VADO A LETTO con tre idee in testa. La prima, è che la mia lotta contro le dipendenze procede bene. Non vi spaventate, non sono dipendenze illecite: mi riferisco a quelle cose un po' inutili che ti fanno disperdere tempo ed energie. Ad esempio, la televisione (che non guardo sistematicamente a questo punto da anni), oppure l'overload dei feed rss (anche quelli: vanno bene ma alla lunga diventano un delirio da seguire).
La seconda idea è conseguenza della prima: perché riguadagnare tempo? O meglio, perché suddividerlo così nettamente come sto cercando di fare, proprio io che sono sempre stato un "artista della divagazione"? L'idea me l'ha data un po' di tempo fa questo, un articolo-guida pubblicato anni addietro sul sito web di una associazione della Columbia University. In pratica, suggerimento per gli studenti del college su come si studia (e non si perde tempo). Mentre lo leggevo, mi è venuto in mente che è praticamente quello che faccio io nel mio tempo lavorativo: divago un po' troppo. È arrivato il momento di rimettersi nella direzione giusta.
E siccome fa parte del mio lavoro anche leggere libri - i libri che mi piacciono e mi nutrono - stasera la terza idea è che mentre mezza Italia se ne stava beata a seguire il comico natalizio di turno (quello che fa le lezioni che faceva il mio prof. d'italiano al ginnasio, spacciandole da anni per la rivoluzione culturale del Paese), me ne sono stato sul divano con un sottofondo musicale appropriato a leggere Regole d'ingaggio, il reportage sulla strage di Al-Haditha del 19 novembre 2005 di William Langewiesche che Adelphi ha pubblicato nell'economicissima e gustosa serie Biblioteca minima. Straordinario pezzo di giornalismo (questa volta uscito per il nuovo giornale per cui lavora, cioè Vanity Fair e non più Atlantic Monthly) che probabilmente viene sistematicamente ignorato dalle nostre scuole di giornalismo.
Adesso, quattro minuti prima di mezzanotte, me ne vado a letto soddisfatto.
29.11.07
Il vero e unico libro del leopardo
NON CI SONO mica solo io che faccio libri, sapete? Ce n'è uno che sta diventando la mia Bibbia quotidiana, da quando ho potuto installare MacOs X 10.5, cioè Leopard.
Si tratta della guida completa a Mac OS X Leopard di Luca Accomazzi e Lucio Bragagnolo. Un libro fantastico.
Si tratta della guida completa a Mac OS X Leopard di Luca Accomazzi e Lucio Bragagnolo. Un libro fantastico.
Mai più senza
PER GATTI INCONTINENTI
Nouvelle vague
UNA COSA CHE ho notato solo adesso. Della "new wave" francese, diciamo i cinque registi più significativi (Eric Rohmer, Claude Chabrol, Francois Truffaut, Jean-Luc Godard e Jacques Rivette), è morto solo Truffaut, peraltro giovane (aveva 52 anni nel 1984 e in poco più di 25 anni ha fatto tutto quel che poteva: davvero tanto).
Gli altri famosi critici dei Cahiers du cinéma, silenziosi e vecchietti, sono tutti ancora in circolazione. Rohmer ha 87 anni, Chabrol ne ha 77, Godard quasi 77 (è di dicembre), Rivette 86. Una generazione scapigliata ma longeva...
Gli altri famosi critici dei Cahiers du cinéma, silenziosi e vecchietti, sono tutti ancora in circolazione. Rohmer ha 87 anni, Chabrol ne ha 77, Godard quasi 77 (è di dicembre), Rivette 86. Una generazione scapigliata ma longeva...
28.11.07
Amica Invisibile
TROVO SUL BLOG di Donatella la storia di una "amica invisibile", una signora che lascia a giro per Milano - panchine, muretti, fioriere - oggetti quotidiani che non usa più con un foglietto che ne spiega la storia e che firma appunto come "amica invisibile". Verità o leggenda metropolitana?
27.11.07
Epifanie
HO SCRITTO UN libro sull'azienda e l'uomo più influenti del momento, secondo Fortune. Questo, ladies and gentlemen, è genuino senso della notizia... Che Emozione Apple!
Lo pensa anche Blogbabel
Lo pensa anche Blogbabel
26.11.07
Distrette vedute - de telefilmibus
HA RAGIONE GIANLUCA, ovviamente. E non ce n'è poi tanto da aggiungere. Oppure no: vediamo i temi di fondo. Una certezza c'è. Facciamo schifo. Perché? In che senso? È presto detto...
