TRASPORTARE IL LIBRO sul grande schermo è sempre un esercizio complesso, che richiede strani compromessi. E le primissime decisioni si riflettono su tutta la struttura, a prescindere dalla professionalità delle persone coinvolte e dall'intensità del lavoro svolto.
Il primo romanzo di Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, è venuto bene sul grande schermo. Si regge tutto sui due volti dei protagonisti, assolutamente sconosciuti al di fuori della loro Svezia natale, ed ha un solo limite: risente delle decisioni prese al principio.
La prima è stata quella di complicare in maniera spaventosa il lavoro concettuale di scrittura della sceneggiatura partendo dal testo originale e quindi dal soggetto e dal trattamento. La complicazione è stata quella di fare tutti e tre i film insieme: adesso esce il primo, ma anche gli altri due libri sono stati adattati e i film già girati. Il risultato è un eccesso di attenzione sulla grande immagine complessiva, che però schiacchia e semplifica un po' troppo i particolari delle storie, gli snodi della trama (la trilogia di Millennium è una saga fondamentalmente di snodi di trama), la tridimensionalità dei caratteri.
Certamente andavano conosciuti gli sviluppi, però le scelte fatte già nel primo film per "semplificare" e rendere scorrevole sono forti e quasi offensive per i lettori dei libri. Saltano via caratterizzazioni, interi segmenti della trama, personaggi e motivazioni. L'opera si alleggerisce per lasciare spazio a una regia un po' meccanica e manieristica. Anche se, bisogna dirlo subito, ci sono dei gran guizzi di classe: come la telecamera mobile dietro alle corse mattutine del protagonista e la fotografia delle distese svedesi con il solito trenino che le attraversa.
Il film però si regge nei volti dei due protagonisti. Così come l'attrazione magnetica del libro si poggia su quell'unica foto, tristissima, dell'autore morto al completamento del terzo volume, i primi due ancora inediti, il successo della saga (prevista in dieci tomi) ancora di là da venire. Lo sguardo triste e dolce di Stieg Larsson si ritrova negli occhi blu incastonati nella carnagione rovinata di Michael Nyqvist, che interpreta uno dei due protagonisti, l'alter ego di Larsson, cioè il giornalista e direttore di Millennium, Mikael Blomkvist. Pareva, quella di Nyqvist, una scelta sulla carta poco felice e invece nel film è risolutiva. Il suo sguardo, la sua presenza fisica, il magnetismo di un corpo oramai maturato (l'attore è energico e atletico, ma anche sovrappeso e quest'anno arriva ai cinquant'anni) sono essenziali.
L'altro volto e l'altro corpo è quello davvero singolare dell'attrice che regge più di metà del film. Se Nyqvist è portiere, difesa e centrocampo, lei è l'attacco e il fuoriclasse. Su lei poggia la capacità di esplodere del film. Sulla carta Noomi Rapace sembrava perfetta.
Al primo approccio invece sembra per un attimo dare una delusione feroce, quasi spietata: ecco l'attrice sbagliata nel ruolo sbagliato, quasi una mascherata, con quei trent'anni che dovrebbero essere molti meno e che invece si intravedono negli occhi e soprattutto nelle mani e nei polsi oramai sciupati. E invece, all'improvviso, giusto il tempo per la fantasia di lasciare spazio alle immagini sullo schermo e far coincidere il mondo sognato leggendo il libro con quello volgarmente mostrato sullo schermo, Noomi Rapace funziona alla grande.
Anzi, è proprio lei a fare la differenza. A dare un graffio profondo e urticante, che segna subito e poi non può fare altro che peggiorare, consumando la carne viva.
Il giudizio complessivo. Al principio sembrava che il libro fosse decisamente meglio. La sensazione, uscendo stasera dal cinema, era che si fosse persa un'occasione, mutilando troppo una storia avvincente proprio per la sua ricchezza. Poi, senza un perché, la caparbietà del personaggio di Nyqvist e poi l'aggressiva e spietata purezza di quello di Rapace hanno colto nel segno. Il film vale la pena. Meglio se non conoscete la storia e non avete letto il libro, ma vale comunque la pena.
Anche perché più di un paio di fotogrammi del regista Niels Arden Oplev vi resteranno nella retina a lungo. Il film è lungo ma troppo veloce, denso ma troppo leggero, duro ma troppo immacolato. Ha un realismo strano, che mescola l'attenzione filologica a certi snodi del libro a passaggi da telefilm di Agatha Christie, con la fotografia surreale nel suo nitore della Svezia.
31.5.09
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