3.11.10

L'Università dei tardoni

SULLA STAMPA MASSIMIANO Bucchi scrive una interessante analisi sul sistema-università partendo da un dato quantitativo apparentemente inoppugnabile: l'età dei docenti italiani che è in media più alta di quella di altri paesi. È un esercizio molto ben condotto e condivisibile per i toni non forcaioli di considerazioni derivanti da una analisi statistica

Money Quote: Il dato non deve naturalmente essere tradotto nella necessità, come a volte semplicisticamente si sostiene, di «rottamare» indiscriminatamente le fasce più anziane della docenza.
E' chiaro che ci sono situazioni estremamente diverse e che non mancano gli studiosi in età avanzata ancora attivi o in grado di rappresentare punti di riferimento per le nuove generazioni.
Tuttavia è altrettanto evidente, come numerosi studiosi a cominciare da quello classico di Thomas Kuhn hanno dimostrato, che è proprio nelle fasce di età più elevate che si concentra la maggiore resistenza al cambiamento, inteso sia come rinnovamento dei contenuti e dei metodi della ricerca, sia come cambiamento sul piano organizzativo.


Come esercizio però per me è mal pensato. Che la Spagna e la Francia abbiamo il doppio di docenti universitari "under 40" rispetto a noi non dice niente perché mescola valori assoluti (il numero e l'età dei docenti) con tre paesi che hanno strutture universitarie, popolazioni ed età medie della popolazione (oltre a Pil e via dicendo) diversi. Non ci sono percentuali correttive. Non sarebbe accettabile paragonare direttamente l'Italia alla Spagna e alla Francia per un direttore marketing che pianifica la vendita di televisori o di ombrelli, non vedo perché il presunto "mercato della ricerca e insegnamento" (che sono due cose belle diverse e sarebbe interessante capire se viene contato anche il Cnr e a quale titolo contare ad esempio le facoltà di Lettere e Filosofia) debba invece essere direttamente comparabile.

Un esempio dell'imparagonabilità diretta dell'età dei docenti? Vediamo i dati sulla popolazione, che insieme al livello socio-economico influenza direttamente l'accesso all'università. Se la popolazione cresce o il PIL cresce, cresce probabilmente anche la domanda di studi superiori della popolazione. E dovrebbe essere vero il contrario.

La Francia ha il tasso di natalità superiore alla media europea (nascono 830mila bambini a fronte di 531mila morti annue) e un saldo migratorio positivo (100mila individui l'anno, cioè tasso di saldo migratorio di 1,48 per emigranti fratto mille abitanti) per un tasso di crescita della popolazione complessivo dello 0,549 . Insieme all'Irlanda, la Francia è il paese più prolifico e ha 65 milioni e 447mila abitanti.

La Spagna, con 40 milioni e 500mila abitanti ha un tasso di crescita della popolazione dello 0,072.

L'Italia ha invece 60 milioni e 442mila abitanti, tassi di natalità sotto la media europea e negativo e un saldo migratorio che cerchiamo di azzerare ma che è enorme: 2,06 nel 2009. Il tasso di crescita complessivo è lo 0,047.

Il PIL procapite è in Italia pari a 31.200 dollari americani, in Francia è 32.800 e in Spagna 33.100. L'Italia cresce lentamente, la Francia cresce stabilmente e la Spagna decresce adesso, 2009 su 2008, ma cresce alla grande dal 2000 (era 17.300 in Spagna, 23.300 in Francia e 21.400 in Italia).

Vi sembrano la stessa cosa? In Francia sono di più, più ricchi e crescono di più e più stabilmente sul territorio. In Spagna si stanno espandendo da un decennio e arricchendo alla grande, superando un secolare ritardo. Noi siano in planata, lentamente ci avviamo al declino. La popolazione invecchia e solo i nuovi italiani - che ancora non hanno risorse per accedere all'università - sono in crescita. (Immaginiamo come potrebbe essere il paragone se guardassimo ai dati dell'Europa dell'Est).

Potremmo anche arricchire il quadro dicendo anche qual è il rapporto docenti/studenti e la percentuale di studenti rispetto alla popolazione, la crescita o decrescita del numero di laureati, le analisi sull'eventuale espansione tendenziale o contrazione del mercato universitario. Perché, se si tratta di insegnare, e gli studenti diminuiscono o si spostano anno dopo anno da certi corsi di laurea ad altri (da Scienze politiche a Scienze della comunicazione, da Biologia e Chimica a Informatica e Ingegneria) allora c'è anche un altro problema. Bisognerebbe "strozzare" i percorsi di carriera nei posti dove c'è troppa gente, (docenti, dottorandi e cultori della materia), e al limite risposizionarli su altre facoltà e su altre discipline. Un esempio? Dopo il boom della chimica, abbiamo un sacco di chimici. Ma adesso c'è lo sboom della chimica (niente più industrie, pochissimo interesse, relativamente pochi studenti). Cosa ce ne facciamo dei professori, ricercatori, dottoranti e dottorandi nati nel frattempo?