Abbiamo questo complesso di inferiorità, un'attitudine paragonabile solo ai tifosi del baseball italiano: "mica siamo americani, però poi nel nostro piccolo anche noi...". Nel nostro piccolo una cippa: produciamo serie televisive nostrano con lo stesso accorato slancio che ci mettevamo a fare i drammoni sceneggiati degli anni Sessanta. Solo che scimmiottiamo gli americani. E non abbiamo nessun Sergio Leone che ci mette qualcosa di suo: li scimmiottiamo e basta. Vengo e mi spiego.
Per quasi trent'anni abbiamo vissuto con una piacevole spaccatura culturale. Erano gli anni Ottanta quando da noi i telefilm, soprattutto le sit-com made in Usa, hanno cominciato a comparire. Arrivavano come riempitivi, come programmi-filler che la tivù privata metteva a ciclo continuo, una sorta di striscia quotidiana dal lunedì al venerdì. Ignoravamo totalmente che potessero avere un arco di storia più complesso perché non venivano programmate in sequenza, venivano tagliate e rimontate, venivano doppiate barbaramente da caterve dei nostri bravissimi professionisti del doppiaggio. Cioè, la peggiore iattura che ci potesse capitare.
Non parlo degli Amendola - peraltro geniale artista, il padre - quanto degli onesti professionisti figli del teatro e delle scuole di dizione Rai. Hanno massacrato - perché non potevano fare altro - un intero mondo di accenti e sfumature. Come restauratori di affreschi che imbiancano senza pietà perché hanno solo la tinta bianca. Poi, quando abbiamo avuto ben piantato nel cranio il telefilm "adattato" (e i cartoni animati giapponesi, "adattati" anche questi ma col machete), è arrivata la grande crisi.
Noi praticamente non ce ne siamo accorti, ma a partire da un certo punto della fine degli anni Novanta gli Stati Uniti sono entrati in flip. Loro il telefilm e la sit-com l'hanno inventato, di questo bisogna rendergliene merito. E una scuola, che parte da Lucille Ball e il suo I Love Lucy (praticamente inedito in Italia, ma ancora più che guardabile con il gusto moderno nonostante sia iniziato nel 1951) e continua con il lavoro anche del suo allora marito Desi Arnaz e del loro studio di produzione Desilu. Loro hanno forgiato squadre di autori, di produttori, di attori. Perché i direttori di rete americani sono se possibile ancora più bestie dei nostri. Ma c'è un ma.
Qualche giorno fa ero a pranzo a Bologna con alcune persone e si parlava di telefilm. Quello di Mediaset (ce n'è sempre uno di Mediaset quando si va a pranzo e si parla di tivù) diceva: "Non ci possiamo paragonare agli americani, loro hanno una potenza di fuoco nella produzione che noi non ci sogniamo nemmeno". Right! E ha ragione Gianluca quando dice: una serie americana repellente sta comunque ad una italiana bella quanto uno scarabocchio del Shakespeare all'opera omnia di Federico Moccia. Però gli americani non sono nati imparati.
Il telefilm Usa non viene bene perché usano il basilico californiano che qui non cresce. Il telefilm Usa viene bene perché i loro attori sanno fare una cosa che alla maggior parte dei nostri risulta ignota: sanno recitare. Anche le svampitelle di 19 anni che Gianluca pubblica come wallpaper. E i loro sceneggiatori e soggettisti sanno scrivere. Per la televisione, non per la (presunta) letteratura da accademia svedese. Anche quelli più frustrati che non riescono ad arrivare a fine serata.
E poi i loro registi e compositori... indovinate? Sanno dirigere e comporre. Potremmo andare avanti così per ore. I nostri sognano Sergei Eisenstein, i loro si leggono qualche romanzo giallo e tirano fuori Hill Street Blues (Bochco passa attraverso la Mtm Enterprises, dove a dirigere la baracca c'è Mary Tyler Moore, una che per la televisione ha fatto qualcosa). Dalle nostre parti, quando il cinema italiano aveva cominciato a scendere una china da cui non si è più ripreso, l'unica ventata originale è arrivata dallo spaghetti western. Nel telefilm nostrano, invece, niente. Nemmeno quando gli Stati Uniti sono entrati in flip.
