9.7.05

La riforma fiscale


DA TEMPO SI parla delle problematiche di politica economica e di politica fiscale, cercando di coordinare i due fenomeni. E' stato portato alla luce più volte e in maniera sufficientemente chiara da farlo intendere anche alla pubblica opinione meno avvezza ai sofismi del tributarista, un punto importante: le tasse sono non solo (come tutti si intuisce) uno strumento di finanziamento dello Stato. Sono anche uno strumento (prezioso quanto arbitrario nelle sue scelte) di politica economica in quanto modellano e indirizzano il comportamento dei risaprmiatori, delle imprese, della società.

Più o meno come la segnaletica stradale (divieti, svolte obbligate, sensi unici) disegna il movimento delle persone attraverso le città. Come i referendum o le sentenze della Corte costituzionale (che teoricamente non dovrebbero avere un valore positivo ma solo di eliminazione i primi e di chiarimento le seconde), le tasse fanno, sono politica.

Si cerca di riformare e adeguare questi strumenti fiscali a una società con interessi ed esigenze diverse. Ma si sottovaluta, a mio avviso, il crescente evolvere della flessibilità e precarietà dei lavoratori soprattutto più giovani. Il fisco, per questi, è un'orrida macchina incomprensibile, viste le mille fonti e sempre di diritto e natura diversi con le quali percepiscono i dieci, venti, trenta redditi che creano in un anno la loro possibilità di viviere.

E' tutto drammaticamente troppo complicato per non dover ricorrere a consulenti - sindacali e non - e in ultima istanza legittimando il proliferare dei ragionieri e commercialisti (gli albi adesso sono unificati), vil razza dannata che dovrebbe avere giuoco solo molto raramente. Si ricorre infatti al ragioniere più spesso che all'avvocato. Ovvero, all'avvocato solo quando serve (molto raramente, di solito), al ragioniere sempre. Perché? Perché non si mettono in condizione i giovani flessibili, ordinati accumulatori di lavori, ricevute e pagamenti, di sbrigare in maniera semplice e senza costi e stress aggiuntivi la propria dichiarazione dei redditi?

Perché i giovani, possessori già di competenze nuove per la comunicazione, la tecnologia, l'uso dei meccanismi "veloci" di vita (lavori che si susseguono rapidamente, pagamenti che derivano da mille fonti), spesso instancabili costruttori di reti di solidarietà sociale che a noi sfuggono completamente, sono costretti a imparare a convivere con un sistema fiscale i cui presupposti storici sono da un lato l'ipertecnicismo (anche nella dichiarazione online, perché si usa la rete per mandare le risposte a domande arcaiche) e dall'altro un gusto sabaudo o albertino nel disegnare le norme e i tributi?

Che civilità ha un paese in cui non si capiscono quali e quante tasse pagare? Che civilità ha un paese in cui si evade il fisco per paura ed ignoranza, non per spirito criminale? Che paese è quello in cui c'è gente che a fronte di un rimborso sicuro (la ritenuta d'acconto per i redditi inferiori a 5mila euro annui) preferisce far finta di niente per "non complicarsi la vita" oppure, addirittura, non lo sa?

Caro Beppe Grillo, che ne pensi?

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