutto il pianeta. Cambia la gestione dell'online per la vecchia signora di Manhattan? Se ne sono accorti anche i fabbricanti di porte in legno massello di Alessandria (gente notoriamente "tosta") che esiste internet e che non ha più senso fare la coda in posta per fare i pagamenti a fine mese. Allora perché ci stupiamo se fanno la redazione online gestita da quelli che lavorano per il cartaceo?
La rigidità contrattuale della mia categoria (sia dal punto di vista economico che di mansioni e di capacità di aggiornamento professionale) rende quasi impossibile costruire qualcosa di diverso da quel che esiste. E se si costruisce, viene fatto da orchi e ciclopi miopi (un ciclope miope è una brutta bestia) che mirano al denaro senza alcun garbo o attenzione. Sì, sto pensando proprio a te, manager dell'editoria che mi leggi...
Detto questo, un punto mi preme sottolinearlo, visto che da più di quindici anni mi barcameno tra radio, carta stampata giornaliera e periodica, agenzia e sito web.
Il giornalismo 0.1b era micidiale: fatto di cose che non ho mai sperimentato se non da molto lontano (composizione a caldo, tavoli luminosi, forbici, tipometri). All'epoca ci si dava dentro, si camminava tanto, si consumavano le scarpe, si telefonava parecchio e lo si faceva addirittura con telefoni dotati di selettore a rotazione e nessuna rubrica preimpostata, niente internet, c'era quello sulla notizia che telefonava a quello in redazione, c'era tanta gente che scriveva con la macchina meccanica (la famosa "macchina per scrivere") e si faceva addirittura l'alba in tipografia a impostare, correggere e stampare il giornale. I titoli avevano una certa forma perché i caratteri avevano una certa dimensione. Idem per gli articoli. Un lavorone di cui Gutenberg sarebbe stato fiero. Anche perché, accanto al giornalista, anziché le legioni di uffici stampa che ci sono adesso, c'erano legioni di tecnici, tipografi, assistenti di redazione, dimafonisti, segreterie di redazione, fattorini. Un vero circo Barnum dell'informazione. Quando si dice che il giornale è un'opera collettiva, si intende che c'era da prendersi a spintoni per entrare in redazione.
Il giornalismo 1.0, quello moderno nato a partire dalla fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, era un palla: stavi tutto il giorno attaccato a un cavolo di computer vecchio come mio nonno. Sopra, se eri fortunato, c'era Windows NT e qualche folkloristico software che i tecnici di redazione chiamavano "sistema editoriale". Tutti i tecnici di prima continuavano a lavorare - ci mancherebbe altro - però facevano completamente altre cose: con il benedetto computer serviva una laurea in ingegneria, grafica e design industriale più che una competenza tipografica. Quelli che prima cercavano le foto in archivio, incollavano e verificavano i testi sui tavoli luminosi, preparavano grafici e tabelle, disegnavano le pagine assieme ai capiservizio, gestivano la composizione, stenografavano gli articoli via dimafono (quelli bravi tra i giornalisti potevano dettare dal luogo della notizia il pezzo "a braccio", senza scrivere niente di strutturato sul taccuino), raccoglievano i dispacci di agenzia.
Ebbene, tutti questi ancora lavoravano, però c'era stato il bisogno di reinventargli un lavoro, perché i più astuti tra i sindacalisti avevano capito che sarebbe bastato un redattore sveglio e un Pc per fare tutto. E il redattore cercava in tutti i modi di imparare a usare il maledetto sistema editoriale, crescendo in un ambiente fatto di comandi e di metafore dell'interfaccia incomprensibili se non aveva già lavorato nel sistema precedente, perché il computer cercava di mimare il comportamento del vecchio sistema. In compenso, il "vecchio dinosauro" che veniva dall'ambiente precedente manco riusciva ad accenderlo, il computer. Se gli facevi vedere come si faceva copia-e-incolla ti guardava neanche fossi stato il protagonista di Matrix. Cose così.
