UNO NON HA mai il tempo di leggere niente, soprattutto quello che vorrebbe, e poi finisce che legge Monnezza amore mio, l’autobiografia di Tomas Milian scritta da lui medesimo con l’ausilio di Manlio Gomarasca, che è il boss di “Nocturno Cinema”. Ed è una sorpresa, perché per molti versi è un bel libro.
Ecco, non è che è il capolavoro imprescindibile, non è Open l’autobiografia di André Agassi scritta per lui dal giornalista premio Pulitzer J. R. Moehringer (senza offesa, mi raccomando). Però è un bel libro. Intanto è scorrevole, si arriva in fondo alle 290 pagine dell’edizione rilegata della Rizzoli (18,50 euro) in un pomeriggio scarso. E poi racconta una storia.
Premetto che mi piacciono molto le biografie in generale, ma quelle fatte con il metodo “americano” mi annoiano terribilmente. Mattoni di mille e passa pagine che raccontano la vita del personaggio famoso con centinaia di interviste, note a pie’ di pagina, riferimenti, citazioni, bibliografie.
Accapigliandosi su dettagli francamente secondari con la pervicacia di un frainteso Hercule Poirot. I biografi d’altro canto devono dimostrare di aver studiato e conoscere la storia della persona di cui si parla.
Invece le autobiografie, anche e soprattutto quelle accompagnate da un professionista della narrazione (un ghost writer che qualche volta fa un passo avanti e diventa co-autore, spesso un giornalista) sono più divertenti. Soprattutto se sposano lo spirito della persona che raccontano e la vita che viene messa in piazza è interessante.
La vita di Milian? Che vita, signore e signori! Cubano, classe 1933, giovane playboy (o vitellone-imprenditore) nell’isola di Batista, traumatizzato dal suicidio del padre militare avvenuto davanti ai suoi occhi, Tomas Milian fugge in America per inseguire il sogno di diventare attore, viene ammesso all’Actors Studio. Nel 1959 quasi per caso arriva in Italia e scoppia l’amore per Roma (nel 1969 diventerà cittadino italiano). È un attore fenomenale, dai gusti estrosi, dalla capacità camaleontica (sarà la sua maledizione perché lo rende poco riconoscibile), istintivo, bisessuale, sciantoso, grandioso. Prima i film impegnati con Luchino Visconti, Francesco Maselli e Alberto Lattuada. Poi i western italo-spagnoli, quelli a suon di spaghetti, poi i poliziotteschi con Sergio “er Monnezza” Marazzi e poi con il maresciallo/ispettore/commissario Nico Giraldi, il “suo” personaggio, e infine la ripartenza per gli Usa alla chiusa degli anni Ottanta per cercare di fare finalmente “quel” film americano che ha cercato per cinquant’anni.
Un’ambiguità: er Monnezza non è Nico Giraldi, ma fusi assieme loro due sono il personaggio più noto di Milian. Il maresciallo, poi commissario Nico Giraldi e il suo alias Monnezza è/sono anche un essere vivente, una voce in corsivo che dialoga con l’io narrante in prima persona di Milian. La cosa è se non altro affascinante. La coppia Milian-Gomarasca ha trovato una bella voce per Milian e un contrappunto che è romanesco e molto utile, a tratti perfetto, con il suo personaggio che è anche bifronte.
Il personaggio di Milian inizia nel 1976 con Squadra antiscippo e finisce undici film dopo, nel 1984, con Delitto al Blue Gay. Esprime una filosofia, una visione della vita, un modo di essere romani che non verrà dimenticato, così come è indimenticabile il look creato da Milian: tuta da meccanico (neutra, quasi una pelle su cui mettere tutto), bandana, barba e capelli lunghi, occhiali a specchio, la moto. Un poliziottesco è come uno spaghetti western: le alfette sono le diligenze, le moto sono i cavalli, e le pistole… beh quelle sono sempre uguali, solo che passano dal modello revolver a tamburo alle semiautomatiche della Beretta.
In Italia Milian è sempre stato doppiato, quasi sempre da Ferruccio Amendola (suo zio Mario Amendola, famoso soggettista e sceneggiatore, è stato il creatore del personaggio assieme a Milian e a Bruno Corbucci) ma ha anche recitato in italiano e in inglese. In Italia si è in pratica ritirato dalla recitazione per tre motivi: una fase “mistica”, il desiderio di fare il film in America e quello di lasciare, novella Greta Garbo, l’immagine giovanile del suo personaggio preferito alla storia senza contaminarla con il proprio invecchiamento fisico (e la perdita della leonina criniera).
Adesso Tomas Milian è irriconoscibile, ha sempre avuto una vita incasinata, fatta di “buffi” (i debiti che si fanno a Roma), di successi e di disastri, di orge, di seduzioni, di droga e di alcool, di ripartenze, di grandi film mai girati (mitica la sua audizione con Robert Redford al quale dice che pensa di ritirarsi a breve e, di conseguenza, la parte non gli viene data). Un casino, creativo e a tratti bellissimo. Molto sudamericano.
Il libro come dicevo ha il pregio di scorrere bene e di fare giustizia alla storia, raccontandola con una bella voce. Per un attore istintivo, camaleontico e potente come Milian (perché lui è davvero tutte queste tre cose e molto altro), il doppiaggio alla lunga è diventato una variabile da tenere in conto, adattandola alla sua recitazione. Recitare con la voce di un altro, per un attore che correva in tondo, prima di girare un primo piano che nella sceneggiatura segue una scena di corsa, per far sentire nella sua voce l’alone lontano del fiatone, è un segno di bravura. Diventa geniale quando in montaggio poi ti tolgono i tuoi suoni e mettono quelli di un’altra persona, che ragionevolmente non corre in tondo in sala doppiaggio prima di darti la voce. Milian non ha subito o ignorato questo passaggio, ma lo ha tenuto di conto e si è adattato, accentuando la fisicità per compensare quello che ha visto (anzi, sentito) che non poteva venire fuori dalla voce dei suoi personaggi.
Racconto questo non solo perché viene fuori dalle pagine del libro, ma anche perché spiega secondo me il rapporto che c’è tra la storia di Milian e la scrittura di Gomarasca. Chi scrive cerca una voce, si tratti di un romanzo, di un saggio o di una autobiografia. Come cercarla con un ghost?
Penso, ma è una mia idea “alla cieca”, che la collaborazione ai testi per Milian sia stato probabilmente un problema secondario, come avere la voce di Amendola come doppiatore. Giochi sulla storia, sugli aneddoti, sul ritmo del pensiero anziché sulla scelta degli aggettivi o sul modo di ordinare il periodo. Ha funzionato.
Unica caduta di stile, la quintalata (più di cinquanta) ringraziamenti in chiusura. La logica dovrebbe essere: o ringrazio solo due o tre persone-chiave della mia vita (o del libro), oppure li ringrazio tutti senza nominarli uno per uno, in modo molto ecumenico. Altrimenti diventa una specie di who’s who” un po’ sfigato. Fine della caduta di stile: sono tre pagine alla fine, se ne può fare a meno.
Ecco, in conclusione non rimpiango di aver letto questo libro, e anzi lo ringrazio perché mi ha tenuto compagnia e fatto anche divertire, insegnandomi un po’ di cose, forse semplici, forse no. Questo non è un libro complicato, metafisico, che vuole insegnarti chissà cosa e al tempo stesso non è per niente banale o scontato. Anzi, diventa pure interessante. Non male.
13.2.16
Monnezza amore mio (2014)
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