HO VISTO UN po' di film in questo periodo, come dicevo poco avanti. Uno di questi è Flight (2012), di Robert Zemeckis. È un film sulla lotta di un pilota di linea contro la dipendenza dall'alcol e dalla cocaina. È più in generale un film sulla dipendenza, e per me fa un trittico con altri due film: Up in the Air (2009), di Jason Reitman, e Bright Lights, Big City (1988) di James Bridges.
Sono tre film che hanno poche cose in comune, apparentemente (ok, due sono legati al mondo dell'aviazione civile, ma non quello con Michael J. Fox degli anni Ottanta), ma seguono percorsi simili. Sono tre storie di condanna e di redenzione, raggiunta o mancata. In ogni caso, insegnano tutti e tre che c'è un prezzo da pagare, e che quando sembra che non ci sia niente da pagare, è perché tocca a qualcun altro. O perché toccherà a noi più avanti.
Adesso scriverò delle cose su Flight che solitamente non scriverei su di un film: anticiperò il finale in maniera piuttosto esplicita. Quello che nella buona società digitale si chiama "fare spoiling". Quindi fate i bravi e non andatevi a leggere tutto per non bruciarvi questo che comincia come un "disaster movie" piuttosto costoso, con una specie di MD-80 battezzato JR-88 (!) che viene volato a testa in giù e che ritrae i piloti come capaci di prodezze anche da ubriachi e intossicati: cosa molto improbabile, si perde il posto di lavoro per un bicchiere di vino otto ore prima, e il resto dell'equipaggio se ti vede alterato negli Usa (ma anche in Europa) non ti fa neanche arrivare nella cabina di pilotaggio.
Gli aerei di linea contemporanei non volano a testa in giù: non sono progettati per farlo e non riuscirebbero a mantenere l'assetto per più di una manciata di secondi. Chi l'ha fatto (c'è un incidente mortale della Alaska Airlines piuttosto famoso al riguardo: il volo 261, ma soprattutto un mitico volo dimostrativo del Boeing 707) c'è riuscito per una serie di fattori concomitanti tra cui la brevità della tratta "invertita".
Avete avuto tempo di pensare se volevate cambiare post oppure vi sta bene andare avanti qui. Quindi ve lo scrivo. La storia di Flight è una storia di redenzione. Denzel Washington, che qui si gioca l'Oscar di nuovo e pure il Golden Globe, impersona alla grande la figura tragica e drammatica, ma anche grandiosa del capitano Whip Whitaker (cioè da noi Comandante Whip Whitaker, ma ci siamo capiti), che alla fine ammette nel modo più spettacolare di essere alcolizzati, si assume le sue responsabilità, finisce in galera per sentirsi per la prima volta libero e riceve anche la visita del figlio cresciutello che vuole aprire un nuovo capitolo e dialogo con lui. Un film faticoso psicologicamente - due ore e mezzo che ti viene voglia di correre fuori a chiedere aiuto dall'oppressione psicologica di certi passaggi - ma liberatorio. Tutto l'opposto di Up in the Air, dove la dipendenza, l'ossessione, ma anche lo straniamento - fattore implicito e remoto in Flight ma esplicito e attore protagonista della storia in Up in the Air accanto a George Clooney - gioca un ruolo centrale.
Ryan Bingham (George Clooney) che nella vita gira gli Usa per aiutare le corporation a licenziare i dipendenti in eccesso causa crisi, che nel tempo libero tiene corsi su come alleggerirsi e liberarsi da tutto, oggetti e relazioni (usando la metafora dello zainetto da vuotare) e che vive relazioni affettive da adolescente, incapace di uscire dal suo guscio, condannato a vivere in camera da hotel, con auto a noleggio e punti mille-miglia accumulati all'inverosimile per quel traguardo del milione di punti di cui non si ricorda neanche più il motivo, è in cerca di redenzione. Ma è una redenzione parziale, quasi un testamento a fronte di una condanna ineluttabile: Bingham regala tutto agli altri (le miglia alla sorella, il cuore alla stronza con famiglia che lo ha ingannato, la raccomandazione alla giovane collega che voleva farlo licenziare e che invece salta per aria al posto suo perdendo il lavoro) e a lui non resta niente se non di scomparire in maniera quasi romantica in un infinito presente in cui viaggiare è comunque bello. Su nel cielo, Up in the Air, vuol dire perdersi per sempre nella nebbia delle nuvole e non tornare più indietro. Una sorta di suicidio rituale, un modo per scomparire.
Tra queste due visioni, una che prevede la redenzione ma al costo del cambiamento, della conversione, e l'altra che invece porta alla condanna senza requie, che può essere solo accettata, si colloca un'idea più selvaggia e carnale, ma anche più pura e genuinamente hollywoddiana di come dovrebbero andare le cose. Era la storia del protagonista del romanzo di Jay McInerney, Jamie Conway, che è interpretato nel 1988 da Michael J. Fox (la sceneggiatura rimane sempre quella di McInerney) di Bright Lights, Big City (da noi Le mille luci di New York), e che ruota tutta attorno a una serie di domande: come ho fatto a finire in questa situazione? Come farò a tirarmene fuori? Ovviamente la situazione, la dipendenza, la perdizione sono tutte contenute all'inizio e già portano il seme dello sviluppo narrativo possibile: redenzione o condanna.
Se Jamie si perderà o si salverà è già deciso nei piccoli dettagli, nelle frasi che vengono usate per costruire l'incipit del film. Essere "il tipo che si sveglia presto la mattina, alle sei e mezza, e compra il pane fresco appena sfornato per sua moglie" è l'ancora di salvezza alla quale Jamie si legerà per ritrovare la strada di casa. Una casa radicalmente cambiata, perché con la moglie non si rimetterà più insieme (ma non era una donna per lui, nonostante fosse Phoebe Cates, che insomma, ma vabbè, licenza poetica), con l'amico Kiefer Sutherland, che anche lui non va bene, e alla fine si scopre che la sostanza non si trova fuori ma dentro di sé. Per ritrovarsi serve una dose di egoismo, bisogna rimettere se stessi al centro e riequilibrarsi. Avvicinarsi a chi ha troppe dipendenze sbilancia, collaborare per aiutare non funziona, anzi fa precipitare nello stesso abisso di chi si voleva salvare.
La storia di Jamie è la storia di un uomo che cerca di tirarsi insieme nella parte più bassa di un impero, rappresentato da una New York in cui tutti i tassisti lo mandano bellamente a quel paese (ma lui non ha mai i soldi per pagarli) e in cui la storia di una ragazza in coma (che si sveglierà alla fine del film, ve l'avevo detto che facevo spoiling duro) lo ossessiona come simbolo di uno stato d'animo dal quale non riesce ad emergere. La cocaina è la malattia del tempo (ma sarebbe stato l'Aids in quegli anni) e la morte della madre un anno prima il grande blocco emozionale che Jaime non riesce a superare.
La sua è una strada di vera redenzione perché riesce a riportarlo al punto di partenza, offrendogli una genuina seconda volta. Molte cose sono cambiate, ma può ritornare a New York, può ricominciare a imparare, un passetto alla volta, mangiando il pane fresco barattato con i suoi Ray-Ban tartarugati pre-Luxottica e scegliendo questa volta una vita diversa, una strada differente. In definitiva, come uno dei primi videogiochi da bar, bastava pagare il prezzo di una nuova partita per avere una seconda vita.
Dipendenze, indotte o derivate, che impediscono e delimitano. L'America ha bisogno di normalità e di aiuto. Tanto aiuto.
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