11.3.17

False partenze (ovvero, come rovinarsi la serata)

MI PIACE MOLTO un certo approccio descrittivo e investigativo, avvolto però in un velo di parole che mostrino l’umanità di chi scrive, quando si affronta l’argomento della malattia, del cervello, della mente. Mi piace Oliver Sacks, per dire (che, non c’entra, ma ha lasciato un ultimo blocchetto di parole intitolato da noi “Gratitudine”, prima di morire), e invece soffro quando leggo dell’ennesima supercazzola delle neuroscienze. In questo caso, a sorpresa, ho trovato questa piccola storia che potrebbe rimettere a tutti noi i piedi per terra, riportarci nella neurologia quando era narrazione non (come oggi) completamente separata dalla psicologia.

Anche se, lasciatemelo dire, una storia così era meglio se la raccontava uno che non scrive con il machete: l’umanità di un trattore che ara il campo. Mamma mia. Quindi, cioè, magari non leggetelo va, che a me è già passata la voglia.

Money quote: “Without an intact and functioning hippocampus, Johnson, who was in her late 50s at the time, no longer had access to most of the vast store of memories she’d accumulated over her lifetime. She didn’t remember that she had once been married. She no longer knew that her beloved father had died nearly 20 years earlier. The farm in upstate New York where she’d been living for a decade, and which she deeply loved, was completely unfamiliar. She did recognise her mother and sister, but her oldest and closest friends were now complete strangers to her.”  

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