DOMENICA DI GRANDI lavori edili per Doonesbury, che getta forse nuove fondamenta (o fondazioni?) grazie a Garry B. Trudeau.
26.1.14
25.1.14
Hello Macintosh
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24.1.14
Addio a Riz Ortolani
FATEMI CAPIRE: SCOMPARE uno dei più grandi geni musicali italiani, sia come compositore che arrangiatore, armonizzatore, direttore e chi più ne ha, più ne metta, uno che ce lo invidiavano anche su Marte, altro che in America, e non facciamo edizioni monografiche dei quotidiani, limitandoci a metterlo in piccoli trafiletti defilati? Ma siete tutti impazziti??
Non c'è più Riz Ortolani, da oggi in avanti si vive solo con materiale d'archivio.
Non c'è più Riz Ortolani, da oggi in avanti si vive solo con materiale d'archivio.
19.1.14
Alcuni buoni libri che ho letto
NEGLI ANNI PASSATI sono riuscito a tenere medie anche molto più alte. In realtà adesso sono più lento, forse più disperso, ma continuo a leggere. Seguo l'idea che un libro valga la pena di gustarselo (e questo richiede tempo e pace nello spirito). Altrimenti, tanto vale non leggerlo e procurarsi una buona sinossi: va bene anche quello, non bisogna aver letto tutti i libri di cui si parla (però bisogna essere consapevoli di quali si sono letti realmente e quali no).
Nei casi che segue, sono libri che ho letto più o meno di recente.
Neil Gaiman: L’oceano in fondo al sentiero
È l’ultimo, appena uscito. Una favola per bambini, una storia inquietante e che mette paura. Come deve essere. I giapponesi amano leggere le storie di paura durante l’afosa estate subtropicale perché gli mette i brividi che a loro volta li rinfrescano. Letto d’inverno, vicino al caminetto, ti fa sudare freddo. La storia non ve la dico, sennò vi brucio tutto il libro. Suderete molto freddo, però, credetemi.
Roger Hobbs: L’ombra
È il caso letterario degli ultimi mesi (penso si dica così, anche se mi vergogno dell’espressione). Caso letterario nel settore della letteratura di genere, in particolare thriller. Hobbs è il giovane americano (22 anni quando l’ha scritto, ma nessuno grida al genio precoce come per Paolo Giordano, che peraltro aveva già 26 anni quando ha scritto La solitudine dei numeri primi) che ha scritto un giallo d’azione dalla parte del cattivo, abbandonando la prospettiva depressa e un po’ sfigata dei poliziotti esauriti e separati del Nord Europa. Questo è un thriller di vecchia scuola, che acquista e gestisce il passo giusto per una folle volata ad Atlantic City, creando alcuni personaggio ragguardevoli e un protagonista incantevole: l’ombra, una figura delle grandi bande di rapinatori di banche che è capace di impersonare chiunque, far scomparire chiunque, trasformarsi in altro. Un uomo senza più una identità, che vive senza legami, senza poggiarsi da nessuna parte, passando mesi chiuso in rifugi o case sicure a tradurre classici latini e greci, per poi tuffarsi nel suo lavoro per vincere la noia e sentire l’adrenalina che lo possiede. Ricco di particolari, descrizioni, un punto di vista fortissimo, secondo me è il giallo da leggere per queste vacanze. O anche dopo.
JR Moehringer: Il bar delle grandi speranze
Avevo letto Open di Andre Agassi, la biografia diventata un caso letterario, e ascoltato il tennista parlare. Ottimo, tutto bello. Nel suo libro Agassi ringrazia senza tanti giri di parole il ghostwriter che l’ha aiutato a scrivere, cioè Moehringer. Incuriosito sono andato a cercarmi “Il bar delle grandi speranze” e sono rimasto profondamente sorpreso. C’è stoffa, c’è trama, c’è tutto. Quello che manca a Moehringer, che palesemente quando scrive lascia dolorosamente pezzi di sé, è forse la voglia di trovare storie inventate da raccontare. Invece, si appoggia alla vita di Agassi oppure, come nel “Bar”, alla sua stessa esperienza personale. È la storia di un bambino abbandonato dal padre che lo ascolta alla radio dove lavora, apertura di senso che trasforma il libro in un romanzo di formazione quando, andando al bar dietro casa, il piccolo JR inizia il suo cammino di crescita attorniato da un circo Barnum di personaggi singolari e in alcuni casi quasi straordinari.
Stone Brad: Vendere Tutto. Jeff Bezos e l’era di Amazon
Le storie di tecnologia mi affascinano. Questa qui, ottimamente tradotta e pubblicata in Italia da Hoepli, è una delle migliori negli ultimi tempi. Apre una finestra su Amazon e sulla controversa figura di Jeff Bezos, ragazzo prodigio, genio, imprenditore, straordinario talento e anche determinato al limite dell’essere spietato. L’impero costruito da Amazon non può essere trascurato: come Apple e Google è infatti trasformativo della realtà. Il modello commerciale di Amazon, le sue tecniche di distribuzione, la creazione di nuovi prodotti e mercati, tutto questo ha cambiato la faccia della vendita al dettaglio, della distribuzione dei beni, persino dell’editoria. La lunga coda è nata in un magazzino di Amazon. È utile seguire la cronaca e cercare di vedere meglio la personalità dell’unico imprenditore paragonabile a Jobs. Il libro è ottimo: scorrevole e al tempo stesso molto ricco. Criticato (soprattutto dalla moglie di Bezos) ma anche premiato come uno dei migliori libri di business in America, è forse la lettura più interessante di questo tipo per il Natale 2013.