Il giornalismo 2.0, quello di adesso, è tutta un'altra cosa. Stai ore e ore attaccato al computer. Finalmente il modello che vuoi tu, tanto te lo sei pagato da solo perché lavori da casa tua e senza contratto: solo un generico cottimo o qualcosa del genere. Scrivi per una dozzina di siti e di testate diverse, e ognuno ti da un account e ti fa imparare un sistema diverso. Mica un sistema editoriale, no. Una piattaforma di blog, oppure un servizio di raccolta dati a distanza, oppure un accesso a qualche diavoleria fatta con database astrusi e una pennellata di Cgi in cima, con una interfaccia web sempre diversa, dove passi più tempo a impostare parametri e spuntare opzioni che non a scrivere la notizia.
Io a questo punto, a parte il progetto Kontiki su Commodore 64 e il Sinclair QL, i sistemi di gestione dei contenuti per mettere le robe online (detti CMS) li ho visti un po' tutti. Non me ne piace uno e sogno la notte di tornare alla composizione a caldo. Anche se, temo, oggi sarebbe una nicchia piuttosto piccola anche per gli abitanti Lilliput.
Allora, attendo con ansia il giornalismo 3,0, quello che te lo fai tutto con l'iPhone, senza passare neanche da casa a cambiarti d'abito. Ecco, magari mentre sei in tram che stai andando da qualche parte. O magari tornando. Chissà se a qualcuno gliene importerà ancora qualcosa.
La "spinta" poi viene dall'America, come sempre, e dal New York Times in particolare che, se starnutisce, fa sobbalzare tutto il pianeta. Cambia la gestione dell'online per la vecchia signora di Manhattan? Se ne sono accorti anche i fabbricanti di porte in legno massello di Alessandria (gente notoriamente "tosta") che esiste internet e che non ha più senso fare la coda in posta per fare i pagamenti a fine mese. Allora perché ci stupiamo se fanno la redazione online gestita da quelli che lavorano per il cartaceo?
La rigidità contrattuale della mia categoria (sia dal punto di vista economico che di mansioni e di capacità di aggiornamento professionale) rende quasi impossibile costruire qualcosa di diverso da quel che esiste. E se si costruisce, viene fatto da orchi e ciclopi miopi (un ciclope miope è una brutta bestia) che mirano al denaro senza alcun garbo o attenzione. Sì, sto pensando proprio a te, manager dell'editoria che mi leggi...
Detto questo, un punto mi preme sottolinearlo, visto che da più di quindici anni mi barcameno tra radio, carta stampata giornaliera e periodica, agenzia e sito web.
Il giornalismo 0.1b era micidiale: fatto di cose che non ho mai sperimentato se non da molto lontano (composizione a caldo, tavoli luminosi, forbici, tipometri). All'epoca ci si dava dentro, si camminava tanto, si consumavano le scarpe, si telefonava parecchio e lo si faceva addirittura con telefoni dotati di selettore a rotazione e nessuna rubrica preimpostata, niente internet, c'era quello sulla notizia che telefonava a quello in redazione, c'era tanta gente che scriveva con la macchina meccanica (la famosa "macchina per scrivere") e si faceva addirittura l'alba in tipografia a impostare, correggere e stampare il giornale. I titoli avevano una certa forma perché i caratteri avevano una certa dimensione. Idem per gli articoli. Un lavorone di cui Gutenberg sarebbe stato fiero. Anche perché, accanto al giornalista, anziché le legioni di uffici stampa che ci sono adesso, c'erano legioni di tecnici, tipografi, assistenti di redazione, dimafonisti, segreterie di redazione, fattorini. Un vero circo Barnum dell'informazione. Quando si dice che il giornale è un'opera collettiva, si intende che c'era da prendersi a spintoni per entrare in redazione.
Il giornalismo 1.0, quello moderno nato a partire dalla fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, era un palla: stavi tutto il giorno attaccato a un cavolo di computer vecchio come mio nonno. Sopra, se eri fortunato, c'era Windows NT e qualche folkloristico software che i tecnici di redazione chiamavano "sistema editoriale". Tutti i tecnici di prima continuavano a lavorare - ci mancherebbe altro - però facevano completamente altre cose: con il benedetto computer serviva una laurea in ingegneria, grafica e design industriale più che una competenza tipografica. Quelli che prima cercavano le foto in archivio, incollavano e verificavano i testi sui tavoli luminosi, preparavano grafici e tabelle, disegnavano le pagine assieme ai capiservizio, gestivano la composizione, stenografavano gli articoli via dimafono (quelli bravi tra i giornalisti potevano dettare dal luogo della notizia il pezzo "a braccio", senza scrivere niente di strutturato sul taccuino), raccoglievano i dispacci di agenzia.