C'era una copertina di Time, se non sbaglio, che spiegava bene il problema. Era dedicata alla fine di Friends, cioè il 6 maggio 2004. Il settimanale faceva due conti e più o meno diceva: dieci anni fa quando è cominciato Friends, c'erano centinaia di telefilm in programmazione. Oggi sono ridotti a qualche decina, in rapido calo. È la fine di un'era?
In realtà, era il principio di una nuova era. Perché, forti della crisi partita a fine Novanta, gli americani hanno rilanciato sperimentando e investendo su novità formali e di sostanza. Robe come gli stracitati Lost, Desperate Housewives, 24, Battlestar Galactica, Boston Legal e poi tutta una nouvelle vague ispirata dal film American Beauty dove si gioca con l'eros e la morte, con la bellezza e il tema del doppio. (non sto a fare titoli, lavorateci da soli). Da noi? L'ondata di roba nuova, come Csi ad esempio, ha riempito le pagine dei giornali e coinciso con la comparsa del download illegale di materiale originale (su questo torno tra un attimo), ma non ha minimamente scosso l'anima della nostra televisione. Le due "serie" che ancora fanno discutere i creativi e dirigenti della televisione nostrana sono Un medico in famiglia ed Elisa di Rivombrosa. Successi genuini e inattesi. Giustamente studiati. Ma anche Maurizio Costanzo e Bruno Vespa fanno audience: mica per questo bisogna dargli retta e studiarli come esempi da riprodurre.
Il donwload invece ci ha fregati tutti. Ha saldato la frattura, ha sparso il seme di una pianta nuova, ha curvato lo spazio per riportare vicini due fronti (quello Usa e quello italiano) che parevano separati da una distanza incolmabile.
Intendiamoci: in Italia non ci sono milioni di anglofoni che si dilettano a guardare tutta la programmazione televisiva anglo-americana. Invece, i telefilm scaricati hanno agito sulle élite tecnologiche e piano piano hanno cominciato ad attecchire. Perché ha "toccato" qualche centinaio di migliaia di persone, cambiato i gusti, restituito il piacere di una lingua originale (sottotitolata) che comunque suonava genuina, non artificiale come i nostri anodini doppiatori. Hanno cambiato i pochi che poi ne hanno parlato, cambiandoli, i molti.
E i Dvd, col doppio audio e la capacità di mettere ordine fra le stagioni nella leggerezza dei palinsesti, hanno chiuso il cerchio. Il prodotto telefilm – una specialità tutta americana come la torta di mele e il tacchino ripieno - l'hanno capita i consumatori ma non i produttori di televisione nostrana. E tantomeno gli attori e i registi. Gli sceneggiatori non sono pervenuti.
Cosa penso io in sostanza? Negli Usa non hanno una "tecnologia da fantascienza" per i telefilm. Hanno solo una industria diversa. Che noi scimmiottiamo senza in realtà preoccuparci di capire come funziona. Facessimo ancora il Tenente Sheridan magari faticheremmo ma almeno ci sarebbe il guizzo di originalità autarchico. Facessimo i cinesi (una volta si diceva "i giapponesi") del settore, riusciremmo a copiare qualcosa di più che non la marca di videocamera usata per le riprese o i font della titolatrice per i pannelli di testa e di coda. Parliamoci chiaro: ha ragione Gianluca. I nostri telefilm sono inguardabili. E chi li realizza meriterebbe la peggiore tra le torture: guardarli almeno una volta. Perché evidentemente non lo fa mai. Quelli fatti in America, anche le puzzole più puzzole, sono meglio, molto meglio. In compenso, come osserva sempre Gianluca, noi sappiamo fare la pizza. Non si può mica avere tutto, no?
Abbiamo questo complesso di inferiorità, un'attitudine paragonabile solo ai tifosi del baseball italiano: "mica siamo americani, però poi nel nostro piccolo anche noi...". Nel nostro piccolo una cippa: produciamo serie televisive nostrano con lo stesso accorato slancio che ci mettevamo a fare i drammoni sceneggiati degli anni Sessanta. Solo che scimmiottiamo gli americani. E non abbiamo nessun Sergio Leone che ci mette qualcosa di suo: li scimmiottiamo e basta. Vengo e mi spiego.
Per quasi trent'anni abbiamo vissuto con una piacevole spaccatura culturale. Erano gli anni Ottanta quando da noi i telefilm, soprattutto le sit-com made in Usa, hanno cominciato a comparire. Arrivavano come riempitivi, come programmi-filler che la tivù privata metteva a ciclo continuo, una sorta di striscia quotidiana dal lunedì al venerdì. Ignoravamo totalmente che potessero avere un arco di storia più complesso perché non venivano programmate in sequenza, venivano tagliate e rimontate, venivano doppiate barbaramente da caterve dei nostri bravissimi professionisti del doppiaggio. Cioè, la peggiore iattura che ci potesse capitare.
