13.7.06

Il tappo del porto di Genova

VISTO CHE NE fanno un gran parlare un po' tutti quanti, manco vivessimo nel regno della sociologia d'accatto, posso dire che cosa mi è passato per il cranio quando ho camminato, bello bollito, da Loreto sino al Duomo e ritorno la notte dei mondiali? (poi per le manifestazioni di Roma non so dire, non c'ero).

Beh, io ero alticcio e felice, sbandierante, urlante e un po' alienato. Una gioia cercata e stimolata, i quindici minuti - in realtà tre ore - di carnevale che non faccio mai. In un contesto di compatrioti di vecchia generazione (non c'erano né nuovi italiani né non italiani).

Penso, a guardare il mio ombelico e quelli che ho incrociato, che ci fosse un disagio più profondo: di quei disagi, mezze rabbie, "diversità umorali" che alle volte fanno diventare iperattivi e un po' violenti i bambini, per intenderci. Ecco, alla fine ho avuto come l'impressione che tutti quanti insieme abbiamo fatto vedere che in fondo al porto di Genova c'è il tappo e che se uno lo sfrucugna troppo, viene via, con tutto quello che ne consegue. Cioè, che non siamo come ci rappresentano giornali e televisione: siamo (tutti quanti) diversi, probabilmente peggiori, quasi certamente più disfunzionali, di sicuro più scamiciati e tatuati del previsto. Anche molto precari, in ultima analisi.

Dopodiché, prego: continuiamo a far lanciare le nostre avanguardie intellettuali nel campo avverso del pensiero strutturato. Soprattutto quelle che hanno seguito da vicino la folla sui maxischermi casalinghi e nelle cronache giornalistiche (con tutte le censure del caso, visto che il giorno dopo morti e feriti non pareva bello metterli in primo piano).

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