Seth Grahame-Smith: La bugia di Natale
Pensavo fosse una bischerata. Come altro classifichereste il lavoro di uno scrittore (che non avevo mai letto prima) autore di Orgoglio e pregiudizio e zombie(rivisitazione in chiave zombie di Jane Austen) e La leggenda del cacciatore di vampiri. Il diario segreto del presidente (che poi sarebbe Abramo Lincoln, per dire) quando si mette a scherzare con i santi e racconta la versione “alternativa” del Santo Natale, della giovane Maria, del devoto marito Giuseppe e del bambinello Gesù? Voglio dire, piuttosto leggo Tondelli tutta la vita. Però è successo l’improbabile: il libro pubblicato in Italia dalla sempre più sorprendente Multiplayer.it ha un contenuto di tutto rispetto. C’è, regge, ed è pure bello tosto, perché dentro ci sono passioni, desideri, sorprese, conflitti… Ok, non esagero. Non è Gabriel Garcia Marquez, casomai è più simile a Carlos Ruiz Zafón. Però il libro è bello, come possono essere belle le storie che si leggono spaparanzati sul divano il pomeriggio di quando non c’è altro da fare perché siamo in vacanza. Insomma, a partire dalla confezione e traduzione – che sono veramente ben fatte, bravi Multiplayer.it! – fino alla trama e ai personaggi, c’è di che sbizzarrirsi.
Giorgio Manganelli: Cina e altri Orienti
Cina, Filippine, Malesia e anche Arabia, Pakistan, Kuwait, Iraq, di nuovo Cina, Taiwan. Questi sono gli spazi in cui, nel corso di tre edizioni di questo libro (la mia è l’ultima di Adelphi), il “professore nevrotico, diventato poi pensionato, poi gazzettiere” va a giro. Guarda, osserva, racconta l’altro. Non è un testo altisonante. Anzi, è piuttosto un togliere il velo del mito al reale, cancellare la suggestione dell’esotico, del “misterioso oriente”, e invece raccontare «i modi ingegnosi in cui l’altrove si nasconde sotto l’apparenza dell’ovvio». Ora, a introdurlo così sembra quasi che voglia scriverne io la quarta di copertina. Invece è un bel libro, che ho letto lentamente, con fatica a tratti, ma con piacere. La mia fascinazione per l’Oriente cammina su strade tortuose e diverse: Manganelli ha uno sguardo più simile a quello che mi è capitato di trovarmi ad avere mentre vedevo con i miei occhi parte del misterioso e affascinante Oriente: prosaico, complesso, frammentato, nascosco, chiuso, brlulicante, colorato, speziato. In un angolo c’è anche il filo tenue di pensieri che conduce all’idea di come l’Oriente veda noi, che poi è il senso dell’incontro con l’altro: capire chi siamo noi.
Somerset W. Maugham: Honolulu e altri racconti
È un genio, non saprei come altro definirlo. Freddo e sarcastico, pronto a dipingere con tratti spietati le figure del colonialismo britannico, quei frammenti di impero che Maugham ha in qualche modo raccolto e messo in piena luce non per farne un ritratto antropologico ma per usarli come carbone che alimentasse la fornace della sua sofferta creatività. Lo scrittore ha girato le colonie, incontrato gli autoctoni, gli expat, i dirigenti di questo servizio di basso livello che ha fatto funzionare per secoli l’impero facente capo a Londra. E ne ha raccolto le storie, le impressioni, gli odori, il folklore. La loro storia è la materia dei suoi racconti, la dimensione e il passo in cui secondo la critica Maughan si muove meglio rispetto al romanzo (di cui peraltro ha dato ottima prova). Lo stesso autore che si è autoaccusato di un “uso imperfetto della metafora”, che poi è la chiave di lettura del suo distacco, della crudeltà con la quale mette in scena quella vita romanzata e sceneggiata che è andato cercando in località oggi come anche allora esotiche e lontane, dell’impossibilità di vivere la sua identità (era gay a lungo non dichiarato, anche perché all’epoca illegale) e il suo tempo, nonostante la fama, il successo e la consistente ricchezza accumulata (caso raro) esclusivamente grazie alle vendite dei suoi libri e alle sue sceneggiature. Honolulu è una delle migliori raccolte dei suoi racconti che rileggo spesso.
Felice Benuzzi: Fuga sul Kenya, 17 giorni di libertà
Un esotismo diverso, completamente ribaltato. Questa è l’edizione italiana, la seconda dopo quella pubblicata direttamente in inglese, del libro di Benuzzi che racconta la sua fuga dalla prigionia degli inglesi con due commilitoni italiani durante la Seconda guerra mondiale. Fuga non per raggiungere la libertà, ma per scalare e sconfiggere il Kenya, e poi tornare al campo sereni. Un libro notevole che ha ispirato anche Roberto Santachiara e uno dei Wu Ming, il numero 1 a scriverePoint Lenana (quello però ancora non l’ho letto). È un libro strano, a respiro più ampio di quanto la sua ipotetica trama non indichi, ed è anche caposaldo e antenato della “letteratura di montagna” e più in senso più ampio della “letteratura sportiva” di taglio (auto)biografico che sta diventando parte importante del nostro panorama editoriale. Su eBay si trovano anche le edizioni originali, che mi viene da pensare adesso siano anche meglio della riedizione che si affianca all’uscita diPoint Lenana.
Gianni Clerici: Divina. Suzanne Lenglen, la più grande tennista del mondo
Straordinario. Clerici è uno dei più grandi talenti letterari italiani, un giornalista sportivo per caso, che infioretta e cuce la sua prosa come un abito su misura attorno al mondo del tennis ma che ha in realtà stoffa magica capace di trasfigurare sin dagli anni Cinquanta la mera cronaca. Ho letto altre raccolte di suoi articoli (mitica quella su Wimbledon appena pubblicata) ma non avevo mai letto un suo libro di saggistica e in futuro sogno di agganciare un suo romanzo — sì, proprio “agganciare”, perché bisogna muoversi lungo le impervie vie dell’usato visto che non c’è poco e niente in catalogo. In questo caso il racconto di Clerici prosegue ricco e piacevole narrando la storia di una antica e sconosciuta tennista a cui dobbiamo molto. Clerici ripercorre anche l’ethos del tennis e dello sport in generale, mostra un mondo antico, lontano, venato dalla polvere che si è posata sulle immagini del tempo che fu. Abbraccia e precorre con originalità (non potrebbe essere altrimenti, buon dio, è Clerici) la futura tendenza oggi costituitasi nell’emersione della “letteratura sportiva”. Il libro di Clerici è del 2002 ripubblicato da Fandango nel 2010 con un formato compatto e poco “libresco” (la carta, la copertina, il taglio) ma comunque accettabile. Da prendere di corsa.