Non parlo degli Amendola - peraltro geniale artista, il padre - quanto degli onesti professionisti figli del teatro e delle scuole di dizione Rai. Hanno massacrato - perché non potevano fare altro - un intero mondo di accenti e sfumature. Come restauratori di affreschi che imbiancano senza pietà perché hanno solo la tinta bianca. Poi, quando abbiamo avuto ben piantato nel cranio il telefilm "adattato" (e i cartoni animati giapponesi, "adattati" anche questi ma col machete), è arrivata la grande crisi.
Noi praticamente non ce ne siamo accorti, ma a partire da un certo punto della fine degli anni Novanta gli Stati Uniti sono entrati in flip. Loro il telefilm e la sit-com l'hanno inventato, di questo bisogna rendergliene merito. E una scuola, che parte da Lucille Ball e il suo I Love Lucy (praticamente inedito in Italia, ma ancora più che guardabile con il gusto moderno nonostante sia iniziato nel 1951) e continua con il lavoro anche del suo allora marito Desi Arnaz e del loro studio di produzione Desilu. Loro hanno forgiato squadre di autori, di produttori, di attori. Perché i direttori di rete americani sono se possibile ancora più bestie dei nostri. Ma c'è un ma.
Qualche giorno fa ero a pranzo a Bologna con alcune persone e si parlava di telefilm. Quello di Mediaset (ce n'è sempre uno di Mediaset quando si va a pranzo e si parla di tivù) diceva: "Non ci possiamo paragonare agli americani, loro hanno una potenza di fuoco nella produzione che noi non ci sogniamo nemmeno". Right! E ha ragione Gianluca quando dice: una serie americana repellente sta comunque ad una italiana bella quanto uno scarabocchio del Shakespeare all'opera omnia di Federico Moccia. Però gli americani non sono nati imparati.
Il telefilm Usa non viene bene perché usano il basilico californiano che qui non cresce. Il telefilm Usa viene bene perché i loro attori sanno fare una cosa che alla maggior parte dei nostri risulta ignota: sanno recitare. Anche le svampitelle di 19 anni che Gianluca pubblica come wallpaper. E i loro sceneggiatori e soggettisti sanno scrivere. Per la televisione, non per la (presunta) letteratura da accademia svedese. Anche quelli più frustrati che non riescono ad arrivare a fine serata.
E poi i loro registi e compositori... indovinate? Sanno dirigere e comporre. Potremmo andare avanti così per ore. I nostri sognano Sergei Eisenstein, i loro si leggono qualche romanzo giallo e tirano fuori Hill Street Blues (Bochco passa attraverso la Mtm Enterprises, dove a dirigere la baracca c'è Mary Tyler Moore, una che per la televisione ha fatto qualcosa). Dalle nostre parti, quando il cinema italiano aveva cominciato a scendere una china da cui non si è più ripreso, l'unica ventata originale è arrivata dallo spaghetti western. Nel telefilm nostrano, invece, niente. Nemmeno quando gli Stati Uniti sono entrati in flip.
C'era una copertina di Time, se non sbaglio, che spiegava bene il problema. Era dedicata alla fine di Friends, cioè il 6 maggio 2004. Il settimanale faceva due conti e più o meno diceva: dieci anni fa quando è cominciato Friends, c'erano centinaia di telefilm in programmazione. Oggi sono ridotti a qualche decina, in rapido calo. È la fine di un'era?
In realtà, era il principio di una nuova era. Perché, forti della crisi partita a fine Novanta, gli americani hanno rilanciato sperimentando e investendo su novità formali e di sostanza. Robe come gli stracitati Lost, Desperate Housewives, 24, Battlestar Galactica, Boston Legal e poi tutta una nouvelle vague ispirata dal film American Beauty dove si gioca con l'eros e la morte, con la bellezza e il tema del doppio. (non sto a fare titoli, lavorateci da soli). Da noi? L'ondata di roba nuova, come Csi ad esempio, ha riempito le pagine dei giornali e coinciso con la comparsa del download illegale di materiale originale (su questo torno tra un attimo), ma non ha minimamente scosso l'anima della nostra televisione. Le due "serie" che ancora fanno discutere i creativi e dirigenti della televisione nostrana sono Un medico in famiglia ed Elisa di Rivombrosa. Successi genuini e inattesi. Giustamente studiati. Ma anche Maurizio Costanzo e Bruno Vespa fanno audience: mica per questo bisogna dargli retta e studiarli come esempi da riprodurre.
