
DA TEMPO SI parla delle problematiche di politica economica e di politica fiscale, cercando di coordinare i due fenomeni. E' stato portato alla luce più volte e in maniera sufficientemente chiara da farlo intendere anche alla pubblica opinione meno avvezza ai sofismi del tributarista, un punto importante: le tasse sono non solo (come tutti si intuisce) uno strumento di finanziamento dello Stato. Sono anche uno strumento (prezioso quanto arbitrario nelle sue scelte) di politica economica in quanto modellano e indirizzano il comportamento dei risaprmiatori, delle imprese, della società.
Più o meno come la segnaletica stradale (divieti, svolte obbligate, sensi unici) disegna il movimento delle persone attraverso le città. Come i referendum o le sentenze della Corte costituzionale (che teoricamente non dovrebbero avere un valore positivo ma solo di eliminazione i primi e di chiarimento le seconde), le tasse fanno, sono politica.

E' tutto drammaticamente troppo complicato per non dover ricorrere a consulenti - sindacali e non - e in ultima istanza legittimando il proliferare dei ragionieri e commercialisti (gli albi adesso sono unificati), vil razza dannata che dovrebbe avere giuoco solo molto raramente. Si ricorre infatti al ragioniere più spesso che all'avvocato. Ovvero, all'avvocato solo quando serve (molto raramente, di solito), al ragioniere sempre. Perché? Perché non si mettono in condizione i giovani flessibili, ordinati accumulatori di lavori, ricevute e pagamenti, di sbrigare in maniera semplice e senza costi e stress aggiuntivi la propria dichiarazione dei redditi?

Che civilità ha un paese in cui non si capiscono quali e quante tasse pagare? Che civilità ha un paese in cui si evade il fisco per paura ed ignoranza, non per spirito criminale? Che paese è quello in cui c'è gente che a fronte di un rimborso sicuro (la ritenuta d'acconto per i redditi inferiori a 5mila euro annui) preferisce far finta di niente per "non complicarsi la vita" oppure, addirittura, non lo sa?
Caro Beppe Grillo, che ne pensi?
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