Italo Calvino, L. Baranelli: Sono nato in America… Interviste 1951-1985
Non le ho lette tutte, né le ho cominciate a leggere in maniera lineare. Avevo però un bisogno viscerale di muovermi invece su qualcosa di Calvino, sulle sue pagine, su qualcosa che fosse parte monologo interiore e parte voce narrante. Le sue lettere sono questo e molto di più. C’è in filigrana la storia di uno dei massimi scrittori del nostro tempo che accade, per una felice combinazione, fosse italiano (e questo ci permette di leggerlo in originale, non in traduzione: pensate che fortuna sottovalutata). Un pensatore potente, un intellettuale raffinato, un giocoso e deliziato esploratore della vita, pronto a cercare e proporre nuove idee, nuovi pensieri, nuove riflessioni, nuove permutazioni combinatorie. Quanto avremmo bisogno di Italo Calvino oggi. Non ve lo immaginete neanche. Ah, oltre a Calvino ho anche un po’ di cose da leggere di Indro Montanelli (un bell’epistolario e un paio di libri) e di Oriana Fallaci (parecchio dire, con lei sono molto in arretrato). Ma, siccome non le ho (ancora) lette, non le acccludo qui.
Frédéric Dard, San-Antonio : Tome 1
In francese. È un casino leggerlo. Il mio francese non è così buono (cioè, sarebbe anche abbastanza buono, ma è proprio un casino leggere come scrive Dard) e comunque sono più di un migliaio di pagine solo per questo tomo. Volevo andare all’origine e ripescare anche alcune delle storie mai tradotte in italiano di Sanantonio (da noi è conosciuto senza il trattino) e vedere come “suona” nella sua lingua, senza la straordinaria mediazione di Bruno Just Lazzari. È divertente, è complicato, è esplosivo, è talmente denso e al tempo stesso semplice che ti sembra di afferrare un senso forse due e poi ti accorgi che ne hai persi tre o quattro. Questa edizione è diventata una fonte di consultazione, è sufficientemente economica da farmi pensare che ne comprerò qualche altro tomo, magari più avanti, senza mai risucire a finirne neanche uno, per il gusto di averli allineati in libreria, di poterli sfogliare e leggere qualche pagina in originale. Anche perché le pagine che ogni tanto sfoglio la sera sono divertenti anche se faticose, e ricche, molto ricche. Il mio francese, con un po’ di attenzione, potrebbe pure migliorare. Hai visto mai?
Rebecca Solnit: Infinite City: A San Francisco Atlas
In inglese. Strano, matto, pieno, vivace, sorpendente. Il libro l’ho comprato anni fa da Borders a San Francisco, all’angolo con Union Square, quando ancora c’era Borders e non l’attuale negozio di vestiti. Lo leggo e lo rileggo quando ho nostalgia di San Francisco: questo è uno dei pochi libri che tengo sulla scrivania e torno a sfogliare. La Solnit è una esploratrice del contemporaneo che costruisce ventitude mappe ed edita diciotto saggi che raccontano la storia, la geografia, la demografia, la biologia, la mitologia di San Francisco. È un libro da consultanzione, con il quale giocare, del quale apprezzare anche la cartotecnica, lo sforzo creativo, l’idealità. A causa dell’ebook il libro cartaceo adesso è costretto ad assumere forme nuove, sorprendenti, più curate anche nella forma, esaltando il ruolo di chi “fa” i libri e non solo di chi li scrive. A me poi questo atlante di San Francisco è piaciuto molto anche perché amo la città: come fare a non comprarlo? Ah, l’editore del libro è McSweeney’s.
Licia Pinelli, Piero Scaramucci: Una storia quasi soltanto mia (Vite narrate)
C’è bisogno di avvicinarsi alle storie ascoltandole con la voce giusta. Scaramucci, ex Rai, a lungo direttore delle news di Radio Popolare, con questo vecchio libriccino fece in tempi appropriati una operazione di inchiesta giornalistica basata sul metodo della storia di vita. Una lunga e accorata testimonianza di Licia Pinelli, vedova dell’anarchico Pinelli, quello che venne giù da una finestra della caserma di polizia di Milano mentre lo interrogavano sulla strage di Piazza Fontana e che aprì la strada a una catena di eventi che ha segnato la storia del nostro Paese fino ad oggi. È una testimonianza che restituisce umanità e prospettiva, fa capire qualcosa di più che non la lettura di un faldone giudiziaro o le bordate polemiche di libri costruiti per fare solo clamore e magari intorbadire le acque lasciandoci sempre più affogare nella cultura del sospetto e degli schieramenti contrapposti. Molte cose sono invece così drammaticamente semplici. Spietatamente semplici. Ma sarebbe troppo facile rendersene conto.
Michael Chabon (a cura di): McSweeney’s Mammoth Treasury of Thrilling Tales
In inglese. È un “vecchio” libro, del 2002, curato da uno dei più interessanti autori giovani americani e pubblicato da uno dei più interessanti editori-scrittori giovani americani (David Eggers). Raccoglie una serie di racconti in stile “pulp” scritti da una lunga serie di autori giovani e meno giovani pure tutti americani e britannici (Stephen King, Nick Hornby, gli stessi Eggers e Chabon, etc). Sono racconti in cui il punto centrale è l’escapismo, l’avventura, il divertimento. E sono dei gran racconti. Per un certo periodo sono stato preso benissimo dal fenomeno del pulp statunitense (e italiano) a partire dalla fine dell’Ottocento sino a tutti gli anni Quaranta del secolo scorso. Questo omaggio, che poi ha visto arrivare in una successiva parte seconda intitolata “Astonishing Stories” che però non ho letto, è veramente bello, portabile e mai tradotto, of course. Peccato, però lo consiglio lo stesso, se masticate un po’ di lingua.
