7.8.05

Zonker

CIRCA UN ANNO fa (mancano ancora un paio di settimane, perché era fine agosto) veniva rapito e poi ucciso Enzo Baldoni. Ne hanno parlato per settimane, mesi tutti i giornali. La sua uccisione è stata uno choc, non solo per la morte dell'uomo, ma anche per le polemiche, i commenti, le osservazioni fatte intorno a una persona conosciuta da pochissimi ma con tutte le caratteristiche per trasformarsi in un personaggio. Un discusso personaggio, sul quale è facile per tutti - me compreso - avere un'opinione. Sbagliando, probabilmente. Anzi, di sicuro.

Ma è sempre così: se la persona viene rapita dal demone della cronaca, diventa personaggio. E su di lui montano le opinioni, i commenti, le mitizzazioni e le smitizzazioni. Quel che di più doloroso ci può essere stato è probabilmente che sia stato definito un povero incosciente, un ricco benestante (faceva il pubblicitario con un certo successo) dalle idee romantiche e col sogno di fare il giornalista, l'inviato speciale. Una morte inutile, una vita sprecata, si diceva, anche vana. Oppure superumana, eroica, mitica.

Da un giorno in edicola con Diario c'è un libro intitolato Piombo e tenerezza. Si tratta, in buona sostanza, della raccolta di pensieri, appunti, post sul blog, e altri scritti di Zonker. Zonker era uno dei nick di Baldoni, oltre che il nome di uno dei personaggi di Doonesbury, il fumetto dell'americano Gary B. Trudeau che Baldoni traduceva per Linus.

Baldoni nel 2001 era stato in Colombia, e questo libro è la cronaca della sua estate passata, anziché sulla terrazza a guardando i bei tetti italiani, cercando di trovare i capi della guerriglia. Soprattutto il capo dei capi, il leggendario Tirofijo: Manuel Marulanda, il guerrigliero pià vecchio del mondo.

Per chiedergli, davanti a un fuoco, con tranquillità, come un uomo o una donna possano consacrare tutta la loro vita alla guerra.

L'ultimo venerdì del mese di maggio o giugno di quell'anno, se non ricordo male, sono andato da Mac@Work, il negozio di roba Apple a Milano che ospita anche il Poc, il club dei possessori di portatili Apple (PowerBook Owner Club). C'era la consueta cena degli aficionados, come ogni ultimo venerdì del mese. Era pomeriggio tardi e sul ballatoio del negozio, a chiacchierare con Fab, il titolare, c'era anche questo tizio, il Baldoni. Appassionato di Apple, possessore dall'aria snob di un PowerBook 12 pollici, ansioso (ma in realtà tranquillissimo e flemmatico al limite della presunzione) di riavere il suo piccolo portatile pronto per il prossimo viaggio, con gli infradito ai piedi e un'aria che ricordo essermi sembrata francamente antipatica.

Ho ricordi molto vaghi, tuttavia, perché il demone della cronaca (e tutto quel che l'ha preceduto) non si era ancora preso la sua vita e quindi i miei demoni personali erano distratti: registravano in automatico, a bassa risoluzione. Ho ricordi vaghi del racconto di Fab, quando Baldoni se n'era andato, circa quest'uomo "spettacolare", che forse sparava balle o forse veramente viaggiava come un matto in posti pazzeschi. Che aveva fatto gratuitamente la campagna pubblicitaria di Mac@Work da mettere sul Corriere perché "finalmente si poteva", uno sfizio che "aspettava da una vita". Ho il ricordo di un'antipatia pregiudiziale che si è impadronita di me senza alcun motivo esterno, frutto - mi rendo conto adesso - solo dei miei fantasmi e delle mie frustrazioni.

Ho molto più chiaro il ricordo delle settimane dopo il suo rapimento, di quel che si è visto e letto un po' da tutte le parti. E della mia opinione, cioè che l'uomo non fosse un giornalista ma qualcosa d'altro. Un romantico, un avventuriero, un radicale snob di sinistra. E che tutto quel cicaleggiare dei giornali e delle televisioni fosse squallido. Ma ancor più incredibile la vicenda che aveva messo in moto. Mi frenava forse solo la fratellanza del Mac, per il resto l'idea era di fastidio. Di invidia. Di insofferenza. Di odio per quella redazione snob qui di Milano, Diario, così irraggiungibile e strafottente, come un magazzino di libri ammonticchiati ovunque, di intellettuali da vino, osteria, pane e salame. Tanto radical-chic, insomma, da essere un po' il prototipo della mia esclusione e frustrazione professionale.

Il libro però l'ho quando l'ho visto, l'ho preso. Ero alla Feltrinelli di Corso Buenos Aires, ieri, alla cassa, mentre stavo per pagare e pensavo che forse avrei dovuto cercare di andare oltre le piccinerie che ancora avvertivo. L'ho preso senza Diario, come segno di estrema antipatia e insofferenza, ma l'ho preso. Ho iniziato a leggerlo a casa, poco dopo, aprendo quelle porte di cui scrivevo proprio ieri, poco prima.

Non so quanto e come sia stato organizzato da lui. Come sia stato "estratto" da articoli, post sul blog, rieditato dal suo curatore. Non lo so. Mi ha colpito un passaggio a pagina 34, proprio in fondo. Baldoni incontra al Teatro La Candelaria di Bogotà tal Santiago Garcìa. E' un intellettuale comunista molto noto e molto amato in Colombia, scrive Baldoni, e gli parla del "Partido" che non ha più alcuna possibilità di incidere sulla realtà del paese.

"Ah sì? E come mai?" gli chiedo goffamente.
Mi guarda dritto negli occhi: "Come vuoi che possa incidere sulla realtà un partito, dopo che hanno sterminato tutti i dirigenti e i quadri. Quasi quattromila, ne hanno ammazzati. Capisci, hanno distrutto la mia generazione".
Lo dice tranquillo e piano, senza enfasi, un dato di fatto ormai assimilato e digerito.
E' un sopravvissuto.
E io sono una testa di cazzo.


Avete capito come mi sento, vero?

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