Il donwload invece ci ha fregati tutti. Ha saldato la frattura, ha sparso il seme di una pianta nuova, ha curvato lo spazio per riportare vicini due fronti (quello Usa e quello italiano) che parevano separati da una distanza incolmabile.
Intendiamoci: in Italia non ci sono milioni di anglofoni che si dilettano a guardare tutta la programmazione televisiva anglo-americana. Invece, i telefilm scaricati hanno agito sulle élite tecnologiche e piano piano hanno cominciato ad attecchire. Perché ha "toccato" qualche centinaio di migliaia di persone, cambiato i gusti, restituito il piacere di una lingua originale (sottotitolata) che comunque suonava genuina, non artificiale come i nostri anodini doppiatori. Hanno cambiato i pochi che poi ne hanno parlato, cambiandoli, i molti.
E i Dvd, col doppio audio e la capacità di mettere ordine fra le stagioni nella leggerezza dei palinsesti, hanno chiuso il cerchio. Il prodotto telefilm – una specialità tutta americana come la torta di mele e il tacchino ripieno - l'hanno capita i consumatori ma non i produttori di televisione nostrana. E tantomeno gli attori e i registi. Gli sceneggiatori non sono pervenuti.
Cosa penso io in sostanza? Negli Usa non hanno una "tecnologia da fantascienza" per i telefilm. Hanno solo una industria diversa. Che noi scimmiottiamo senza in realtà preoccuparci di capire come funziona. Facessimo ancora il Tenente Sheridan magari faticheremmo ma almeno ci sarebbe il guizzo di originalità autarchico. Facessimo i cinesi (una volta si diceva "i giapponesi") del settore, riusciremmo a copiare qualcosa di più che non la marca di videocamera usata per le riprese o i font della titolatrice per i pannelli di testa e di coda. Parliamoci chiaro: ha ragione Gianluca. I nostri telefilm sono inguardabili. E chi li realizza meriterebbe la peggiore tra le torture: guardarli almeno una volta. Perché evidentemente non lo fa mai. Quelli fatti in America, anche le puzzole più puzzole, sono meglio, molto meglio. In compenso, come osserva sempre Gianluca, noi sappiamo fare la pizza. Non si può mica avere tutto, no?
Ossimori a 4 ruote
JAMES MAY PRESENTA tutte le domeniche "Top Gear", uno dei programmi di punta di BBC2 e un'ottima trasmissione di motori. Sul Telegraph di qualche giorno fa, ci regala la sua idea di cosa sia la 500, l'auto italiana e in generale come il diese rientri nel più generale schema delle cose:
As I've always understood things, there is only one way to drive a small Fiat, and that is without mercy. Here's how to do it. Select first, lift the clutch abruptly, mash the throttle pedal to the floor and when, and only when, the valve gear bursts through the bonnet, select second. Repeat the process until all the gears are used up.
A small Fiat will thank you for this, because that's what it was designed for. The original Cinquecento, the 126, the 127, the first Panda, the Uno, the Tipo, the second Cinquecento and the Seicento - they all gave their best when they were giving their all. You might not actually have gone very fast, but that is the Italian way - noise, drama, quite a lot of arm-waving, but very little actually being achieved. It was endlessly entertaining and endearing, like a waiter's arithmetic in the lira era.
(...)
In any case, the 500 is merely a Panda like mine under its shamelessly nostalgic skin, so at least it would be a hoot to drive. Imagine my dismay, horror, abject misery, self-doubt, spiritual paralysis and even downright disappointment when I turned the key and discovered that I'd been sent the diesel version.
As I've always understood things, there is only one way to drive a small Fiat, and that is without mercy. Here's how to do it. Select first, lift the clutch abruptly, mash the throttle pedal to the floor and when, and only when, the valve gear bursts through the bonnet, select second. Repeat the process until all the gears are used up.
A small Fiat will thank you for this, because that's what it was designed for. The original Cinquecento, the 126, the 127, the first Panda, the Uno, the Tipo, the second Cinquecento and the Seicento - they all gave their best when they were giving their all. You might not actually have gone very fast, but that is the Italian way - noise, drama, quite a lot of arm-waving, but very little actually being achieved. It was endlessly entertaining and endearing, like a waiter's arithmetic in the lira era.