Ebbene, tutti questi ancora lavoravano, però c'era stato il bisogno di reinventargli un lavoro, perché i più astuti tra i sindacalisti avevano capito che sarebbe bastato un redattore sveglio e un Pc per fare tutto. E il redattore cercava in tutti i modi di imparare a usare il maledetto sistema editoriale, crescendo in un ambiente fatto di comandi e di metafore dell'interfaccia incomprensibili se non aveva già lavorato nel sistema precedente, perché il computer cercava di mimare il comportamento del vecchio sistema. In compenso, il "vecchio dinosauro" che veniva dall'ambiente precedente manco riusciva ad accenderlo, il computer. Se gli facevi vedere come si faceva copia-e-incolla ti guardava neanche fossi stato il protagonista di Matrix. Cose così.
Il giornalismo 2.0, quello di adesso, è tutta un'altra cosa. Stai ore e ore attaccato al computer. Finalmente il modello che vuoi tu, tanto te lo sei pagato da solo perché lavori da casa tua e senza contratto: solo un generico cottimo o qualcosa del genere. Scrivi per una dozzina di siti e di testate diverse, e ognuno ti da un account e ti fa imparare un sistema diverso. Mica un sistema editoriale, no. Una piattaforma di blog, oppure un servizio di raccolta dati a distanza, oppure un accesso a qualche diavoleria fatta con database astrusi e una pennellata di Cgi in cima, con una interfaccia web sempre diversa, dove passi più tempo a impostare parametri e spuntare opzioni che non a scrivere la notizia.
Io a questo punto, a parte il progetto Kontiki su Commodore 64 e il Sinclair QL, i sistemi di gestione dei contenuti per mettere le robe online (detti CMS) li ho visti un po' tutti. Non me ne piace uno e sogno la notte di tornare alla composizione a caldo. Anche se, temo, oggi sarebbe una nicchia piuttosto piccola anche per gli abitanti Lilliput.
Allora, attendo con ansia il giornalismo 3,0, quello che te lo fai tutto con l'iPhone, senza passare neanche da casa a cambiarti d'abito. Ecco, magari mentre sei in tram che stai andando da qualche parte. O magari tornando. Chissà se a qualcuno gliene importerà ancora qualcosa.
No girls are making eye contact!
25.6.11
Il cloud computing di Sita: cosa sono andato a fare a Bruxelles
IL BUSINESS DELLE compagnie aeree e quello degli aeroporti sono due misteri per la maggior parte dei viaggiatori. Certo, sulla carta è semplice: si compra il biglietto, si va in aeroporto, si fa check-in, si parte, si arriva, si recupera l'eventuale bagaglio e si va dove si deve andare. Semplice.
Apparentemente. Perché la complessità è enorme e non a caso l'informatica commerciale è praticamente nata con i sistemi di vendita dei biglietti aerei. Oggi gli aeroporti del mondo e le compagnie aeree stanno superando una delle fasi cicliche di crisi che scuotono questo settore e tornano ad investire. Soprattutto in information technology. Tra questo investimenti, il più strategico di tutti è il cloud computing. Che non è una novità, in generale (se ne parla da anni, al rischio di rompersi le scatole), ma che in questo settore in particolare diventa un'opportunità quasi senza fine. Se ne occupa Sita, l'azienda-cooperativa (ha appena rimesso a posto la sua struttura sociale e ribadito di non volersi quotare bensì di rimanere al servizio della proprietà, cioè le compagnie aeree) che offre servizi di comunicazione da 50 anni e di informatica da 30 per aeroporti e aerolinee.
Il cloud di Sita non è un cloud pubblico (come i servizi che gli utenti comuni possono usare nella nuvola, tipo DropBox), né un cloud privato (le intranet estese delle grandi aziende, che permettono ai dipendenti di usare servizi in mobilità), bensì un sistema cooperativo, un cloud associativo: un'unica infrastruttura in cui ciascuno dei soggetti (500 compagnie aeree, 350 aeroporti) possono usare servizi comuni e attivare i loro propri servizi privati.
