27.10.13

Check your contract, son.

DOMENICA CON METEO altalenante: nebbia e forse pioggia, a tratti però fa capolino il sole. Per noi c'è Doonesbury di Garry B. Trudeau. Occhio perché B.D. è, assieme a Mike Doonesbury, uno dei due personaggi originali delle sue strip, e le trasformazioni di B.D., militarista reduce da due guerre con un'occhio da "destra compassionevole" ma non convertita, sono una delle correnti più profonde ed efficaci del lavoro di Trudeau.


20.10.13

Problem?

DOONESBURY, GARRY B. Trudeau, la domenica. C'è altro da dire?


15.10.13

Al mio tre, trasferiamo il file

SI POTREBBE DIBATTERE a lungo - e c'è chi l'ha fatto - se sia lo strumento con cui lo esprimiamo a determinare il pensiero o se il pensiero si manifesti a prescindere dal pensiero. Cioè: scriverei lo stesso romanzo se dovessi usare carta e penna, oppure macchina per scrivere oppure un moderno computer?

Beh, c'è chi passa - come il sottoscritto - tantissimo tempo a parlare degli strumenti più che dei contenuti: è un vizio antico, contemplativo, forse figlio dei miei anni universitari o di qualche mia nevrosi, chi può dirlo. E c'è invece chi si mette lì e fa, scrive, come Paul Sheldon, il protagonista di Misery, a prescindere da qualsiasi contesto.

Però, parlando di strumenti, se ne trovano di interessanti. Come questi Neo 2 (e volendo anche Dana) di Alphasmart. Praticamente tastiere con schermo LCD minimal, che hanno settimane di autonomia e permettono di concentrarsi sulla scrittura (elettronica) senza perdere tempo con nient'altro. Ma poi, come si fa a esportare il frutto di tanta fatica nel più normale PC o Mac?

[SPOIL] Niente di più semplice: come illustra il video qui sotto, si connette con la presa USB il Dana 2 al Mac, si apre il programma di videoscrittura e lui simula di essere una tastiera, "sparando" il file di testo come input dai tasti (virtuali) e "copiandolo" così sul foglio virtuale. Ah, mica male, ci vuole solo un po' di tempo e pazienza...

13.10.13

If you do.

DOONESBURY DI DOMENICA, come sempre grazie a Garry B. Trudeau.


10.10.13

Il grido di allarme delle altre compagnie aeree italiane: anziché salvare due volte Alitalia, il governo pensi anche a noi

CI SONO TANTE compagnie aeree e aziende dell'indotto in Italia oltre alla compagnia di bandiera. Veramente tante, piccole e medie, che stanno bocceggiando se non sono già morte. Da quando ho iniziato a volare sistematicamente, dieci anni fa, ce ne siamo già giocate 30, con la perdita di circa 20mila posti di lavoro. Senza che il Governo italiano alzasse un dito (dal 2000 a oggi: D'Alema, Amato, Berlusconi, Prodi, ancora Berlusconi, Monti, adesso Letta) per loro ma solo per Alitalia. Anzi, molto più di un dito.

E c'è poi un altro capitolo: il gioco di squadra. La stessa Eni che adesso minacciava di togliere il carburante ad Alitalia se non paga, in realtà fa partita a sé: contratti agli stranieri mentre la francese Total a noialtri non ha mai dato neanche una goccia di carburante. Almeno, questo è il quadro che viene dipinto da Alfredo Cestari, Winfly, che denuncia una situazione insostenibile. Me ne ero occupato un po' di tempo fa per L'Impresa, adesso mi fa piacere vedere che c'è chi cerca di far capire, alle Istituzioni e all'opinione pubblica, che aviazione civile in Italia non vuol dire solo Alitalia.

Per completezza, ecco il comunicato diffuso poco fa da Cestari:

“Il Governo ha già salvato una volta Alitalia. Riteniamo sia giunto il momento che guardi con attenzione anche alle decine di piccole compagnie nazionali che, da sempre sole, rischiano di fallire a causa della assoluta mancanza di assistenza e di mirate politiche pubbliche di rilancio”. 

L’ingegnere Alfredo Cestari è proprietario e presidente della Compagnia aerea italiana Winfly, attiva nel trasporto passeggeri, segmento executive/aerotaxi. “Rispettiamo Alitalia e la sua lotta per la sopravvivenza che, ci auguriamo, potrà trovare esito positivo. In questo delicatissimo momento le altre compagnie italiane, però, non hanno mai ottenuto nessun tipo di aiuto da parte del Governo. Il settore vive una grave crisi che si ripercuote su tutte le aziende, non solo su Alitalia. Tentare di risalvare la ex compagnia di bandiera ancora una volta con forme di accompagnamento pubblico, e quindi con i soldi dei contribuenti, sarebbe difficilissimo da spiegare alle compagnie che portano in alto l’Italia nel mondo sempre e comunque, anche senza che il Governo abbia mai adottato nei loro confronti le pur necessarie strategie di salvataggio”.
La denuncia si fa dettagliata: “Negli ultimi 10 anni circa 30 compagnie italiane hanno dichiarato fallimento, ulteriori 13 sono entrate in uno stato di inattività con licenza sospesa e ben 12 hanno chiesto aiuto allo Stato attraverso l’erogazione della CIG per il proprio personale. La conseguenza è che circa 20.000 dipendenti diretti, dai piloti agli amministrativi, 10 anni fa avevano un lavoro e oggi non l’hanno più”. 