(...)
In any case, the 500 is merely a Panda like mine under its shamelessly nostalgic skin, so at least it would be a hoot to drive. Imagine my dismay, horror, abject misery, self-doubt, spiritual paralysis and even downright disappointment when I turned the key and discovered that I'd been sent the diesel version.
25.11.07
If you'll just follow me to the corral, sir...
24.11.07
Emozione crack!
PAOLO ATTIVISSIMO VINCE il premio del giornalista che cita per primo Emozione Apple sulla stampa quotidiana: un articolo sulla Gazzetta dello Sport di oggi racconta come craccare e perché un iPhone fresco fresco. Non solo en passant ci sono anche io come consulente, blogger (lo state leggendo adesso, è il mitico Posto di Antonio) e Giovane Autore. Ma soprattutto Paolo fornisce anche una informazione vitale per chi volesse iphonizzarsi: non ha senso acquistare un iPhone "sbloccato" da qualche mariuolo a 999 euro o cose simili. Si rompe la garanzia, non si può aggiornare lo strumento in maniera facile, soprattutto si paga per qualcosa che si riesce mediamente a fare in casa. Insomma: non fatevi turlopinare!
Il Giovane Autore, Il Posto di Antonio ed Emozione Apple ringraziano sentitamente Mr. Attivissimo. Namaste: We honor the place where you and iPhone become one
Il Giovane Autore, Il Posto di Antonio ed Emozione Apple ringraziano sentitamente Mr. Attivissimo. Namaste: We honor the place where you and iPhone become one
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La Domenica del Corriere
HA APERTO IERI la mostra milanese dedicata al fiore all'occhiello della milanesità. Cioè, la mostra dedicata alla Domenica del Corriere, il settimanale nato nel 1899 come allegato del Corriere della Sera che ha definito lo stile e il gusto del Novecento. La mostra è a Palazzo Reale sino al prossimo 3 febbraio: tavole originali, illustrazioni, la storia e gli stili del settimanale, la sua parabola attraverso 370 "pezzi" d'epoca.
La cosa mi fa venire in mente, tra l'altro, che in alcune edicole di Milano c'è da tempo una iniziativa legata alla capacità del gruppo RCS di gestire le rimanenze del suo archivio: a pagamento (non ricordo la cifra, però) è possibile richiedere un numero originale della Domenica corrispondente alla propria data di nascita.
Oggi il testimone domenicale per quanto riguarda la cultura nei giornali italiani è passato senza ombra di dubbio ad un altro gruppo, cioè il Domenicale del Sole 24 Ore (se non l'avete mai visto, vi siete persi un mondo: domani dovete rimediare) e più di recente ma in misura minore a Domenica di Repubblica.
La cosa mi fa venire in mente, tra l'altro, che in alcune edicole di Milano c'è da tempo una iniziativa legata alla capacità del gruppo RCS di gestire le rimanenze del suo archivio: a pagamento (non ricordo la cifra, però) è possibile richiedere un numero originale della Domenica corrispondente alla propria data di nascita.
Oggi il testimone domenicale per quanto riguarda la cultura nei giornali italiani è passato senza ombra di dubbio ad un altro gruppo, cioè il Domenicale del Sole 24 Ore (se non l'avete mai visto, vi siete persi un mondo: domani dovete rimediare) e più di recente ma in misura minore a Domenica di Repubblica.
22.11.07
I dubbi del Giovane Autore
DUNQUE, IL LIBRO l'ho fatto. Si chiama Emozione Apple. C'è voluto un po', anzi un bel po', ma alla fine è pronto ed è stato tirato fuori dal magazzino per la distribuzione dell'editore. A questo punto, direte voi, il più è fatto. Il Giovane Autore si è spremuto come un limoncello, ha cercato, indagato, viaggiato, discusso, intervistato. I più sgamati aggiungeranno: si è fatto pure un mazzo tanto per farlo "fisicamente" il libro (con l'aiuto e la guida della mitica Paola Conversano, la mia fata delle parole, l'editor che riguarda e spulcia e controlla e verifica e se non è convinta lei allora si deve riguardare, ricontrollare, rispulciare e riverificare tutto), a partire dalla scelta della foto di copertina sino alle immagini che ci sono dentro - bellissime! - per arrivare alla gestione delle bozze, i mille tira-e-molla, i particolari più insospettabili (per chi i libri li legge) che ti fanno diventare matto. E invece no.