Marta Berzieri, La paura in Giappone, Yokai e altri mostri giapponesi
Mi ricordo che quando l’ho letto, adesso è passato un po’ di tempo dall’inizio dell’anno scorso, mi sono divertito molto. Si trovano informazioni interessanti, un lungo catalogo di creature mitologiche, una piacevole serie di escursioni nel folklore nipponico. La paura in Giappone nasce come tesi di laurea e diventa un piacevolissimo libriccino da consultazione che permette di andare nel dietro le quinte di Lamù, per dire, perché i mostri giapponesi sono la base della cultura popolare che assimilano fin da quando sono bambini.
Atsushi Ueda: Electric geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone
È una versione ridotta di quella uscita in lingua inglese (a quel che ho capito su Internet, mancano sei o sette saggi, porca miseria) però è lo stesso molto, molto interessante. Infatti grazie a questo piccolo libro – che poi non è neanche tanto piccolo – diciamo che si acquista una visione meno provinciale e soprattutto meno eurocentrica (è pur sempre scritto da un autore giapponese) del Paese del Sol Levante. Digeribile e piacevole approfondimento. Ottimo compagno della Berzieri.
Yasunari Kawabata: Koto ovvero i giovani amanti dell’antica città imperiale
La letteratura giapponese contemporanea non è Banana Yoshimoto e Yukio Mishima. C’è parecchio altro, per fortuna. Ma, un po’ come per il cinema locale, si pensa che quasi non esista perché schiacciato dall’immaginario preponderante dei manga-anime. Oltre che per il peso oggettivamente rilevante in Giappone di questo modello di narrazione, anche perché l’Italia ha vissuto a partire dagli anni Ottanta un rapporto anomalo con il paese del Sol Levante. La cultura pop giapponese è diventata un immaginario potente come pochi altri da noi: solo gli americani (e prima i francesi, ma dobbiamo andare nell’Ottocento) hanno potuto altrettanto. Purtuttavia, ci sono anche cose belle da leggere che non fanno parte di questo mondo limitato all’animazione e all’illustrazione. Kawabata (che è anche il primo dei due Nobel per la letteratura giapponese) è prolifico, influente, potente, attivista, meraviglioso, difficile (e grande amico di Yukio Mishima). Koto (questo il titolo originale: 古都) è del 1962, quando Kawabata aveva 63 anni, dieci anni prima della sua morte, ed è un’opera relativamente minore. Avercene di opere minori come queste, buon dio. Tra l’altro, se ci si innamora di Kawabata – può succedere – parte del suo lavoro è raccolto in un notevole Meridiano di Mondadori (romanzi e racconti) curato da Giorgio Amitrano.
18.1.14
Lost Toys (iPhone, iPad)
LI CHIAMANO GIOCHI-ZEN, perché dovrebbero indurre calma e meditazione. Relax. In realtà, come tutti i puzzle, possono essere faticosi e anche stressanti. Questo Lost Toys, in particolare, è molto bello non solo per l'idea, ma soprattutto per le atmosfere. È l'armonia più che la melodia a catturare e far andare avanti. Vale la pena. Già il trailer è da brividi...
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The Infinity Augmented Reality Concept Video
ECCOLO QUI, IL possibile uso degli occhiali "alla Google"...
Il video è stato criticato in vari modi, sia per l'invasività della privacy che per il tipo di scenari che solleva . Non è così che andrà, ovviamente, non foss'altro perché il tizio è l'unico in possesso di una tecnologia della Madonna in un posto dove tutti vivono negli anni Novanta. Ma è divertente lo stesso da vedere.
12.1.14
Ciao, Arnoldo Foà
SE N'È ANDATO oggi Arnoldo Foà, a 93 anni. Aveva fatto tantissime cose. Con Alessandro Blasetti nel 1979 aveva fatto per la Rai lo scenggiato in tre parti Racconti di fantascienza. Lo metto qua, fino a che si può.
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
7.1.14
Coke, leading the charge
UNO SPOT DELLA Coca Cola di un bel po' di tempo fa. Pieno di imprecisioni storiche, oltre che surreale e folle. Però ha il suo bel perché.
Pensavo il regista fosse Michael Bay, che a inizio carriera ha fatto un po' di spot e video musicali prima di essere "miracolato" dalla power-couple di produttori Jerry Bruckheimer e (defunto) Don Simpson, facendo Bad Boys, film del 1995 che andò molto bene e tra l'altro lanciò anche Will Smith. Invece a quanto pare lo spot non era suo. Questo che segue, "Got milk?", invece è di Michael Bay.
Infine, ma non c'entra niente con Bay e con gli spot vecchi, uno della Porsche di pochi anni fa che secondo me è molto bello e molto "Apple", non trovate?
Buona musica live
NON DEI BOOTLEG, ma dei "live" fatti come si deve, a cura degli artisti tanto che rientrano nelle discografie ufficiali. Questi sono quelli che mi piacciono. Evviva gli anni Ottanta, devo aggiungere... Ma si sa, ognuno è figlio del suo tempo!
Steve Hackett – The Tokyo Tapes (1996)
Un concerto del 1996 con uno dei gruppi di supporto di Steve Hackett, l’ex chitarrista dei Genesis, anima del supergruppo GTR e colonna portante del rock-prog. Suona alla grande, è stato completamente rimesso a posto e, nell’edizione adesso in commercio, c’è anche il DVD con il concerto. Pura libidine.
Asia – Under The Bridge & Live In San Francisco (2008)
Gli Asia hanno segnato un modo di intendere il rock-prog che continua dal 1981 sino ad ora. Particolarmente prolifici e capaci di alternare dischi da studio a dischi live, più una infinita teoria di bootleg, hanno Steve Hackett, John Wetton, Steve Howe, Geoff Downes, Carl Palmer, più vari altri “minori” che si sono alternati. Questo live è del 2008 ed è disponibile in due versioni: c’è l’edizione “ridotta” (che ho preso in LP) del concerto registrato su album e il doppio CD “San Francisco 2008”, che ho preso più tardi in formato digitale. Durante la seconda parte di quel concerto gli Asia suonarono integralmente il primo album “Asia”, che occupa tutto il secondo CD dell’album doppio. Il livello è notevole. Si tratta di uno dei bootleg “approvati” del gruppo, anche se non sono live che fanno parte della discografia ufficiale. Ci sono problemi di qualità in un paio di canzoni, ma anche molta energia.
