
Così, mi ritrovo come ulteriore ipotesi a parlare di libri - non ne parlo mai abbastanza considerando il peso che in questo periodo hanno nella mia vita e soprattutto non ne parlo mai in maniera sufficientemente "critica" - e dell'effetto che i libri hanno su di me. Ma non voglio dimenticare una delle premesse: Einaudi ha acchiappato un buon fenomeno letterario - se volessimo dipingere il catalogo della casa editrice probabilmente Wallace sarebbe una delle migliori bandiere - dopo che la piccola Minimum Fax ci ha scommesso e l'ha portato dalle nostre parti. Sono cose che succedono nel rutinante mondo editoriale.
Poi, però, avevo anche trovato, sempre cercando di costruire un percorso sull'idea originale di un lungo post su David Foster Wallace, la relativa voce su Wikipedia italiana. Per una volta, mi pare, dicono delle cose sensate. In particolare, a proposito di Una cosa divertente:
Stilisticamente presenta alcuni caratteri comuni a tutti i saggi di Wallace, come:
- un massiccio uso di note a piè di pagina, che talvolta si estendono per pagine
- il registro profondamente umoristico
Il reportage è caratterizzato dalla sua estensione a tutto campo: Wallace spazia liberamente da un'analisi sociologica dei viaggiatori e dell'equipaggio, passando per una ricostruzione dell'industria delle crociere extra-lusso, fino a giungere a un'analisi introspettiva, con una disamina della multiformi reazioni dello scrittore di fronte al fenomeno crociera.
Io non sono bravo a mettere in fila un po' di fatti e di "W" (cosa, come, quando, quelle robe là insomma): probabilmente non sono un bravo giornalista per questo motivo. Chissà, magari ho altri talenti. Mi conforta pensare che non sono molti gli italiani in grado di farlo e che spesso il ricorso ai registri più caratteristici dei blog che vanno per la maggiore (tipo ironia, ellissi, anche anacoluti e forme dialettali spinte verso il vernacolo) siano in realtà una manifestazione di questa incapacità endemica di articolare il discorso in maniera sensata e seguendo un filo logico con sinteticità, qualcosa da dire e anche un po' di stile che non guasta mai. Queste sono carenze del sistema scolastico italiano, dalle elementari in su, e la rete dei blog non sta facendo altro che approfondire il vuoto di molti. Comunque, il punto non era questo, quanto Wallace. L'effetto a oggi su di me è simile a quello di Morricone (dev'essere per questo che l'idea mi è venuta dopo il post precedente), cioè mi si appiccica addosso, mi resta nell'orecchio.
Metti Considera l'aragosta, quello di Einaudi che poi è quello che avevo letto per primo dell'autore dopo che mi era stato vivamente caldeggiato da una deliziosa amica. Il libro è una raccolta di saggi e reportage, alcuni belli e un paio tremendi - o perlomeno indigesti. Lo stile e anche la forma sono deliziosi e sperimentali senza rischiare di ucciderti, perché dopotutto gioca solo con le note a pie' di pagina e le note delle note e qualche altra idea formale niente male. Niente strane parole o forme dialettali vere o presunte (o non presunte) tali. Anzi, scorre via che è proprio un piacere. Insomma, è divertente soprattutto come scrive, intendendo i molteplici sensi che il "come" può dare alla frase precedente.
Poi, ovviamente, è molto piacevole anche quello di cui scrive. Questo fa parte del gioco: si tratta comunque di saggi-racconti-reportage. Non saprei come definirli, comunque mescolano fatti reali all'analisi e all'approfondimento. Non è sbagliato considerare da questo punto di vista Wallace un buon giornalista, perché spesso si imputa al giornalista, o meglio al cronista, il ruolo di distaccato specchio dei fatti. Ma i fatti fuori dal contesto e dall'analisi non esistono come informazione e notizia. David Randall, in un altro dei settecentocinquanta libri che leggo in parallelo (di questo se ne parla un'altra volta, promesso!) scrivendo della particolare specie di giornalisti che risponde al nome di cronisti (con la meravigliosa definizione-paragone di cacciatori-raccoglitori del giornalismo) sostiene che non sono la capacità di elencare i nudi fatti ma l'analisi lo strumento-chiave della professione. Poi, Wallace ci mette molto di più e molto di suo, compresa una straordinaria capacità di divagare senza andare fuori tema o apparire innaturale. Questo è un "vantaggio competitivo" rispetto a molti peraltro dotati di buone penne, che forse si capisce meglio pensando al concetto (e al mito) della leggerezza. Da noi, intendo fuori dalla scrivania e dai taccuini di quelli come Wallace, la leggerezza è soprattutto un esercizio di vaghezza, talvolta di cazzeggio, in qualche modo ispirato più o meno profondamente da una struttura logica di fondo, ma molto meccanica. Dentro il recinto della scrivania di Wallace e nei suoi taccuini, invece, non c'è leggerezza ma capacità maieutica di divagare portando nuova ricchezza verso il lettore. E' un esecizio di retorica, non di forma (se ha senso questa improvvisata distinzione da linguista amatoriale), che bisogna riconoscere a lui riesce proprio bene.