Continua: “Il 5 luglio scrissi al Presidente del Consiglio, ai Ministri all’Economia e Finanze, sviluppo Economico, Infrastrutture e trasporti chiedendo un incontro per sottoporre una possibile soluzione. Non sono mai stato chiamato per un confronto. Chiediamo al Governo che le grandi aziende controllate dallo Stato all’estero si comportino con noi come le aziende di Stato francesi, inglesi o tedesche nei confronti delle compagnie dei loro Paesi. Non si è mai verificato che una compagnia Italiana abbia preso una commessa dalla Total; troppo spesso invece le commesse dell’Eni finiscono appannaggio di aziende non italiane”. 

Continua: “In assenza di nuove o rinnovate strategie di sviluppo, il settore è destinato a soccombere nella parte relativa all’iniziativa imprenditoriale privata con conseguenti ricadute negative anche per tutto l’indotto rappresentato dalle migliaia di addetti degli aeroporti minori non serviti dai voli di linea (che in Italia contano transiti di pressoché esclusiva natura charter e aerotaxi) e di quelli delle aziende di componentistica aeronautica le cui commesse sono legate allo sviluppo commerciale dell’aviazione”. 

Conclude: “Abbiamo pensato di consorziarci per aggredire i mercati esteri non saturi come quelli italiani ed europei. Lo stiamo facendo da soli. Ci manca l’accompagnamento del nostro Governo”.

9.10.13

L'occhio del mirino

CI SONO COSE che passano sotto il filo dell'attenzione, che scivolano via e che sembra quasi che siano naturali (e ovviamente tali non sono). E altre che vanno sotto l'occhio di bue, vengono inquadrate, appaiono decisamente artificiali, ci si fa caso. Un esempio? iOS 7.

Il sistema operativo appena rilasciato da Apple per i suoi apparecchi Post-PC è stato completamente ridisegnato. Ha numerose migliorie e cambiamenti tecnologici, la maggior parte dei quali sono assolutamente invisibili all'utente ordinario (c'è finalmente Text Kit, il framework per la gestione del testo RTF, per dire) e una gigantesca opera di redesign dell'interfaccia. Lavoro fatto da Jony Ive e dai suoi esperti del settore design, dopo che è stato accompagnato alla porta Scott Forstall e con lui il partito (a suo tempo ben visto da Steve Jobs) dello "scheumorfismo". Parola ignota a tutti fino al giorno prima che uscisse fuori l'argomento sulle icone e gli sfondi delle app "fatte a imitazione degli oggetti reali che rappresentano".

Ora, già che ci siamo, possiamo dircelo. L'interfaccia è stata criticata e prima ancora notata. Come il dente che fa male e sul quale la lingua non può smettere di battere, l'interfaccia nuova è stata soprattutto notata: è risultata "artificiale" e quindi sospetta, differente, quasi "rovinata", come se Ive avesse "rotto il giocattolino". Insomma, un casino.

Eppure, non è che l'interfaccia precedente, più o meno stabile dal primo iPhone del 2007 sino a metà 2013, fosse esattamente un fenomeno "naturale", trovato da Apple in un campo, ai piedi di un albero, e adottata come se fosse qualcosa di assolutamente invisibile e data per acquisita. Qualcuno l'ha progettata e posso garantire che si è fatto un discreto mazzo, continuando a lavorarci per un lustro, potenziandola e arricchendola nel rispetto di un certo tipo di tradizione e seguendo un librone di seicento pagine dedicato alle regole della User Interface di iOS.



Ora, secondo me questo è il motivo fondamentale per cui parecchia gente sta mettendo in croce iOS 7. Senza contare il disagio di fondo: c'è chi utilizza l'iPhone o l'iPad da anni, ci "abita" dentro, ci si muove a suo agio senza avere al tempo stesso attitudini da nerd o voglia di stare a imparare cose complicate un'altra volta. Il primo approccio è stato buono, le cose sono migliorate, perché cambiare? Dopotutto, in ambiente Windows, uno dei più grandi regali che Microsoft ha fatto al mondo è stato tenere XP "fermo" come interfaccia per sette anni, rendendolo uno standard. Poi però diventa un problema, perché non si capisce il motivo per cui uno dovrebbe rivedere in un lasso di tempo così breve (per il mondo non tecnologico) l'interfaccia del computer.