Perché il cloud è utile? Sita insieme a Orange (colosso delle telecomunicazioni) offre già servizi di tlc alle aziende del settore. Addirittura ha un'offerta integrata, chiamata Tetra, che è molto interessante: una compagnia aerea acquista da Sita/Orange il numero di schede SIM solo dati per i suoi strumenti (tablet, portatili, sistemi di trasmissione, flight bag dei piloti) ed è Sita che si occupa di gestire i vari accordi di roaming, permettendo di usarle in tutto il mondo a tariffa fissa e con unico centro di costo.
Invece, con i sei datacenter in corso di costruzione e i server-ripetitori dislocati nei vari aeroporti critici, Sita offrirà nel corso dei prossimi 12-24 mesi tutti i servizi necessari a virtualizzare le postazioni e i server delle varie aziende a costi contenuti. Un esempio? Mettiamo una compagnia low cost voglia aprire una rotta su un nuovo aeroporto: basta che colleghi i Pc locali al server virtuale e ha servizi pari a quelli che avrebbe se stesse utilizzando una batteria di server portati nel nuovo aeroporto (come succede adesso). Oppure, i server virtuali possono scalare di potenza durante i picchi stagionali, permettendo a un piccolo aeroporto di gestire in modo dinamico e senza costi di infrastruttura la crescita e poi il calo del traffico.
Le soluzioni sono tantissime, i sei datacenter di Atlanta, Francoforte, Johannesburg, Singapore, Hong Kong e Sydney permetteranno di avere tempi di latenza minimali e Orange Business Services avrà sempre la sua funzione di partner preferenziale di Sita. Che, ribadisce per bocca del suo Ceo l'italiano Francesco Violante, ha tutte le carte in regola per offrire un servizio unico al settore che serve da mezzo secolo, molto più completo di quel che possono fare eventuali concorrenti.
Apparentemente. Perché la complessità è enorme e non a caso l'informatica commerciale è praticamente nata con i sistemi di vendita dei biglietti aerei. Oggi gli aeroporti del mondo e le compagnie aeree stanno superando una delle fasi cicliche di crisi che scuotono questo settore e tornano ad investire. Soprattutto in information technology. Tra questo investimenti, il più strategico di tutti è il cloud computing. Che non è una novità, in generale (se ne parla da anni, al rischio di rompersi le scatole), ma che in questo settore in particolare diventa un'opportunità quasi senza fine. Se ne occupa Sita, l'azienda-cooperativa (ha appena rimesso a posto la sua struttura sociale e ribadito di non volersi quotare bensì di rimanere al servizio della proprietà, cioè le compagnie aeree) che offre servizi di comunicazione da 50 anni e di informatica da 30 per aeroporti e aerolinee.
Il cloud di Sita non è un cloud pubblico (come i servizi che gli utenti comuni possono usare nella nuvola, tipo DropBox), né un cloud privato (le intranet estese delle grandi aziende, che permettono ai dipendenti di usare servizi in mobilità), bensì un sistema cooperativo, un cloud associativo: un'unica infrastruttura in cui ciascuno dei soggetti (500 compagnie aeree, 350 aeroporti) possono usare servizi comuni e attivare i loro propri servizi privati.
Perché il cloud è utile? Sita insieme a Orange (colosso delle telecomunicazioni) offre già servizi di tlc alle aziende del settore. Addirittura ha un'offerta integrata, chiamata Tetra, che è molto interessante: una compagnia aerea acquista da Sita/Orange il numero di schede SIM solo dati per i suoi strumenti (tablet, portatili, sistemi di trasmissione, flight bag dei piloti) ed è Sita che si occupa di gestire i vari accordi di roaming, permettendo di usarle in tutto il mondo a tariffa fissa e con unico centro di costo.