Se mancano i clienti in un negozio e abbondano in un altro, sposto lo staff da un negozio all'altro. E se invece il problema fosse un altro? Cioè che stiamo allargando troppo l'università (intesa come mix indistinguibile di ricerca e didattica), e quindi la disponibilità di posti e poi dei percorsi di carriera, dove entrano persone che poi hanno legittime aspettative di carriera tramite concorso ma che vengono frustrate perché in realtà i posti non si materializzano? Non si materializzano perché ci sono ingorghi o non si materializzano perché andrebbero aperte nuove università ogni due anni? (Come peraltro è stato fatto in passato proprio per risolvere anche questo problema).

Se un professore ordinario "costa" quanto tre ricercatori, ma il carico di lavoro è quello di un professore ordinario sia per la ricerca che per la didattica (non pensate a quello che succede attorno al vostro ombelico, cerchiamo di generalizzare) da dove facciamo nascere l'esigenza oggettiva e non soggettiva dei tre ricercatori? (cioè il bisogno sul mercato e non quello privato delle persone coinvolte che hanno investito anni della loro vita).

Il criterio che giustifica in un ambiente di risorse scarse e tendenzialmente calanti la moltiplicazione dei costi (uno se ne va, tre ne arrivano e aspirano a fare tutto il percorso di carriera, quindi il saldo è di due in più e anche che il terzo è in realtà la sostituzione/prosecuzione di quello che se ne andava, in quanto a consumo delle risorse) è la maggiore freschezza nella capacità di fare ricerca? Maggiore freschezza nel fare didattica? Necessità di sostituire il professore ordinario quando finisce la carriera e va in pensione? Basta un ricercatore nuovo rispetto a un ordinario vecchio, se la popolazione è in equilibrio. Se cala, non è già più così.

Il problema non sarà anche che si fanno troppi dottorati di ricerca e si avviano troppi percorsi informali e non garantiti rispetto a un sistema che poi non è in grado di recepirli? O che si tende a includere chi affronta da molto tempo un percorso anziché escludere nettamente al principio?

C'è un aspetto in base al quale i piloti militari non sono molto diversi dai docenti universitari: anche i piloti sono molto specializzati dopo un lungo percorso di formazione (molto costoso) e hanno qualità spiccate per la loro attività. Non tutti possono fare il docente universitario così come non tutti possono fare il pilota da caccia (o di linea, se è per questo). Però all'inizio, molto all'inizio (quando la formazione del futuro pilota è ancora formazione di un individuo per un lavoro molto particolare e non c'è stato un pre-investimento di anni) c'è un esame binario: on-off, dentro fuori. È un modo brutale per giudicare le attitudini psico-fisiche a un compito ben circoscrivibile se non proprio determinabile. Non un esame a 12 anni o a 18, ma neanche una serie di gradini infinita che può portare a vincere il concorso dopo i 30 o addirittura i 40 anni. Quel primo step binario così avanti non ha semplicemente senso.

Seconda cosa: perché il ragionamento statistico basato sull'età e il costo che fa Bucchi nessuno lo applica mai (per quel che ho potuto trovare) agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie? Quanto sono qualificati e quanto sono "anziani" i docenti di ruolo di queste scuole nella pubblica e nella privata? Quanti i "giovani" che premono? A che età è lecito premere più o meno? Fino a quando sei giovane? Cosa succede se resti precario e non sei più giovane e il sistema promuove i nuovi giovani, che non hanno aspettato come te e però hanno requisiti migliori dei tuoi, cioè minore esperienza sul campo ma più moderna formazione e freschezza di approccio?

Infine, parlando di vecchi da rottamare. I costi e i tappi ci sono. Il sistema probabilmente è rigido e non si allarga. Le risorse sono scarse e a tendere diminuiscono (meno soldi, meno studenti). È un ambiente ostile, come il Polo Nord. I gruppi di persone che vivono in questi ambienti sviluppano secondo gli antropologi due sistemi di regolazione. Fanno meno figli oppure allontanano i vecchi sulla banchisa. Il frame è che noi si debba per forza scegliere il secondo sistema: allontaniamo i vecchi (perché la società italiana è ingolfata, gerontofila, e il vecchio va rottamato) ma allo stesso tempo si tromba come ricci. Con il risultato che i vecchi di domani saranno il doppio, e resisteranno il doppio a qualsiasi cambiamento, anche perché ci saranno sempre meno giovani a spingere per il suddetto cambiamento, qualunque esso possa essere.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Antonio, guarda che la ricerca si fa anche nelle facoltà di Lettere e Filosofia!
Fra