Hall & Oates – Live at the Apollo (1985)
Per me è un concerto mitico. La notte al teatro Apollo di New York di Daryl Hall e John Oates, due bianchi con uno straordinario talento soul. Con loro, due ex Temptations oramai anziani ma sempre gagliardi: David Ruffin ed Eddie Kendrick. Se volete avere un solo CD della premiata coppia Hall&Oates, questo è quello giusto. Anche perché la discografia della coppia è abbondante e non tutta all’altezza. Invece questo concerto al teatro Apollo di New York io me lo sono ascoltato per anni in cassetta, da ragazzino, e ogni volta ci scoprivo cose nuove e divertenti: è musica che ti fa tornare il buon umore.
Simon & Garfunkel – The Concert in Central Park (1982)
Paul Simon ha continuato, viaggiando e scoprendo nuove sonorità (bellissimo “Graceland” e bella la scoperta della world music con le sonorità africane) mentre Art Garfunkel è scomparso dai radar. La loro coppia ha definito un’epoca, anche per chi l’ha vista solo da lontano e con il filtro di un paio di decenni. Mrs Robinson dalla colonna sonora del Laureato dice tutto. E questo concerto è uno di quei pochi momenti (l’altro è quello dei Queen) in cui mi pento di non esserci stato. Ma se inventano la macchina del tempo…
The Band – The Last Waltz (1976)
Loro erano talmente bravi che potevi anche non averli mai sentiti, tanto ti erano entrati in qualche modo nel cervello. E questo disco, di cui esiste anche la versione “lunga” e poi il film di Martin Scorsese, è un concerto spettacolare, inteso, veramente bello. Registrato a San Francisco (il giorno del Ringraziamento nella Winterland Ballroom), quando The Band era al culmine e decise di finire così, imbattuta, prima di ridursi come un Rolling Stone qualunque che va a settant’anni sul palco. Invece no, loro finirono alla Greta Garbo: ancora bellissimi. Da riscoprire, come sarebbe da riscoprire tutto Robbie Robertson.
Cream – Royal Albert Hall – London May 2-3-4-5-6 2005 (2005)
I Cream sono durati davvero poco: superband formata nel 1966 e sciolta nel 1968 aveva tre talenti immensi, che hanno continuato la loro ricerca musicale su binari molto diversi. Si tratta di Jack Bruce, Ginger Baker ed Eric Clapton. Anziché uno dei quattro album canonici, questa band immensa che ha contribuito a definire il modo stesso in cui suona il rock moderno la si può apprezzare quarant’anni dopo, quando si ritrova per la seconda volta e suona in cinque pazzesche serate, dimostrando una coesione, un talento, una tecnica e una chimica fuori dal comune. Vale tutto e c’è anche il film che vale ancora di più.
Nirvana – MTV Unplugged in New York (1994)
Per gli amici solo “Unplugged”. L’unico e il vero. Perché nel periodo in cui MTV faceva un concerto acustico via l’altro, senza amplificazione e distorsione ci hanno suonato praticamente tutti. Ma non ne è rimasta più traccia o quasi (c’è Eric Clapton che continua ad aleggiare, ma lui è acustico dentro, si sa). Invece, quello dei Nirvana è un disco a se stante. La dimostrazione che la buona musica è quella dal vivo, una chitarra e poco altro. Pochi mesi dopo il concerto, Kurt Cobain si è tolto la vita, lasciandoci quella donna impossibile della sua ex compagnia a tormentarci. Peccato.
Supertramp – Live in Paris (1980)
Definiscono un’epoca e suonano in maniera fantastica. Il doppio album registrato nel 1979 a Parigi durante il periodo d’oro dei Supertramp, e pubblicato nel 1980. Adesso passati nel dimenticatoio, i Supertramp hanno definito quindici anni di stile musicale e passare una serata in loro compagnia… beh, ne vale sempre la pena. Anche perché la coppia che fa da motore è pazzesca e nel tempo ha creato armonie ed atmosfere che vanno ben oltre le semplici melodie di “Breakfast in America” e “Crisis? What Crisis?”. È uno dei gruppi sicuramente da riscoprire.
Dire Straits – Alchemy (1984)
È il disco più “freddo” della storia. Suona come se fosse stato registrato in studio. Era l’accusa che veniva mossa, l’unica alla quale non trovassimo una obiezione sensata (perché non lo è l’accusa stessa), nei confronti di Mark Knopfler e dei Dire Straits nel loro insieme. Suonano da dio, talmente bene che sembrano finti. In realtà, è un disco che mi piace molto e che, a risentirlo adesso, è pieno di virtuosismi e piacevolezze.
Queen – Live Killers (1973); At the Beeb (1979-1989); Live Magic (1986)
La cosa più bella dei Queen è che sono sempre stati superiori a qualsiasi detrattore abbia mai cercato di dire che erano “solo” commerciali, “solo” canzonette, “solo” robuccia. Suonano con una energia e una profondità quasi inaudita, poche volte raggiunta da altri gruppi rock-pop. La bellezza e complessità di alcune loro composizioni da studio non sono però niente (con l’eccezione forse di Bohemian Rhapsody) rispetto ai loro concerti. Compreso quello mitico a Rio de Janeiro. Vederli o anche solo sentirli suonare dal vivo è una esperienza unica. Killers la definisce in modo più netto, Magic ha la ricchezza delle canzoni più recenti, At the Beeb la rarità di alcuni brani fuori dal loro repertorio tradizionale. Per me questi tre album suonano come un solo, monumentale tributo all’arte di Freddy Mercury e soci.