Invece, con i sei datacenter in corso di costruzione e i server-ripetitori dislocati nei vari aeroporti critici, Sita offrirà nel corso dei prossimi 12-24 mesi tutti i servizi necessari a virtualizzare le postazioni e i server delle varie aziende a costi contenuti. Un esempio? Mettiamo una compagnia low cost voglia aprire una rotta su un nuovo aeroporto: basta che colleghi i Pc locali al server virtuale e ha servizi pari a quelli che avrebbe se stesse utilizzando una batteria di server portati nel nuovo aeroporto (come succede adesso). Oppure, i server virtuali possono scalare di potenza durante i picchi stagionali, permettendo a un piccolo aeroporto di gestire in modo dinamico e senza costi di infrastruttura la crescita e poi il calo del traffico.
Le soluzioni sono tantissime, i sei datacenter di Atlanta, Francoforte, Johannesburg, Singapore, Hong Kong e Sydney permetteranno di avere tempi di latenza minimali e Orange Business Services avrà sempre la sua funzione di partner preferenziale di Sita. Che, ribadisce per bocca del suo Ceo l'italiano Francesco Violante, ha tutte le carte in regola per offrire un servizio unico al settore che serve da mezzo secolo, molto più completo di quel che possono fare eventuali concorrenti.
22.6.11
LIN-BRU
ECCOCI QUA: SONO arrivato a Bruxelles, terra piovosa (e fresca!). Si riuniscono gli stati generali di SITA, poi vi racconto.
21.6.11
Fernet-Branca
BELLA FOTOGRAFIA DELLA vita a San Francisco, grazie a Matteo Bittanti.
19.6.11
I know! It's so disappointing!
15.6.11
Aggraziati e bastoni
IL CORRIERE DELLA Sera cambia i font per i titoli, e ne prende due disegnati ad hoc. In prima per l'apertura da adesso va esclusivamente il Brera, mentre per tutti gli altri titoli si utilizza il Solferino. Lo spiega molto bene (dicendo bene anche molte cose sul senso del testo, la sua forma, il suo scopo) l'art director del Corriere, Gianluigi Colin.
Gli anglofoni direbbero che Brera e Solferino sono rispettivamente "serif" e "san-serif", noi possiamo dire "aggraziati" (meglio di "con le grazie" o "graziato") e lineari o bastoni (meglio di "senza le grazie" o del tedesco "grotesk"). A me paiono entrambi belli, forse un po' più il Brera dell'altro. Il disegno delle fonti è dello studio Left Loft / Molotro che ha collaborato con l'ufficio dei grafici del Corsera.
Qui si parlava di fonti e di polizze, un po' di tempo fa.
Gli anglofoni direbbero che Brera e Solferino sono rispettivamente "serif" e "san-serif", noi possiamo dire "aggraziati" (meglio di "con le grazie" o "graziato") e lineari o bastoni (meglio di "senza le grazie" o del tedesco "grotesk"). A me paiono entrambi belli, forse un po' più il Brera dell'altro. Il disegno delle fonti è dello studio Left Loft / Molotro che ha collaborato con l'ufficio dei grafici del Corsera.
Qui si parlava di fonti e di polizze, un po' di tempo fa.
14.6.11
La vittoria della rete: da Genova ai referendum 2011
LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE di tre settimane fa sono state la vittoria delle grandi macchine organizzative, sponsorizzate e affiliate a movimenti politici consolidati da tempo e costruite - soprattutto - con logiche centralizzate. La tattica è stata sul territorio, certo, ma la strategia e la cabina di regia erano verticali. Tanto quanto il tipo di voto, con premi e sistemi elettorali che riecheggiano il premio alle organizzazioni più compatte e verticali. Senza contare che si è votato solo in parte dell'Italia.
Alle amministrative, insomma, non c'è stato l'effetto-rete di Barack Obama: non si è visto spuntare l'anonimo che ha costruito il suo percorso sui canali digitali alternativi fino a diventare presidente degli Stati Uniti. Le elezioni amministrative 2011 sono state tutto fuorché un evento al di fuori dai partiti: Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris non sono anonimi qualunque privi di storia e sul territorio hanno sempre vinto i candidati del Pd o i loro alleati (Italia dei Valori in testa, che intercetta l'elettorato più radicale e qualunquista - almeno finché dura). Insomma, il Pd non deve fare nessuno sforzo concettuale per rivendicare la vittoria a Milano e Napoli (e negli altri posti dove ha vinto) perché ha palesemente voluto, costruito e ottenuto quella vittoria.
