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I personaggi sono strani e particolari, la Svezia è multiculturale e dilaniata da conflitti, il sistema dei media e quello economico, politico e sociale vengono messi al centro, come nessun autore italiano tenta neanche lontanamente di fare. Si tratta di libri a tesi, come spiega anche il New Yorker (bella recensione/stroncatura anche se in alcuni passi è zoppa o sbagliata, comunque piena di spoils. Sul fatto che stronchi, non mi interessa più di tanto: non costruisco la mia vita e il mio gusto con le opinioni degli altri) e costruiti in maniera intelligente. Praticamente: Larsson individua dei temi di denuncia (violenza contro le donne, malattie mentali, corruzione nell'economia etc), prepara i suoi personaggi strutturandoli in maniera tale che abbiano un segno di modernità (l'hacker Lisbeth Salander che è anche veicolo della storia e poi viene ricalcata su Pippi Calzelunghe, ma poi il giornalista e gli altri comprimari con il loro ruolo) in maniera che ricorda l'arco di telefilm.
Da questo punto di vista la decalogia stroncata all'altezza del terzo volume (ma un quarto era quasi pronto e c'era la sinossi per quasi tutto il ciclo, da cui si ricava come fosse costruito a tavolino per il piacere di un modellista della parola, evidentemente) coglie il segno del decennio passato, con l'idea della serialità, di un arco narrativo ampio diviso in episodi con personaggi fissi che evolvono (ma restano coerenti) e guest-star che passano. Con il coraggio di far morire protagonisti o comprimari (niente spoils, ma sembrano produzioni già pronte per la HBO) e di costruire letture a più piani.
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Poi c'è lo stile. Dicevo che il buon Larsson aveva uno stile che trovo estremamente scorrevole. Perché fattuale. Non descrittivo in senso esclusivamente visuale, ma quasi da catalogo. Tizio esce di casa, fa questo, poi quest'altro, poi quest'altro ancora. Entra nel negozio, compra questo e quello, va al ristorante e ordina questo e quest'altro. Tutto così. Con dialoghi serrati ma altrettanto fattuali. È un susseguirsi di scene e di momenti che possono disturbare intensamente oppure dare il senso di vite complesse che si intrecciano, di caratterizzazioni plausibili e molto più profonde di quanto non si possa immaginare di primo acchito. Peccato che poi molti di questi personaggio ricadano sotto stereotipi utilitaristici da telefilm: serve alla trama che uno sappia sparare, abbia fatto il corpo speciale, vada a letto con tutte le donne che può, e quindi abbia doti superumane, corpi stupendi, intelligenza scheggiante, capacità lavorativa superiore.
Il dettaglio più fastidioso, al di là di questa continua tensione esplicita all'etica giornalistica, è il modo in cui poi viene materialmente realizzata: lavoro faticosissimo di documentazione e scrittura in sessioni da sette, otto ore per volta, con documenti che diventano libri, che si allungano all'infinito. Come se bastasse mettersi al tavolino per scrivere già a velocità di crociera, senza tentennamenti, senza scorciatoie o sbandate. Soprattutto la documentazione, con il materiale abbondante che certifica ogni riga, ogni pensiero, ogni parola, meglio di uno che si mette a scrivere il codice civile o la costituzione. Giornalismo d'inchiesta o vangelo?
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Larsson aveva una storia particolare e sicuramente era un personaggio di vari talenti e strane ambizioni. Ma è riuscito in quel che molti sognano: ha raccontato le storie che si portava dentro con la voce e il modo che aveva dentro (molto commerciale, direte voi, però era questo che naturalmente l'uomo aveva dentro) raggiungendo seppure post mortem un singolare e crescente successo. Tanto di cappello. Anche perché la prima versione dei film - prodotta dalla televisione svedese - è gradevole, molto ben fatta nelle ambientazioni e ha una protagonista (Noomi Rapace nella parte di Lisbeth Salander) che è un talento davvero notevole. Riuscirà la super-produzione americana a dare un ulteriore senso a tutto questo? E, se avrà successo, servirà a far ripartire la produzione dei romanzi interrotti?
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