Provate a immaginare se dopo cinque o dieci anni da quando avete comprato l'auto e la volete cambiare arrivasse uno che dicesse: «Da quest'anno cambiamo l'interfaccia delle automobili. Via il volante, mettiamo una barra al centro, poi i pedali diventano leve da tirare, e il contachilometri si fa con un nastro che scorre sul soffitto». Non solo: il cambiamento si applica anche retroattivamente alla maggior parte dei veicoli in circolazione, diciamo da Euro 2 in su. E se non aggiorni l'interfaccia, niente più parcheggio fuori dal tuo quartiere, niente più autostrada e sulle provinciali e statali vai piano e male. La gente non la prenderebbe bene. E questo è il motivo di fondo per cui molti non la prendono bene questa volta: il cambiamento non piace. Tendiamo all'omeostasi anche se in realtà tutto scorre, tutto è flusso.

Senonché, come ho letto in una recensione di iOS 7 e come è accaduto anche a me (che l'ho visto a San Francisco durante la presentazione ma poi l'ho rivisto solo al momento del download definitivo qualche settimana fa), questo è un cambiamento che "cresce dentro di te". All'inizio non ti piace, poi piano piano - qualche giorno - ti abitui e comincia a piacerti parecchio. Cresce. Diventa fico.

Buffa la vita, alle volte, no?

6.10.13

Kowloon–Canton Railway (British section)

PER CHI AVESSE interesse in questo genere di cose, un video d'antan che mostra il collegamento ferroviario tra Canton e Kowloon nel periodo pre-1975 sino al 1983. Poi è cambiato tutto. Più avanti vedremo anche la fine del vecchio aeroporto di Honk Kong.



Mi sorprende sempre la maniera con la quale noi esseri umani (o sarebbe meglio dire: alcuni di noi) umanizzano cose inerti e artificiali come le linee ferroviarie neanche fossero creature vive e quando esse terminano si perdono nel rimpianto, neanche fosse scomparsa una persona cara.


House of Cards (2013)

NO, NON STIAMO parlando del telefilm con Kevin Spacey prodotto da Netflix. Quello che rivoluziona le modalità di fruizione e bla bla bla. Di quello ne parliamo un'altra volta. Invece, questo House of Cards è il succoso B movie di arti marziali e dintorni girato nell'improbabile Brisbane, Australia, da un gruppo di appassionati che nella vita fanno tutti più o meno altro ed è la dimostrazione di dove si può arrivare con la tecnologia anche low budget. Parecchio lontano.


Ci sono scollature di regia, buche di trama, irregolarità di senso e di ritmo, inquadrature dannate e mille altre cose. È veramente fatto da chi non si occupa di cinema, anche se lo vorrebbe. Poi però vai a vedere e scopri che autore, regista, interprete principale e produttore, addetto a questo e addetto a quell'altro è sempre la stessa persona. Stiamo parlando di un tizio che è mosso da un'ambizione forse superiore al suo talento ma solo perché l'ambizione è veramente tanta: Ian Chinsee, esperto di arti marziali (soprattutto spadaccino, però esperto martial artist in wushu), laureato in psicologia alla UCLA, studia medicina, ha un vero lavoro in ospedale di giorno e la notte e nei fine settimana si sfonda e praticamente tutto da solo come "motore" produce e realizza un film di due ore. Sorprendente esercizio di volontà.

La storia è quella di una confraternita di assassini le cui storie si intrecciano con quelle di un giornalista in crisi professionale e varie altre cose che non voglio anticipare. A differenza di Sharknado, di cui parlavo qualche giorno fa, questa è davvero una promozione amatoriale: gli attori ma anche i tecnici e gli addetti alla produzione sono sostanzialmente dilettanti e l'effetto B Movie è in realtà più una conseguenza di imperizia che non di "artigianalità non sofisticata". E, se si apprezza la schiettezza, la genuinità dell'atto, devo dire che è nel complesso molto meglio. Peccato per le scene di combattimento, spesso mal coreografate e soprattutto mal girate. Complimenti per il casting, perché le pin up si sprecano! E, visto che gli attori sono sempre gli stessi che fanno anche parti diverse, avrete modo di vederle e rivederle...

"The power of no... The power of no..."

WINTER IS COMING: e piove pure. Intanto, arriva anche Doonesbury di Garry B. Trudeau, come ogni domenica...


1.10.13

Le quattro regole per JJ

CARO JJ ABRAMS,

questo nuovo capitolo di Guerre Stellari vedi di non sbagliarlo (come altri hanno sbagliato gli ultimi tre...). Ecco le quattro regole che devi seguire...



The rules are:
1. The setting is the frontier.
2. The future is old.
3. The Force is mysterious.
4. Star Wars isn't cute.