Il discorso cambia notevolmente con questi referendum. Se si vuole segnare la prima data della vittoria di un movimento non verticista, costruito con struttura a rete, in cui oltre alla partecipazione ha avuto significato la condivisione e la capacità dei singoli di essere attori e non solo soggetti della comunicazione, ebbene questa è la quaterna di referendum stravinti. Prova al contrario ne è il fatto che adesso c'è l'affanno da parte di tutto il centro-sinistra a "mettere il cappello" sui referendum, a partire da Massimo D'Alema che interviene con toni pacati, da rappresentante moderato dei vincitori, per chiedere le dimissioni del Presidente del consiglio. Richiesta quantomeno singolare vista la storia del Pd con questi referendum e addirittura con le norme di alcuni dei quesiti (quelli sull'acqua).
Quindi, ha vinto Internet. La rete ha fatto la differenza. Intendiamoci, non è la prima volta che ci prova. Tra poco meno di un mese compie dieci anni il G8 di Genova: a prescindere dalla spaventosa repressione di destra (e ricordiamo sempre Gianfranco Fini vicepremier nella centrale di comando delle operazioni militari coordinate contro una manifestazione pacifica e prevalentemente di ambito associazionista e cattolico) era successo altro, prima.
Ecco cos'è successo prima. Arrivare a Genova è stato il percorso che ha portato internet all'interno della società italiana intesa come parte sociale e partecipativa. I movimenti no-global, dalla rete Lilliput in là, hanno scardinato metodologicamente prima ancora che politicamente le associazioni tradizionali: rete orizzontale gestita dal basso contro grande associazione verticalista con vertici e funzionari. La condivisione, la partecipazione, l'azione, la capacità di dare un senso organizzandosi (e anche un metodo) sono un'esperienza che non è stata causata dalla rete, ma che invece è stata resa possibile dalla rete.
Internet ha permesso la creazione, il coordinamento e la condivisione del pensiero (non necessariamente in quest'ordine), mentre le persone per partecipare scoprivano l'email, le pagine web, i forum, le chat. Non c'era il web 2.0, non c'erano i social network, non si faceva "like" sulla foto dell'amico, però si è costruito molto di più.
La parte sociale della rete in Italia è arrivata così, in modo artigiano e funzionale. Chiedetelo a Indy Media, a rete Lilliput e alle decine di altre associazioni di soggetti eterogenei che hanno dialogato, partecipato e creato contenuti e messaggi, scambiandoli per mesi, coordinando Genova, costruendo una esperienza che poi è stata spazzata via dalla doppietta della repressione del G8 e poi dalla lotta internazionale al terrorismo, seguita in modo alquanto opportuno all'11 settembre.
Arriviamo a oggi. Nell'era (tramontante) di Facebook, di Twitter, dei social network, i referendum del 2011 hanno toccato idee percepite come primarie (la salute pubblica cioè il nucleare, l'acqua pubblica, sull'equità della cosa pubblica tramite il legittimo impedimento) e tramite la rete hanno costruito il consenso, il movimento e la spinta per portare quasi due italiani su tre a votare. Questo grazie anche alla totale opposizione dei mezzi di comunicazione tradizionale - la televisione in primis –, dimostrando così a consuntivo che nel nostro paese adesso la centralità del mezzo televisivo (e dei suoi paladini) è messa seriamente in discussione: la tivù ha assunto una importanza relativa. Cattiva notizia soprattutto per chi, come Silvio Berlusconi, ha costruito la sua intera esperienza politica e di governo sulla capacità di dominare i mezzi di comunicazione e generare un flusso costante di consenso.
Internet, cioè l'infrastruttura che permette la circolazione dei bit in modo incontrollabile da qualunque centro e con bassissime barriere all'entrata, in Italia ha segnato la sua prima vittoria. Non ha vinto lei i referendum (quello l'hanno vinto le persone di buona volontà che sono andate a votare), ma ha dimostrato di essere il mezzo necessario per segnare un cambiamento prima sociale e poi politico. L'implicito di questa vittoria (e non quella dei Pisapia o dei De Magistris) è che il cambiamento sociale passa attraverso canali non più centralizzati e governabili. Significa che la storia viene raccontata e costruita fuori dagli steccati dei mezzi di comunicazione di massa "broadcast". Significa che per chi detiene il potere istituzionale (nel senso che politologi e sociologi danno a questo termine) adesso sono cazzi. Aspettatevi una reazione "bipartisan".
