IN ITALIA, IL retaggio culturale del Fascismo e della successiva legislazione per l'ordine nazionale dei giornalisti (che secondo quasi tutti gli autori si richiama allo spirito se non alla lettera delle corporazioni) risolve altrimenti la questione. Ma negli Stati Uniti, dove non esiste un Ordine professionale dei giornalisti, si dibatte sei i blogger siano giornalisti oppure no. Attenzione, non se siano meglio i blogger fatti dai non giornalisti di quelli fatti dai giornalisti, facendo così riferimento (com'è stato per buona parte del dibattito italiano) al fatto che molti blog vengano aperti da giornalisti anche famosi.
Dal punto di vista statunitense, mi pare di capire, il problema è alquanto differente. Se fai il giornalista, al massimo sei iscritto ad una associazione di giornalisti (come accade sicuramente in Gran Bretagna), ma vale tanto quanto essere iscritto al club delle Giovani Marmotte. Sei giornalista in quanto fai il giornalista e nel momento in cui fai il giornalista. Se ti fermano mentre stai parcheggiando in doppia fila al supermercato, non c'è "servizio urgente di cronaca" che giustifichi il fatto che, per quanto impiegato a tempo pieno nella famosa testata nazionale, stavi parcheggiando in doppia fila per fare la spesa.
Quindi, come si riconoscono i giornalisti, innanzitutto? E poi, i blogger sono giornalisti? Per il primo punto, racconta Garrett M. Graff, il giovane blogger che è stato accreditato come stampa alla Casa Bianca, il discorso è semplice: ci si basa su regole d'uso, con badge di accredito temporanei (giornalieri) oppure permanenti. In pratica, c'è uno screening: bisogna lavorare per una testata giornalistica che esca regolarmente, non-partisan, indipendente e basata su pubblicità o sottoscrizioni per le modalità di finanziamento. Adempiuti questi requisiti, la "professionalità" del singolo giornalista è un problema della testata stessa: se manda a giro un coglione, che sia timbrato o no da un ipotetico Ordine dei giornalisti sono solo fatti loro. Medaglie? Le notizie portate a casa e non il numero dei bollini sul tesserino dell'Ordine.
E i blogger, loro sono giornalisti? A parte che non esiste una definizione canonica di blog, il diario di rete come quello che state leggendo, il buon Garrett M. Graff ricorda cosa rispose a proposito il giudice Potter Stewart alla domanda se sapeva dire cosa fosse pornografia e cosa no: "Se la vedo, la riconosco". Ecco, dice Graff: se lo vedo, un giornalista io lo riconosco. Non datemi una definzione o una tabella precostituite. La cosa rende alquanto interessante il discorso sui blog perché lo lega direttamente allo stile dell'ordinamento giuridico degli Stati Uniti basato sull'idea dell'interpretazione dei principi fondamentali da parte del giudice (in questo caso dell'ente incaricato di accreditare i giornalisti alla Casa Bianca), vale a dire: accreditiamo i giornalisti che lavorano per i giornali. Poi, se arrivano le televisioni, accreditiamo questa nuova forma di giornalisti che lavorano per le televisioni. E se arrivano i blog? Accreditiamo i giornalisti (cioè le persone che forniscono notizie etc) che lavorano (mica per amore della patria o per scelta ideologica) per i blog. E a questo punto, stare a impazzire per trovare una definizione di blog non è più un esercizio così fondamentale o difficile.
Sono tanti, allora, i giornalisti blogger? Si, parecchi. Ma di certo non tutti: solo qualche migliaio al massimo nel mare magnum di decine e decine di migliaia di blogger. E quel piccolo blog querelato da Apple perché divulgava i "segreti" industriali raccolti attraverso informatori, gestito da un ragazzo appena maggiorenne, ha diritto alla tutela delle sue fonti sulla base della legislazione in vigore negli Usa? Si, dice Graff.
Infine, cito qui, en passant, solo il fatto che la responsabilità penale nel nostro Paese è personale. Il segreto professionale è valido per medici e avvocati ma non per i giornalisti, ovvero solo in parte. Vale per i giornalisti iscritti all'albo dei professionisti e non per i pubblicisti, prima di tutto, e vale solo se il giudice decide che ottenere il nome della fonte non è determinante nella definizione della causa legale. Se invece per il giudice il nome è necessario e non se ne può fare a meno per emettere il giudizio, allora il giornalista lo deve rivelare, a pena delle sanzioni previste dal codice penale.
Se mi avete accompagnato sino qui nella lettura di questo post, spero che alla fine il ragionamento risulti quantomeno interessante. Sarete giunti come me alla conclusione, infatti, che per quanto questo blog sia scritto da un regolare appartenente all'Ordine dei giornalisti albo professionisti, non è in realtà sostenibile per questo motivo - agli occhi del giudice americano - che sia esercitabile una qualche tutela speciale su quel che qui viene scritto. Se, per esempio, vi dico che ho lo scoop e che Tizio ha preso i soldi da Caio, informazione esclusiva grazie alla mia Gola Profonda, non c'è santo che tenga, se il giudice lo vuol sapere io il nome di Sempronio, alias la Gola Profonda, lo devo dire. Se invece lo scrivessi sul New York Times, no. Neanche se il giudice a parte la mia fonte segreta non ha altri elementi per sciogliere il nodo del procedimento. In Italia, non funzionerebbe così. (In Italia mi tirerebbero due querele grosse come un palazzo oppure mi segherebbero la carriera passando dalla stanza dell'amministratore delegato o della concessionaria di pubblicità. Ma questa è un'altra storia, che si applica anche negli Usa, se è per questo).
9.3.05
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