GLI AMERICANI LA chiamano Creative nonfiction, alternativamente literary nonfiction o narrative nonfiction). Lee Gutkind, fondatore del magazine omonimo, ne offre la definizione più essenziale: si tratta di true stories well told, storie vere ben raccontate. Il genere da noi comincia ad avere una certa visibilità: si distingue dal giornalismo tradizionale, che non fa uso degli strumenti della narrazione letteraria (o almeno non dovrebbe), e degli altri tipi di scrittura tecnica o di saggistica.
Ecco, la distinzione dalla saggistica è più interessante: quella che noi chiamiamo saggistica in inglese è indicata come non-fiction (con o senza il trattino, nonfiction), ma è intuitivo capire che ci sono differenze tra un libro ad esempio di Giuliano da Empoli (molto bello Canton Express, del 2008) e uno di Roberto Saviano. Anzi, partiamo proprio da questi due autori. Sia da Empoli che Saviano raccontano cose reali, ma il secondo - quando si discute della veridicità di Gomorra - le romanza, utilizzando schemi narrativi e un tono intermedio tra ricostruzione storica da un lato e opera di fiction dall'altro. I suoi personaggi, i suoi dialoghi, le sue descrizioni, sono più verosimili che non veritiere. Il verosimile serve a far intendere cosa succede con più forza e più chiarezza, spesso in maniera derivata dagli atti giudiziari ma con un obiettivo differente. Quella degli scritti di Saviano non è la sede in cui si accerta la verità giudiziaria né la verità storica. È quella invece in cui si dà contezza di ciò che succede in Italia.
Anche da Empoli allude alla realtà in modo analogo quando percorre strade stilisticamente simili (è il caso di Canton Express), sa però tornare nell'alveo della saggistica tradizionale, colta e divulgativa al tempo stesso, come dimostra con gli ultimi libri, a partire da Contro gli specialisti, piacevole e ben argomentato saggio che di narrativo ha molto poco sia nella struttura che nello sviluppo.
Lo scopo di quella che Wu Ming ha definito "New Italian Epic" (valida tanto nel caso di Saviano come nei romanzi propriamente tali degli stessi Wu Ming e di alcuni altri autori) è quello di creare narrazioni multiformi, coinvolte nel tono oltre che coinvolgenti, linguisticamente e strutturalmente sperimentali, forti ideologicamente e dotate di punti di vista narrativi sorprendenti. Del New Italian Epic (1998-2008) si è discusso tanto, è stato messo al centro del dibattito letterario nel 2008 da Wu Ming 1 e qui ci interessa sino a un certo punto. Torniamo invece alla creative nonfiction in ambito giornalistico. E al suo campione riconosciuto.
Se i veicoli del genere sono tre riviste americane (New Yorker, Esquire e Vanity Fair, ma in parte c'è anche Rolling Stone e altri), gli scrittori e i giornalisti che l'hanno frequentato sono parecchi. David Foster Wallace, ad esempio, per me è più apprezzabile per i saggi di creative nonfiction che non per i suoi romanzi. Il cosiddetto long-form journalism, che è un reportage particolarmente lungo, è una manifestazione stilistica ben definita di questo genere. Si tratta di "giornalismo narrativo", nel senso che utilizza gli strumenti della narrativa anziché quelli della saggistica, ma è completamente basato su fatti veri: è un giornalismo il cui obiettivo è far immergere in una determinata realtà. Negli Stati Uniti non è una novità di questi ultimi anni.
Truman Capote con il suo In cold blood (1965) è un esempio editoriale della nonfiction novel. Si tratta di quello che la critica ha definito new journalism (oltre a Capote un importante rappresentante del genere è stato Hunter Thompson) e che ha una dimensione psicologica, intimistica e soggettiva piuttosto marcate: in alcuni esempi (soprattutto per Thompson) ricorda e richiama lo stream of consciousness di Joyce, ma anche semplicemente il monologo interiore a cui tutti siamo abituati. Si viaggia nella mente dell'io narrante, e nel flusso dei suoi pensieri che com'è naturale non procede per salti. È una tecnica narrativa diversa da quella della creative nonfiction.
Arriviamo al punto dove volevo portarvi. Il maestro del genere è John McPhee, che in Italia è poco conosciuto. Dopo essere stato a lungo giornalista adesso, alla veneranda età di 82 anni, è ancora docente alla università di Princeton (ha iniziato a insegnare negli anni Settanta), città dove ha sempre vissuto e dove ancora tiene seminari di scrittura giornalistica due anni ogni tre.