Alle amministrative, insomma, non c'è stato l'effetto-rete di Barack Obama: non si è visto spuntare l'anonimo che ha costruito il suo percorso sui canali digitali alternativi fino a diventare presidente degli Stati Uniti. Le elezioni amministrative 2011 sono state tutto fuorché un evento al di fuori dai partiti: Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris non sono anonimi qualunque privi di storia e sul territorio hanno sempre vinto i candidati del Pd o i loro alleati (Italia dei Valori in testa, che intercetta l'elettorato più radicale e qualunquista - almeno finché dura). Insomma, il Pd non deve fare nessuno sforzo concettuale per rivendicare la vittoria a Milano e Napoli (e negli altri posti dove ha vinto) perché ha palesemente voluto, costruito e ottenuto quella vittoria.
Il discorso cambia notevolmente con questi referendum. Se si vuole segnare la prima data della vittoria di un movimento non verticista, costruito con struttura a rete, in cui oltre alla partecipazione ha avuto significato la condivisione e la capacità dei singoli di essere attori e non solo soggetti della comunicazione, ebbene questa è la quaterna di referendum stravinti. Prova al contrario ne è il fatto che adesso c'è l'affanno da parte di tutto il centro-sinistra a "mettere il cappello" sui referendum, a partire da Massimo D'Alema che interviene con toni pacati, da rappresentante moderato dei vincitori, per chiedere le dimissioni del Presidente del consiglio. Richiesta quantomeno singolare vista la storia del Pd con questi referendum e addirittura con le norme di alcuni dei quesiti (quelli sull'acqua).
Quindi, ha vinto Internet. La rete ha fatto la differenza. Intendiamoci, non è la prima volta che ci prova. Tra poco meno di un mese compie dieci anni il G8 di Genova: a prescindere dalla spaventosa repressione di destra (e ricordiamo sempre Gianfranco Fini vicepremier nella centrale di comando delle operazioni militari coordinate contro una manifestazione pacifica e prevalentemente di ambito associazionista e cattolico) era successo altro, prima.
Ecco cos'è successo prima. Arrivare a Genova è stato il percorso che ha portato internet all'interno della società italiana intesa come parte sociale e partecipativa. I movimenti no-global, dalla rete Lilliput in là, hanno scardinato metodologicamente prima ancora che politicamente le associazioni tradizionali: rete orizzontale gestita dal basso contro grande associazione verticalista con vertici e funzionari. La condivisione, la partecipazione, l'azione, la capacità di dare un senso organizzandosi (e anche un metodo) sono un'esperienza che non è stata causata dalla rete, ma che invece è stata resa possibile dalla rete.
Internet ha permesso la creazione, il coordinamento e la condivisione del pensiero (non necessariamente in quest'ordine), mentre le persone per partecipare scoprivano l'email, le pagine web, i forum, le chat. Non c'era il web 2.0, non c'erano i social network, non si faceva "like" sulla foto dell'amico, però si è costruito molto di più.
La parte sociale della rete in Italia è arrivata così, in modo artigiano e funzionale. Chiedetelo a Indy Media, a rete Lilliput e alle decine di altre associazioni di soggetti eterogenei che hanno dialogato, partecipato e creato contenuti e messaggi, scambiandoli per mesi, coordinando Genova, costruendo una esperienza che poi è stata spazzata via dalla doppietta della repressione del G8 e poi dalla lotta internazionale al terrorismo, seguita in modo alquanto opportuno all'11 settembre.
Arriviamo a oggi. Nell'era (tramontante) di Facebook, di Twitter, dei social network, i referendum del 2011 hanno toccato idee percepite come primarie (la salute pubblica cioè il nucleare, l'acqua pubblica, sull'equità della cosa pubblica tramite il legittimo impedimento) e tramite la rete hanno costruito il consenso, il movimento e la spinta per portare quasi due italiani su tre a votare. Questo grazie anche alla totale opposizione dei mezzi di comunicazione tradizionale - la televisione in primis –, dimostrando così a consuntivo che nel nostro paese adesso la centralità del mezzo televisivo (e dei suoi paladini) è messa seriamente in discussione: la tivù ha assunto una importanza relativa. Cattiva notizia soprattutto per chi, come Silvio Berlusconi, ha costruito la sua intera esperienza politica e di governo sulla capacità di dominare i mezzi di comunicazione e generare un flusso costante di consenso.
