IERI SERA, MENTRE noi si girava qui intorno, Aznar rispondeva delle sue presunte colpe davanti alla Camera dei Deputati di Madrid. Presunte per modo di dire, secondo la piccola, microscopica folla di trenta parenti e amici delle vittime dell'11 marzo spagnolo, che la Cnn+, quella che parla spagnolo, riprendeva dal basso a campo stretto come se fossero una massa oceanica e schiamazzante. Ma l'uomo (che tanto avrebbe voluto andarsene a Washington come ambasciatore, a chiacchierare col suo amico presidente) non si fa domare facilmente.
Nessun imbarazzo, dicevano Aznar e la sua tranquilla coscienza, perché "furono altri a mentire, ad attizzare il settarismo, a manipolare i sentimenti dell'opinione pubblica". L'ex premier non è arrivato a sposare le tesi di Giuliano Ferrara (ma il tono è quello) della manifestazione di piazza "spontaneamente pilotata" dall'allora opposizione. In compenso, la mia amica di El Pais - che avevo conosciuto a Denver un po' di tempo fa - è rispuntata fuori per le sue interviste tecnologiche ed era incazzata nera. Scusate il termine, lei magari è più addentro alla storia di me e quindi ne ha ben donde. Io riporto e basta.
Oggi, invece, c'è un qualche incontro bilaterale italospagnolo: Mr Berlusconi e Mr Fini sono stati avvistati in città. Da noi, invece, Jeremy Rifkin, ospite strapagato dei nostri anfitrioni, è stato invitato a tenere un discorsetto sulla fine del sogno americano e la nascita del sogno europeo. L'economista più in voga tra i fan di Bertinotti ha dimostrato di essere quantomeno fiero del suo paese. Con buona pace di quella sinistra che sposa chiunque paia criticare gli Usa, anche senza averne motivo.
Infine, mi sono trovato a presentare una tesi che gli stessi fan di Porto Alegre troverebbero un po' troppo "in avanti". Ho sostenuto con le persone che mi accompagnano, infatti, che lavorare per una multinazionale straniera, se pure è buono da un punto di vista occupazionale e certamente produce benessere indirettamente, in realtà contribuisce a drenare ricchezza al di fuori del nostro paese.
La mia tesi è nata come una provocazione in risposta di una (secondo me) provocazione: dopo il discorso di Rifkin, infatti, era partita la critica all'uomo e alla sua "superamericanità fuori luogo e infantile come sono infantili gli americani che io li conosco bene perché lì ci ho vissuto tre anni". Mi son sentito di rispondere con la prima idea massimalista che potessi partorire e - peccando per scarsa fantasia - ho fatto quel che potevo. Di sicuro non ho ricevuto un'accoglienza particolarmente calda: la mia non è parsa una tesi illuminante.
Forse perché è solo sciocca, o forse perché tocca la vita vera, intendo dire quella degli aperitivi e del "mi compro il golden retriever" con annesso giardinetto in un paesino fuori Milano, quella di "io sono professional, mica impiegata, lavoro a progetto, con obiettivi ma senza straordinari", insomma, forse toccando tutto questo la gente poi quando si organizza il capodanno gli rimangono sulla gola le lenticchie e la cosa non piace. Forse, oppure io sono pronto per essere internato in un centro sociale...
30.11.04
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2 commenti:
Non hai mica torto: un po' di casino c'era. Ho sfrondato, comunque rimango dell'idea che lavorare per le multinazionali etc- etc- sia un po' peggio per il sistema Paese che non lavorare per le nostre aziende. Oppure no?
Purtroppo il modo in cui Blogger gestisce i commenti è - per quello che ne capisco - l'unico modo in cui Blogger gestisce i commenti...
Per l'altra cosa: vero che i dualismi noi/loro non sono mai belli. Né che le semplificazioni del genere "dobbiamo fare il tifo per gli Azzurri dell'informatica (o della siderurgia, del manufatturiero)" sono un po' estremi. Però la bilancia dei pagamenti di un paese è la bilancia dei pagamenti di un paese. E oltre a import-export ci sono anche le società straniere da noi e le nostre da loro. Il senso di identità per gli europei (per noi europei) è qualcosa che sta cambiando molto velocemente. Ma una identità, un "sé" rispetto a un "altro da sé" esiste. Empiricamente ed economicamente.
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