Invece, il bello comincia adesso. E il vostro Giovane Autore è pieno di dubbi. Perché quando si scrive un libro, ha scoperto, poi si ha uno stato d'animo un po' contraddittorio, teso, praticamente stressato. Da un lato, non ci provi neanche a guardarlo perché ti verrebbe da riscriverlo tutto. Hai il terrore di trovare gli errori - maledizione, dopo tre bozze e mille riletture! -, gli svarioni, le cavolate. Insomma, ti fa paura. Dall'altro lato, però, ne sei orgoglioso da morire. Li chiamano anche "bimbi di carta", i libri (è una espressione di Oriana Fallaci, che ai bimbi veri aveva sostituito quelli di cellulosa). E per questo motivo, perché sono i tuoi "bimbi", gli vuoi bene, li vorresti vedere felici, nelle case di tutti gli italiani...
E invece il vostro Giovane Autore non ha la più pallida idea di come fare. È annicchilito dallo sforzo sovrumano. Il libro, oggigiorno, non lo si fa per diventare ricchi (neanche il giornalista, se è per quello. Il blogger poi non ne parliamo). È un modo per restituire qualcosa della passione, dell'attenzione e della capacità di stupire ogni giorno delle migliaia di persone che si incontrano, che leggono su Internet, che ti fanno capire tantissime cose. Per questo, si cerca di dare il massimo: il Giovane Autore, che magari pecca di ingenuità, ce l'ha messa tutta. E adesso come farà? Chi porterà la lieta novella in giro per le conversazioni della rete? Chi lo aiuterà a fare felice il suo "bimbo di carta"?
Invece, il bello comincia adesso. E il vostro Giovane Autore è pieno di dubbi. Perché quando si scrive un libro, ha scoperto, poi si ha uno stato d'animo un po' contraddittorio, teso, praticamente stressato. Da un lato, non ci provi neanche a guardarlo perché ti verrebbe da riscriverlo tutto. Hai il terrore di trovare gli errori - maledizione, dopo tre bozze e mille riletture! -, gli svarioni, le cavolate. Insomma, ti fa paura. Dall'altro lato, però, ne sei orgoglioso da morire. Li chiamano anche "bimbi di carta", i libri (è una espressione di Oriana Fallaci, che ai bimbi veri aveva sostituito quelli di cellulosa). E per questo motivo, perché sono i tuoi "bimbi", gli vuoi bene, li vorresti vedere felici, nelle case di tutti gli italiani...
E invece il vostro Giovane Autore non ha la più pallida idea di come fare. È annicchilito dallo sforzo sovrumano. Il libro, oggigiorno, non lo si fa per diventare ricchi (neanche il giornalista, se è per quello. Il blogger poi non ne parliamo). È un modo per restituire qualcosa della passione, dell'attenzione e della capacità di stupire ogni giorno delle migliaia di persone che si incontrano, che leggono su Internet, che ti fanno capire tantissime cose. Per questo, si cerca di dare il massimo: il Giovane Autore, che magari pecca di ingenuità, ce l'ha messa tutta. E adesso come farà? Chi porterà la lieta novella in giro per le conversazioni della rete? Chi lo aiuterà a fare felice il suo "bimbo di carta"?
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19.11.07
Carpiatissimo: Emozione Apple
SIGNORE E SIGNORI, con una certa emozione il vostro Giovane Autore riemerge dal niente in cui si è confinato ultimamente e prepara lo strepitoso annuncio. Il nuovo frutto di tanta fatica, il bimbo di carta come diceva l'Oriana Fallaci, è arrivato. Abbiamo un nuovo libro in commercio!
Si chiama Emozione Apple (il link è al sito dedicato, che presto si comincerà a riempire di piccole cose interessanti). È un lavoro che mi ha appassionato e fatto disperare per anni, in momenti nei quali pareva non se ne potesse più fare di nulla e in altri in cui invece bisognava fare tutto e di corsa. È un reportage durato sette anni su Apple, l'azienda di Cupertino che produce Mac, iPod e iPhone. Non è una storia, non è un manuale di istruzioni per usare iTunes. È un reportage e un'analisi, un tentativo di portare un piccolo contributo frutto di studio e di tante interviste e libri letti, viaggi su e giù per gli Stati Uniti e nottate a discutere sulla strategia di Apple e il suo significato.
