SABATO POMERIGGIO UN business man americano sessantanovenne ha monopolizzato l'attenzione di metà della blogsfera milanese al quarto piano della libreria Hoepli. Si tratta di Jay Elliot, l'autore (assieme a William L. Simon) di Steve Jobs - L'uomo che ha inventato il futuro. Il signore in questione era all'ultimo giorno di una settimana vissuta di corsa attraverso l'Italia: Milano (Fnac e Bocconi) lunedì, poi Bologna (Feltrinelli), Roma (Feltrinelli, Sapienza e un'altra) e di nuovo Milano, con la mitica sede della Hoepli per chiudere la corsa. Ogni appuntamento, il tutto esaurito. Nel finale a Milano, un sacco di volti e nick noti della blogsfera.
Come mai tutti riuniti ad ascoltare Jay Elliot? Forse perché ha lavorato con Steve Jobs (ma negli anni Ottanta, quindi parecchio tempo fa) e può rivelare particolari "gossippari" sul co-fondatore di Apple? No, in realtà non è questo il motivo. Invece, la storia di Steve Jobs e di Apple stanno diventando qualcosa di unico. Sorprendentemente il pubblico generalista si fa attrarre e ipnotizzare dall'azienda, dai prodotti, dal carisma del suo co-fondatore. Non sono io a pensarlo, è nelle delle cose sotto gli occhi di tutti. Per questo le sale si sono riempite.
Questo libro in definitiva è un modo per capire un nuovo fenomeno, che Elliot chiama "iLeadership" e che definisce la "Steve Jobs way", il modo tutto speciale che Jobs ha costruito con la sua vita di imprenditore e di capo d'azienda (al plurale: d'aziende, con Apple, NeXT, Pixar) per fare affari. Elliot ricorda un quantitativo enorme di aneddoti e dettagli che fanno la gioia dei cultori della materia come me. Inediti sprazzi di luce su episodi noti e meno noti del personaggio. Ma in realtà il suo scopo è un altro. C'è un messaggio e c'è anche una morale.
Come dice bene lui stesso, prima ha lasciato Ibm per andare a lavorare con Apple perché era insoddisfatto del modo in cui si viveva nel posto di lavoro di Big Blue. Poi, dopo l'esperienza di Apple (Elliot ha scelto di non seguire Jobs a NeXT nel 1985 e quindi ha rotto in qualche modo il suo rapporto con il co-fondatore di Apple) ha deciso di lavorare da solo, fondando le sue aziende in modo molto americano: successo, chiusura, nuova azienda, successo etc. Ha scelto di essere arbitro del suo destino, per così dire, e sorridendo con un modo di fare ancora da ragazzone di campagna alto due metri e privo di ira (alla Heopli a tratti sembrava quasi Li'l Abner da vecchio, gli manca solo la salopette di jeans) sottolinea: "In realtà, è questa la vera lezione che ho imparato da Steve Jobs". Essere arbitri del nostro destino, non lavorare "sotto" nessuno. Mica male.
Con queste premesse, il libro vale decisamente la lettura.
2.4.11
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