IL COCKTAIL MARTINI ha una storia lunga e controversa. Secondo le solite autorevoli fonti, è stato battezzato con un altro nome: Martinez. Questi era un cocktail più dolce, nato all'incirca nel 1870 o giù di lì, in California. Forse a San Francisco oppure nella città di Martinez (esiste, esiste: c'è anche nato Joe DiMaggio nel 1914...). C'è anche chi dice che il Martinez sia la creatura di Jerry Thomas, famoso barista (si dovrebbe dire "bartender" in inglese, da noi "barman", lo so) che lavorava all'Occidental Hotel di San Francisco (di cui Mark Twain era un fedele cliente) a partire dalla fine degli anni '50 del Diciannovesimo secolo o forse all'inizio del decennio 1860.
Molte altre storie citano oltre a San Francisco anche Los Angeles come patria del cocktail martini e sono legioni le variazioni sul genere della ricetta di base. Una cosa per tutte è certa: ci mettevano dentro il vermouth francese. E anche parecchio. Poi, magari, uno sciabordio di gin (inglese) e di Vodka, coloranti, ghiaccio, anche succo d'arancia - magari amarognolo - e chissa cosa d'altro. Di sicuro olive, pezzi di limone, cipolline, anche qualche colorante alla coccinella...
Un benefattore della società americana ha provato ad accreditare con un suo monumentale trattato sui cocktail del Nuovo Mondo la tesi che il martini sia nato a New York nel 1912, per mano di certo signor Martini di Arma di Taggia, barista al Knickerbocker Hotel. Ma pare si tratti di un falso.
Per quanto il martini abbia avuto già nell'Ottocento un suo importante ruolo, è solo con il XX secolo che diventa un cocktail socialmente rilevante. Nel proibizionismo, infatti, era più semplice produrre il gin che non il whiskey, quindi la gente pian piano si era abituata a trangugiare il distillato di erbe aromatizzato al ginepro annegato in chissà quante varianze di vermouth e altre sostanze dubbie e colorate in mescita negli spekeas. Forse da qui viene la storia che mi hanno raccontato un po' di tempo addietro, ovvero che il cocktail martini "secco" (quello senza martini, come vedremo tra poco) nacque proprio per nobilitare l'effetto "alcolizzato perso" che dava il trangugiare una bicchierata di gin senza condimento. Fargli intravedere un po' di vermouth restituiva dignità sociale a una pratica altrimenti da etilisti allo stadio terminale.
A parte Hemigway e James Bond, due notori consumatori di martini, c'è da riflettere sulla composizione del cocktail. Si tratta di un rito antico quanto il mondo la disputa tra perfetti estranei su come debba confezionarsi il martini "perfetto". C'è chi lo mescola, chi lo mixa, chi ci mette il vermouth, chi l'oliva, chi il succo di frutta, chi il ghiaccio, chi no. Insomma, ce n'è ogni ben di Dio e soprattutto negli Usa - se vi trovate a passare di là - vale il detto prudenziale: non ordinare mai il martini da un barista che non conosci. L'unico modo per cui si può dire di conoscere un barista? Aver già bevuto il suo martini...
Nella lunga teoria delle formule in competizione (la pietra filosofale era niente in confronto), io vorrei dichiarare la mia appartenenza: nacqui alla scuola di Rolando, a Viareggio, e da lì non me ne vado. Lui di cocktail martini ne ha fatti, mi disse un tardo pomeriggio guardando oltre la spiaggia verso la fila di pescherecci all'orizzonte, una petroliera intera. Aveva sicuramente tratto ispirazione dal riflesso color petrolio che la superficie del cocktail deve raggiungere nei primi momenti di assestamento, ma l'immagine mi si è scavata nel profondo del cuore e a tutt'oggi non riesco a togliermela da davanti gli occhi, durante certe sere calde e un po' melanconiche.
In un film che amo molto del 1958, Teacher's Pet, con Clark Gable e Doris Day, si fa scempio del martini (mescolandolo nella bottiglia del vermouth). Ma non a caso è la storia di un giornalista e di una insegnante di giornalismo figlia di giornalista, quindi non poteva venir bene. Nella commedia di poco precedente, Auntie Mame, il sofisticato Patrick Dennis (autore e protagonista della rappresentazione oltre che del libro) offre un martini che prepara lasciando cascare un po' di vermouth nel bicchiere e buttandolo via prima di riempirlo di gin. Ecco, io appartengo a quella genìa lì, quello è il mio martini. Più o meno. Il vermouth, infatti, non è quello giusto e poi dovrebbe sporcare il ghiaccio per dodici secondi, prima di venir buttato per lasciare spazio al superalcolico.
Tra i cento che sono stati dati alle variazioni del cocktail (vodka, apple, in-and-out, sake, sweet e via dicendo), il più descrittivo per me è il Churchill, che si rifa ai gusti dello statista britannico:
A Churchill is made with dry gin, stirred, with an unopened bottle of vermouth waved above the shaker.
L'inizio è buono, direi. Infine, non solo si fa riferimento al generico "martini" per indicare i cocktail serviti nel suo caratterisitco bicchiere (chiamato appunto "martini glass"), ma si scrive sempre con la minuscola per non confonderlo con l'omonimo vermouth italiano.
E, non credo sia necessario dirlo però lo dico lo stesso, il cocktail martini fatto come Dio comanda conosce un solo vermouth: il Martini Dry e - sì, proprio quello - il Tanqueray Ten (l'unico distillato per quattro volte, che viene pure preso a piccole quantità per non alterarne il carattere) oppure il Bombay Sapphire (quello con cui si tagliava il chinino da bere nella buona società coloniale indiana) come gin. Mai, ripeto: mai il Gordon's, nonostante sia l'unico ad avere la Patente Reale. C'è chi ha provato il Plymouth, che è del 1793 e quindi il più antico distillato nelle isole britanniche, ma non ho informazioni più precise al riguardo. Appena posso, mi informo. E lo stesso farò circa il canadese Seagram, di cui mi hanno recentemente parlato.
Ecco, io il mio contributo l'ho dato. Mercoledì vado a un piccolo master sull'argomento e vi saprò dire forse di più.
11.7.05
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