Adelphi ha appena pubblicato Tennis nella sua Piccola Biblioteca (numero 646, 222 pagine, 15 euro) a cura di Matteo Codignola, che ha inserito anche un suo saggio nel mezzo del libro. Proprio il saggio di Codignola è interessante per fare una distinzione. McPhee è il padre della gentilezza e morbidità nella scrittura, che letteralmente scompare e fa evaporare il lettore dentro il flusso della narrazione, sempre precisa, documentata in maniera puntuale e con virgolettati indubitabili, per così dire. Il suo racconto segue un alternarsi di scene e intermezzi, contrapposizioni e avvicinamenti, che fanno tutti parte di un repertorio di strumenti retorici sofisticato e ben affilato. McPhee ha interessi eclettici: scrive di soggetti molto disparati (dalle arance al giocatore di basket, dai mezzi di trasporto per le merci sino ai dirigibili) ma tendenzialmente tutti importanti nel periodo della sua vita che va dai tre ai dieci anni. Uno di questi è il tennis.
Lo sport del giardino dei Finzi-Contini è particolare, ricco di una sua epica difficile da circoscrivere in poche frasi, frutto di una parabola che è anche parte della nostra storia. Il tema del libro è la finale di Forrest Hills del 1968 tra Arthur Ashe e Clark Graebner. Non è una partita "storica" (anche se è la prima finale di questo sport giocata da un nero negli Usa) e neanche bellissima, ma la tecnica narrativa è straordinaria e l'effetto benissimo congegnato. McPhee ha preso le cassette della partita, è andato dai due giocatori e le ha riviste più volte con loro, annotando puntigliosamente tutto quello che dicevano e commentavano, soprattutto rispondendo alla domanda "E qui cosa pensavi?". Poi, è andato a documentare le cose di contorno: da dove vengono i due giocatori, le loro vite, le loro carriere, il lavoro delle loro famiglie. Ha intervistato amici e conoscenti, genitori e parenti. Fornendo un quadro di impressionante ricchezza e realismo, ma nella forma di una narrazione fluida, punteggiata da flashback e inserti.
C'è dietro un lavoro e una fatica pazzesca. Non si usa mai però la prima persona: l'io narrante del giornalista rimane sobriamente sullo sfondo, e la lingua è misurata e precisa. A tal proposito, un aneddoto che ricorre su McPhee è sul gioco che faceva da bambino e che prosegue anche da adulto: ripetere e assaporare il suono di nuove parole, arricchendo la sua cassetta degli attrezzi linguistici di sempre nuovi strumenti.
La mancanza di enfasi, la pulizia e precisione della lingua, il nitore e la semplicità con la quale descrive descrive le scene e riporta puntualmente parlato fanno parte di uno stile che è per molti versi lontano dai registri più usati dai nostri giornalisti e scrittori. L'entusiasmo (condivisibile) e il desiderio di comparire in prima persona sono invece la cifra dell'intervento di Codignola, che scrive un bel saggio di raccordo sul tennis - potrebbe essere un lungo articolo giornalistico o un ottimo post di un blog - ma lo fa in prima persona e con una lingua spumeggiante, ricca di metafore, colpi di fantasia, originalità. In una parola, quanto di più lontano dallo stile e dall'essenza di McPhee si possa immaginare.
Un particolare del lavoro di McPhee è quello che invece contrasta di più con il clima del nostro giornalismo locale: l'accuratezza, che è figlia dell'operosità. Sul lavoro di McPhee c'è poco da dire: l'uomo non è certo pigro. Lavora e va sempre un passo più in là. Si fa delle domande, cerca chi possa dargli delle risposte, si documenta, intervista, parla, prende appunti (la tecnica di registrazione preferita dal cronista) e poi elabora, distilla e infine scrive. Se c'è da aspettare un giorno in più, fare uno sforzo in più, magari difficile e facilmente evitabile con una omissione o, peggio ancora, con un "sentito dire", lui quello sforzo lo fa. Poi lavora sui materiali che ha a disposizione, analizzandoli e riorganizzandoli in maniera tale che funzionino e che lo sforzo e la fatica non si veda.
Questa non è la tecnica che viene frequentata di più dai miei colleghi italiani. Da noi per motivi anche culturali manca spesso la sintesi del pensiero, la semplicità e la precisione delle parole scelte, la ricchezza e completezza degli elementi. Nel giornalismo però manca spesso anche la cernita fatta a monte dei temi, il pensiero critico nel capire cosa ha senso e cosa no. Serve una mente agile e allenata, come un atleta: sono attività che comportano fatica, richiedono tempo e conoscenza degli strumenti a disposizione, senso della misura.
Niente di tutto questo fa parte della tradizione del nostro giornalismo più "facile" e trasandato, sciatto, sempre in debito d'ossigeno, che somiglia più a un tema in classe (in cui il responsabile di turno assegna il titolo) che non a un articolo di giornale. Il "bel pezzo" da noi è sostanzialmente quello "scritto bene", ha la notizia ma anche il passo del romanziere e tante altre cose non necessarie che vengono solitamente sintetizzate nella frase che i caporedattori o i direttori dicono a chi è nuovo: "Devi leggere bene, perché da noi si scrive in un modo particolare, diverso dagli altri". In realtà, di modi di scrivere ce ne dovrebbe essere uno solo: quello giusto.
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