JACKIE CHAN SVOLTA verso il cinema drammatico. O qualcosa del genere. Tra sabato e domenica mi sono guardato Shinjuku Incident (da noi "La vendetta del dragone"), film di Hong Kong del 2009 diretto da Derek Yee. Il film è la storia di Steelhead, contadino e meccanico di trattori cinese che, per cercare la promessa sposa "scomparsa" in Giappone dopo esservi emigrata illegalmente, segue la stessa via e cerca di farsi strada nei bassifondi di una Tokyo lucida e spietata, dove vige la legge del più forte e dove prima o poi i conti con la Yakuza, la mafia para-legale giapponese, devi sempre farli.
Scontro di culture tutto asiatico (cinesi, taiwanesi, giapponesi, con i rispettivi amori e odi), copione che dà adito a più letture culturali e tentativo moderatamente riuscito di offrire un ruolo a Jackie Chan che non si basi esclusivamente sul suo notevole tempismo comico e sulla sua ragguardevole conoscenza delle arti marziali acrobatiche, il film è comunque un dramma godibile. Non sono i contenuti a far impazzire (anzi, c'è qualche elemento piuttosto consunto nella storia, che scivola nella banalità dell'apologo), quanto la confezione, che è ben curata e piacevole.
È un periodo che il cinema asiatico mi sta attirando sempre di più. In questo caso, è ancora il cinema tradizionale di Hong Kong, quello che ha dato alla luce Bruce Lee per intenderci, ma anche la Cina continentale sta producendo titoli di un certo interesse. È da un po' che accade, ma adesso si sta formando quella massa critica che fa da prologo a qualche tipo di cambiamento culturale in Asia. Dopotutto, la Cina è la potenza emergente e il cinema è la punta di diamante del soft power. Lo sapevano bene gli americani, che finanziarono Hollywood per ammorbidire l'Europa del post-WWII e scongiurare la nascita di un antagonista.
30.10.12
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