Internet, cioè l'infrastruttura che permette la circolazione dei bit in modo incontrollabile da qualunque centro e con bassissime barriere all'entrata, in Italia ha segnato la sua prima vittoria. Non ha vinto lei i referendum (quello l'hanno vinto le persone di buona volontà che sono andate a votare), ma ha dimostrato di essere il mezzo necessario per segnare un cambiamento prima sociale e poi politico. L'implicito di questa vittoria (e non quella dei Pisapia o dei De Magistris) è che il cambiamento sociale passa attraverso canali non più centralizzati e governabili. Significa che la storia viene raccontata e costruita fuori dagli steccati dei mezzi di comunicazione di massa "broadcast". Significa che per chi detiene il potere istituzionale (nel senso che politologi e sociologi danno a questo termine) adesso sono cazzi. Aspettatevi una reazione "bipartisan".
12.6.11
That baby must've packed quite a wallop, huh?
Ore 11.30
NELLA MIA SEZIONE, Centro storico di Firenze, aveva votato il 16% degli elettori. "Nella norma rispetto alle altre elezioni", ha spiegato lo scrutatore. Poi vediamo lunedì sera.
6.6.11
Apple WWDC 2011
CI SIAMO, SONO a San Francisco, non ho dormito niente (fuso orario più cena peruviana pesante e l'ovvia tensione pre-partita) ma finalmente albeggia. Si avvicina il momento di massima tensione: Moscone Center, accredito, coda, attesa, keynote di Steve Jobs, pezzi da scrivere al volo, poche ore per riprendere fiato, ripartenza verso Milano (stasera stessa, SFO-MUC-MXP) e arrivo martedì sera, altri pezzi da scrivere, verifica degli eventuali buchi presi (o, speriamo, dati), dormire.
Quel che si sa fino a questo momento è che la presentazione la farà anche Steve Jobs, che ci sarà da parlare parecchio di software, in particolare di sistemi operativi (iOS 5 e Mac OS X 10.7 Lion) ma anche del nuovo - e per adesso sconosciuto - iCloud. Si parla di sincronizzazione automatica attraverso internet, di non dover più collegare iPhone e iPad al computer, di iCloud come se fosse il futuro iTunes. E che forse potrebbe essere basato solo in parte sulla nuvola di Apple, ma soprattutto sulle nuove basi wireless TimeCapsule con disco rigido integrato. Che dire? Vedremo tra molto poco...
Quel che si sa fino a questo momento è che la presentazione la farà anche Steve Jobs, che ci sarà da parlare parecchio di software, in particolare di sistemi operativi (iOS 5 e Mac OS X 10.7 Lion) ma anche del nuovo - e per adesso sconosciuto - iCloud. Si parla di sincronizzazione automatica attraverso internet, di non dover più collegare iPhone e iPad al computer, di iCloud come se fosse il futuro iTunes. E che forse potrebbe essere basato solo in parte sulla nuvola di Apple, ma soprattutto sulle nuove basi wireless TimeCapsule con disco rigido integrato. Che dire? Vedremo tra molto poco...
5.6.11
3.6.11
Ripartenza
SI APPROPINQUA IL nuovo carpiato atlantico. Nel particolare, domani si va. MXP-MUC-SFO. E poi lunedì SFO-MUC-MXP. In pratica, 24 ore in volo, 48 ore a San Francisco...
Malta: take two
BACK FROM MALTA: quattro giorni di sole, scoglio, templi megalitici, fortezze medioevali e cavalieri. Voli a cura di AirMalta. L'isola dei record: senza fiumi, senza boschi, senza montagne e senza treni. Ma è davvero bella e ha ben due quadri del Caravaggio (il terzo se lo sono portato via). Avevo già parlato dell'isola fatta da gentiluomini per gentiluomini qui: ribadisco ogni parola.
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