Vi piacerà? Spero di sì. Per adesso si trova qui. Ma datemi un attimo, fatemi organizzare e ne vedrete delle belle! Dopotutto, sono appena atterrato dal più lungo carpiato della mia vita... Intanto, voi spargete la lieta novella
Si chiama Emozione Apple (il link è al sito dedicato, che presto si comincerà a riempire di piccole cose interessanti). È un lavoro che mi ha appassionato e fatto disperare per anni, in momenti nei quali pareva non se ne potesse più fare di nulla e in altri in cui invece bisognava fare tutto e di corsa. È un reportage durato sette anni su Apple, l'azienda di Cupertino che produce Mac, iPod e iPhone. Non è una storia, non è un manuale di istruzioni per usare iTunes. È un reportage e un'analisi, un tentativo di portare un piccolo contributo frutto di studio e di tante interviste e libri letti, viaggi su e giù per gli Stati Uniti e nottate a discutere sulla strategia di Apple e il suo significato.
Vi piacerà? Spero di sì. Per adesso si trova qui. Ma datemi un attimo, fatemi organizzare e ne vedrete delle belle! Dopotutto, sono appena atterrato dal più lungo carpiato della mia vita... Intanto, voi spargete la lieta novella
18.11.07
9.11.07
The Show Must Go On
VISTO CHE SIAMO in un po' a scriverlo in rete, domani sono a Firenze a questo convegno sulle reti civiche (ammesso che riesca a prendere il treno stasera), poi domenica mattina vado direttamente ad Atlanta, in Georgia (Usa, non ex repubblica sovietica) e poi torno con direzione Bologna a metà della prossima settimana, già che ci sono passo il fin settimana a Firenze (dai miei) e quindi – a Dio piacendo – rientro a Milano la domenica dopo. Ce la posso fare...
7.11.07
Spin-off
NON È CHIARO a tutt'oggi quale sarà il destino di Caprica, il più volte annunciato spin-off di Battlestar Galactica. Invece, è chiaro che prima della quarta stagione (che arriverà a primavera), ci sarà un film per la televisione di due ore: si tratta di Razor ed avrà come protagonista l'equipaggio della Pegasus, l'altra corazzata spaziale sopravvissuta all'attacco dei Cylon alle 12 colonie. Verrà trasmesso il 24 novembre e immediatamente dopo, meno di dieci giorni, sarà già disponibile per il mercato Dvd. In pratica, segue le fila degli OAV (Original Anime Video) giapponesi: questi ultimi vengono realizzati solo per il mercato delle videocassette (oggi Dvd), mentre Razor un passaggio in televisione lo farà, ma praticamente è un pro-forma.
Da notare peraltro che il 30 ottobre, quindi quasi un mese prima della sua trasmissione ufficiale, a quanto pare Razor ha fatto la sua comparsa su Internet... Ora vado, esercito il mio diritto di cronaca come giornalista, e ve ne fornisco una recensione in anteprima. Molto in anteprima, perché prima che venga trasmesso in Italia ci vorranno due annetti buoni buoni...
Da notare peraltro che il 30 ottobre, quindi quasi un mese prima della sua trasmissione ufficiale, a quanto pare Razor ha fatto la sua comparsa su Internet... Ora vado, esercito il mio diritto di cronaca come giornalista, e ve ne fornisco una recensione in anteprima. Molto in anteprima, perché prima che venga trasmesso in Italia ci vorranno due annetti buoni buoni...
6.11.07
Pippe Nation
MENTRE IL CORRIERE, giornale più "tradizionale" per l'illuminata borghesia lombarda, cavalca la globalizzazione con uno dei consueti panorami fotografici di bellezze desnude (questa volta la lingerie di stilisti cinesi, indossate da avvenenti modelle asiatiche), lo spiritello porcello di Repubblica, quotidiano "gggiovane" per le nuove generazioni digitali, regala oggi agli occhi dei suoi affamati lettori lo spazio della galleria per immagini soft-core con al centro le protagoniste virtuali dei videogames, ovviamente spogliate anche loro.
Ironicamente, guardando l'indirizzo della pagina che ospita le foto, si scopre che sta sotto la directory "Scienza e tecnologia". E meno male...
Ironicamente, guardando l'indirizzo della pagina che ospita le foto, si scopre che sta sotto la directory "Scienza e tecnologia". E meno male...
4.11.07
È domenica, e Fastweb ancora non funziona (maledetto lui)
NONOSTANTE LE TREMENDE difficoltà di connessione (tremende! tremende!), è il momento di Doonesbury, del solito Gary B. Trudeau
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