Billy Joel – Songs in the attic (1981)
È il primo live di Billy Joel. Segue dischi registrati in studio che sono poi quelli sui quali l’autore americano ha costruito la sua fortuna: The Stranger, Piano Man, 52nd Street, Streetlife Serenade, Glass Houses. A me Billy Joel piace in maniera piuttosto incontrollabile: come Elton John, come alcune cose di George Michael, come alcuni altri simili. C’è un sound lontano (parte dall’inizio degli anni Settanta) che si porta dietro l’eredità degli anni Cinquanta. Musicalmente non è più complesso e ricco come lo era all’epoca. Le cose sono andate avanti, i nostri gusti sono cambiati. In ogni caso, in molti dei primi dischi di Billy Joel si avverte che manca la chimica con i suoi musicisti, turnisti eccellenti, gente di studio, ma lontano dalla sensibilità di Billy Joel. In questo live le canzoni di quell’epoca suonano come avrebbero dovuto suonare anche nei dischi da studio. Alla grande.
Frank Sinatra, Sammy Davis Jr. & Dean Martin – At Villa Venice, Chicago. Live 1965 (1965)
Le performance sul palco del Rat Pack, anche nella versione a tre senza Joey Bishop e Peter Lawford, sono comunque epocali. Show che univano le routine comiche e fisiche di questi tre animali da palcoscenico con la musica e la capacità di improvvisare e divertire. Ascoltare il doppio CD registrato nel 1965 a Chicago può essere problematico sia perché le parti in parlato (ovviamente in americano) si alternano alle canzoni, sia perché spesso le gag e i giochi avvenivano sul palco ed erano più fisici che non vocali. Non si capisce, si rimane sospesi, si percepisce il divertimento del pubblico ma non si sa il vero motivo. Non importa. Anche se lento e faticoso, lo spetacolo è divertente, musicalmente ottimo e ha un ritmo e una coerenza formale che lo portano ben al di sopra di molte altre performance più titolare. Dean Martin gioca il suo meraviglioso personaggio che oggi definiremmo di alcolizzato cronico allo stadio terminale, Sammy Davis Jr. è una bomba di energia e forse il talento più genuino per il palcoscenico, mentre Frank Sinatra è un maestro nel giocare con la sua autorevolezza di maschio alfa mettendola a disposizione dei suoi due amici. Niente si ferma: i tre si prendono in giro, ridono di sé e degli altri, bevono, fumano, cantano, sparano cavolate e barzellette come un vulcano che sta esplodendo. Impossibile non amarlo, ma solo dopo ripetuti ascolti.
Yes – 90125 Live: The Solos (1985)
Gli Yes hanno pubblicato un quantitativo impressionante di album dal vivo, attraverso epoche, formazioni e raccolte di canzoni differenti. Eppure, per me questo album, che ho preso prima in formato LP a Firenze una vita fa e poi più di recente come CD da Amoeba Music a San Francisco, è speciale. L’album 90125 da studio (il nome è il numero di catalogo della Atlantic) è il primo disco che ho sentito degli Yes: non c’entra praticamente niente con la storia musicale del gruppo e rimane, assieme al successivo Big Generator, una clamorosa eccezione. Nel tempo ho amato il suond “classico” e prog sinfonico degli Yes, ma mi è rimasto nel cuore anche l’arrangiamento e la produzione di quei due album. E di questo live, che vede una forte prevalenza della parte degli assoli, in cui ha un ruolo notevole la coppia di “stranieri”, cioè il chitarrista Trevor Rabin (che poi è il papà del suond di quell’epoca) e Tony Kaye, primissimo tastierista degli Yes negli anni Sessanta che ritorna proprio per questa coppia di album. Che dire: spacca duro!
Pink Floyd – Ummagumma (1969)
Solo metà di questo album doppio: il primo disco (LP o CD) è infatti un live che raccoglie le canzoni suonate dai Pink Floyd nei loro primi concerti (la band si era formata nel 1965 e il primo chitarrista Syd Barrett aveva lasciato nel 1967 venendo sostituito da David Gilmour) mentre non c’erano ancora i grandi successi classici della band. La discografia d’altro canto parla chiaro: The Dark Side of the Moon è del 1973, Wish You Were Here del 1975, Animals del 1977, The Wall del 1979 e infine The Final Cut del 1983. Qui siamo nel 1969, ancora mancano addirittura due capolavori come Atom Heart Mother (1970) e Meddle (1971). Quello che c’è sono canzoni prese dai primi due album: The Piper at the Gates of Dawn e da A Saucerful of Secrets. Basta e avanza: il divertimento e la voglia di sperimentare, un affiatamento incredibile, la consapevolezza di essere i più bravi della loro epoca (e anche di molte altre). A me piace molto, lo riascolto con piacere
Deep Purple – Made in Japan/Live in Japan (1972)
In realtà anche questi sono due album diversi. La versione originale su due LP è “Made in Japan”, pubblicato a dicembre del 1972 in LP dopo il primo tour dei Deep Purple nella terra del Sol Levante: il gruppo non voleva fare “live”, glielo chiedono i giapponesi e loro accettano purché l’edizione sia limitata al paese della dea Yamato. Finisce che diventa un successo planetario. I concerti si tennero ad agosto del 1972, due ad Osaka (15 e 16 agosto) e uno a Tokyo (17 agosto). Il materiale era in realtà abbondante rispetto agli LP e quindi si pensò – per il 21mo anniversario del concerto, nel 1993 – di realizzare un triplo CD intitolato “Live in Japan”. A seguire, viene pubblicato in CD “Made in Japan”, la versione rimasterizzata dell’LP, storica ma anche tagliuzzata di brutto, e siamo nel 1998. Alcune versioni diverse di canzoni identiche sono disponibili nell’uno o nell’altro album. “Made in Japan” è considerato a ragione uno dei migliori album live di sempre.
Steve Hackett – The Tokyo Tapes (1996)
Un concerto del 1996 con uno dei gruppi di supporto di Steve Hackett, l’ex chitarrista dei Genesis, anima del supergruppo GTR e colonna portante del rock-prog. Suona alla grande, è stato completamente rimesso a posto e, nell’edizione adesso in commercio, c’è anche il DVD con il concerto. Pura libidine.