In realtà, è la terza riscrittura della storia. Un mix delle prime due. La primissima, a parere non solo mio, ottima e scritta nei tempi giusti; ma poi - per via del fatto che la pubblicazione non era alla fine della settimana giusta ma è stata spostata una settimana dopo - riscritta per dare più spazio all'analisi e meno alla cronaca, non è quella che è stata pubblicata. Anche la seconda, però, con troppa analisi, è saltata. Sono arrivato quindi ad una terza versione "di compromesso" tra le prime due (più analisi ma ancora cronaca e colore) che poi è quella che è uscita a fine gennaio. Un buon esercizio e, devo dire, anche una buona prova professionale. Non per me come risultato, voglio dire. Quando ti fanno riscrivere un servizio lungo (per i motivi più vari, ma diciamo per ipotesi comunque non perché non sai come si mettono in fila delle idee e dei fatti su un foglio di carta) capisci che ti trovi nel contesto giusto: hai la ragionevole sicurezza che i tuoi interlocutori stanno lavorando con standard di qualità alti. E la qualità, attraverso le riscritture, aumenta: almeno, la penso così, visto che quel che esce dalla mia macchinetta per scrivere digitale non è mai una "forma primitiva" ma ha spesso subito fin troppe evoluzioni. Non so se chiamarlo labor limae, che in realtà è un'altra cosa e sta nella parte di finalizzazione di un testo, oppure in un altro modo che adesso non mi viene. Comunque, per chiudere su questo ragionamento, non è un lavoro che sta solo nel computer o nel taccuino, ma è anche una danza di ipotesi e di tuffi - o falsi tuffi, o false parate - che si snodano nella mente per tutto il tempo necessario ad arrivare a scrivere quel che sto scrivendo.
Cosa si sta scrivendo? Il trucco, alla fine, è di avere ben chiaro cosa si sta facendo. Poi, Wallace probabilmente disintegra le barriere come è karma per ogni buon fuoriclasse di ogni generazione, ma qui alla fine ci si può chiedere se "fare letteratura" e "fare giornalismo" abbiano cittadinanza nello stesso universo spazio-temporale. Secondo me, no. Altri due libri sull'argomento che procedono nella mia personale e parallelizzita pipeline toccano o comunque riguardano questo tema. More to come

Poi, l'altro ricordo, è quello della sera dopo. Credo che, insieme alla sensazione di essere completamente svuotato tipica di quando finisci un buon pezzo, un modo per vedere chi sei sia ripensare a cosa hai fatto la sera. Si dice che Emilio Fede (che è stato un signor inviato e con Tv7 ha realizzato delle eccellenti cose) fosse quello che andava a donne, manifestando una vitalità irrefrenabile. Per me, è stato andare a cena ad uno dei ristoranti dell'hotel-casinò New York New York, completamente bollito, abbuffandomi di bistecca e preparandomi ad una notte di sonno duro prima della partenza per l'Italia con orari antelucani. Però, che buona che era quella bistecca.
Ecco, lo sapevo. Alla fine, non ho scritto più di tanto di Wallace, anche se avrei voluto. E ho scritto troppo di me, anche se non come avrei voluto. Non riesco a tirare fuori l'aneddotica - figuriamoci darle una forma appetibile - o la cronaca delle mie emozioni e delle cose che vedo o a cui partecipo. Questo forse sta nel metodo che mi sono inventato per lavorare (perché non è che me lo abbiano proprio insegnato: dei pochissimi consigli, l'unico sensato che ricordi è quello del mio ex-capo Massimo Esposti - per la partenza verso l'Australia nel 2003 - di tenere un sorta di diario sul taccuino in modo da ricapitolare ogni giorno cos'è successo e fissare qualche pensiero che poi ne apra altri dentro la mente, quando finalmente scriverai) o forse è proprio per come sono fatte le mie sinapsi, i miei neuroni o comunque qualsiasi cosa dentro il cranio dia forme alle idee e ai ricordi. Meno male che tanti, più tosti di me, hanno "scavato" su questo tema. Mi evita di perder tempo a scriverci sopra e mi permette di concentrarmi sul prossimo Wallace che ho comprato.
4 commenti:
Davvero un bel pezzo di blogging. Complimenti.
sono arrivato alla fine del post, uau!!! se ti facevi vincere dalla tentazione di riferirci anche uno di quei pensieri che non sei riuscito a bloccare in tempo sul taccuino dell'australia, ma di cui ti sei ricordato quel giorno sulla panchina di SF, forse eri wallace
giocare con la memoria è la cosa più difficle che si possa fare: perdi sempre
bello. molto bello. letteratura blog pura. ciao dg
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