Asia – Under The Bridge & Live In San Francisco (2008)
Gli Asia hanno segnato un modo di intendere il rock-prog che continua dal 1981 sino ad ora. Particolarmente prolifici e capaci di alternare dischi da studio a dischi live, più una infinita teoria di bootleg, hanno Steve Hackett, John Wetton, Steve Howe, Geoff Downes, Carl Palmer, più vari altri “minori” che si sono alternati. Questo live è del 2008 ed è disponibile in due versioni: c’è l’edizione “ridotta” (che ho preso in LP) del concerto registrato su album e il doppio CD “San Francisco 2008”, che ho preso più tardi in formato digitale. Durante la seconda parte di quel concerto gli Asia suonarono integralmente il primo album “Asia”, che occupa tutto il secondo CD dell’album doppio. Il livello è notevole. Si tratta di uno dei bootleg “approvati” del gruppo, anche se non sono live che fanno parte della discografia ufficiale. Ci sono problemi di qualità in un paio di canzoni, ma anche molta energia.
Hall & Oates – Live at the Apollo (1985)
Per me è un concerto mitico. La notte al teatro Apollo di New York di Daryl Hall e John Oates, due bianchi con uno straordinario talento soul. Con loro, due ex Temptations oramai anziani ma sempre gagliardi: David Ruffin ed Eddie Kendrick. Se volete avere un solo CD della premiata coppia Hall&Oates, questo è quello giusto. Anche perché la discografia della coppia è abbondante e non tutta all’altezza. Invece questo concerto al teatro Apollo di New York io me lo sono ascoltato per anni in cassetta, da ragazzino, e ogni volta ci scoprivo cose nuove e divertenti: è musica che ti fa tornare il buon umore.
Simon & Garfunkel – The Concert in Central Park (1982)
Paul Simon ha continuato, viaggiando e scoprendo nuove sonorità (bellissimo “Graceland” e bella la scoperta della world music con le sonorità africane) mentre Art Garfunkel è scomparso dai radar. La loro coppia ha definito un’epoca, anche per chi l’ha vista solo da lontano e con il filtro di un paio di decenni. Mrs Robinson dalla colonna sonora del Laureato dice tutto. E questo concerto è uno di quei pochi momenti (l’altro è quello dei Queen) in cui mi pento di non esserci stato. Ma se inventano la macchina del tempo…
The Band – The Last Waltz (1976)
Loro erano talmente bravi che potevi anche non averli mai sentiti, tanto ti erano entrati in qualche modo nel cervello. E questo disco, di cui esiste anche la versione “lunga” e poi il film di Martin Scorsese, è un concerto spettacolare, inteso, veramente bello. Registrato a San Francisco (il giorno del Ringraziamento nella Winterland Ballroom), quando The Band era al culmine e decise di finire così, imbattuta, prima di ridursi come un Rolling Stone qualunque che va a settant’anni sul palco. Invece no, loro finirono alla Greta Garbo: ancora bellissimi. Da riscoprire, come sarebbe da riscoprire tutto Robbie Robertson.
Cream – Royal Albert Hall – London May 2-3-4-5-6 2005 (2005)
I Cream sono durati davvero poco: superband formata nel 1966 e sciolta nel 1968 aveva tre talenti immensi, che hanno continuato la loro ricerca musicale su binari molto diversi. Si tratta di Jack Bruce, Ginger Baker ed Eric Clapton. Anziché uno dei quattro album canonici, questa band immensa che ha contribuito a definire il modo stesso in cui suona il rock moderno la si può apprezzare quarant’anni dopo, quando si ritrova per la seconda volta e suona in cinque pazzesche serate, dimostrando una coesione, un talento, una tecnica e una chimica fuori dal comune. Vale tutto e c’è anche il film che vale ancora di più.
Nirvana – MTV Unplugged in New York (1994)
Per gli amici solo “Unplugged”. L’unico e il vero. Perché nel periodo in cui MTV faceva un concerto acustico via l’altro, senza amplificazione e distorsione ci hanno suonato praticamente tutti. Ma non ne è rimasta più traccia o quasi (c’è Eric Clapton che continua ad aleggiare, ma lui è acustico dentro, si sa). Invece, quello dei Nirvana è un disco a se stante. La dimostrazione che la buona musica è quella dal vivo, una chitarra e poco altro. Pochi mesi dopo il concerto, Kurt Cobain si è tolto la vita, lasciandoci quella donna impossibile della sua ex compagnia a tormentarci. Peccato.
Supertramp – Live in Paris (1980)
Definiscono un’epoca e suonano in maniera fantastica. Il doppio album registrato nel 1979 a Parigi durante il periodo d’oro dei Supertramp, e pubblicato nel 1980. Adesso passati nel dimenticatoio, i Supertramp hanno definito quindici anni di stile musicale e passare una serata in loro compagnia… beh, ne vale sempre la pena. Anche perché la coppia che fa da motore è pazzesca e nel tempo ha creato armonie ed atmosfere che vanno ben oltre le semplici melodie di “Breakfast in America” e “Crisis? What Crisis?”. È uno dei gruppi sicuramente da riscoprire.
Dire Straits – Alchemy (1984)
È il disco più “freddo” della storia. Suona come se fosse stato registrato in studio. Era l’accusa che veniva mossa, l’unica alla quale non trovassimo una obiezione sensata (perché non lo è l’accusa stessa), nei confronti di Mark Knopfler e dei Dire Straits nel loro insieme. Suonano da dio, talmente bene che sembrano finti. In realtà, è un disco che mi piace molto e che, a risentirlo adesso, è pieno di virtuosismi e piacevolezze.
Queen – Live Killers (1973); At the Beeb (1979-1989); Live Magic (1986)
La cosa più bella dei Queen è che sono sempre stati superiori a qualsiasi detrattore abbia mai cercato di dire che erano “solo” commerciali, “solo” canzonette, “solo” robuccia. Suonano con una energia e una profondità quasi inaudita, poche volte raggiunta da altri gruppi rock-pop. La bellezza e complessità di alcune loro composizioni da studio non sono però niente (con l’eccezione forse di Bohemian Rhapsody) rispetto ai loro concerti. Compreso quello mitico a Rio de Janeiro. Vederli o anche solo sentirli suonare dal vivo è una esperienza unica. Killers la definisce in modo più netto, Magic ha la ricchezza delle canzoni più recenti, At the Beeb la rarità di alcuni brani fuori dal loro repertorio tradizionale. Per me questi tre album suonano come un solo, monumentale tributo all’arte di Freddy Mercury e soci.
Billy Joel – Songs in the attic (1981)
È il primo live di Billy Joel. Segue dischi registrati in studio che sono poi quelli sui quali l’autore americano ha costruito la sua fortuna: The Stranger, Piano Man, 52nd Street, Streetlife Serenade, Glass Houses. A me Billy Joel piace in maniera piuttosto incontrollabile: come Elton John, come alcune cose di George Michael, come alcuni altri simili. C’è un sound lontano (parte dall’inizio degli anni Settanta) che si porta dietro l’eredità degli anni Cinquanta. Musicalmente non è più complesso e ricco come lo era all’epoca. Le cose sono andate avanti, i nostri gusti sono cambiati. In ogni caso, in molti dei primi dischi di Billy Joel si avverte che manca la chimica con i suoi musicisti, turnisti eccellenti, gente di studio, ma lontano dalla sensibilità di Billy Joel. In questo live le canzoni di quell’epoca suonano come avrebbero dovuto suonare anche nei dischi da studio. Alla grande.
Frank Sinatra, Sammy Davis Jr. & Dean Martin – At Villa Venice, Chicago. Live 1965 (1965)
Le performance sul palco del Rat Pack, anche nella versione a tre senza Joey Bishop e Peter Lawford, sono comunque epocali. Show che univano le routine comiche e fisiche di questi tre animali da palcoscenico con la musica e la capacità di improvvisare e divertire. Ascoltare il doppio CD registrato nel 1965 a Chicago può essere problematico sia perché le parti in parlato (ovviamente in americano) si alternano alle canzoni, sia perché spesso le gag e i giochi avvenivano sul palco ed erano più fisici che non vocali. Non si capisce, si rimane sospesi, si percepisce il divertimento del pubblico ma non si sa il vero motivo. Non importa. Anche se lento e faticoso, lo spetacolo è divertente, musicalmente ottimo e ha un ritmo e una coerenza formale che lo portano ben al di sopra di molte altre performance più titolare. Dean Martin gioca il suo meraviglioso personaggio che oggi definiremmo di alcolizzato cronico allo stadio terminale, Sammy Davis Jr. è una bomba di energia e forse il talento più genuino per il palcoscenico, mentre Frank Sinatra è un maestro nel giocare con la sua autorevolezza di maschio alfa mettendola a disposizione dei suoi due amici. Niente si ferma: i tre si prendono in giro, ridono di sé e degli altri, bevono, fumano, cantano, sparano cavolate e barzellette come un vulcano che sta esplodendo. Impossibile non amarlo, ma solo dopo ripetuti ascolti.
Yes – 90125 Live: The Solos (1985)
Gli Yes hanno pubblicato un quantitativo impressionante di album dal vivo, attraverso epoche, formazioni e raccolte di canzoni differenti. Eppure, per me questo album, che ho preso prima in formato LP a Firenze una vita fa e poi più di recente come CD da Amoeba Music a San Francisco, è speciale. L’album 90125 da studio (il nome è il numero di catalogo della Atlantic) è il primo disco che ho sentito degli Yes: non c’entra praticamente niente con la storia musicale del gruppo e rimane, assieme al successivo Big Generator, una clamorosa eccezione. Nel tempo ho amato il suond “classico” e prog sinfonico degli Yes, ma mi è rimasto nel cuore anche l’arrangiamento e la produzione di quei due album. E di questo live, che vede una forte prevalenza della parte degli assoli, in cui ha un ruolo notevole la coppia di “stranieri”, cioè il chitarrista Trevor Rabin (che poi è il papà del suond di quell’epoca) e Tony Kaye, primissimo tastierista degli Yes negli anni Sessanta che ritorna proprio per questa coppia di album. Che dire: spacca duro!
Pink Floyd – Ummagumma (1969)
Solo metà di questo album doppio: il primo disco (LP o CD) è infatti un live che raccoglie le canzoni suonate dai Pink Floyd nei loro primi concerti (la band si era formata nel 1965 e il primo chitarrista Syd Barrett aveva lasciato nel 1967 venendo sostituito da David Gilmour) mentre non c’erano ancora i grandi successi classici della band. La discografia d’altro canto parla chiaro: The Dark Side of the Moon è del 1973, Wish You Were Here del 1975, Animals del 1977, The Wall del 1979 e infine The Final Cut del 1983. Qui siamo nel 1969, ancora mancano addirittura due capolavori come Atom Heart Mother (1970) e Meddle (1971). Quello che c’è sono canzoni prese dai primi due album: The Piper at the Gates of Dawn e da A Saucerful of Secrets. Basta e avanza: il divertimento e la voglia di sperimentare, un affiatamento incredibile, la consapevolezza di essere i più bravi della loro epoca (e anche di molte altre). A me piace molto, lo riascolto con piacere
Deep Purple – Made in Japan/Live in Japan (1972)
In realtà anche questi sono due album diversi. La versione originale su due LP è “Made in Japan”, pubblicato a dicembre del 1972 in LP dopo il primo tour dei Deep Purple nella terra del Sol Levante: il gruppo non voleva fare “live”, glielo chiedono i giapponesi e loro accettano purché l’edizione sia limitata al paese della dea Yamato. Finisce che diventa un successo planetario. I concerti si tennero ad agosto del 1972, due ad Osaka (15 e 16 agosto) e uno a Tokyo (17 agosto). Il materiale era in realtà abbondante rispetto agli LP e quindi si pensò – per il 21mo anniversario del concerto, nel 1993 – di realizzare un triplo CD intitolato “Live in Japan”. A seguire, viene pubblicato in CD “Made in Japan”, la versione rimasterizzata dell’LP, storica ma anche tagliuzzata di brutto, e siamo nel 1998. Alcune versioni diverse di canzoni identiche sono disponibili nell’uno o nell’altro album. “Made in Japan” è considerato a ragione uno dei migliori album live di sempre.
5.1.14
Savor, kid, savor!
LA PRIMA DOMENICA dell'anno. La prima domenica di Doonesbury. La prima domenica di Garry B. Trudeau. Ovviamente.
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