HA RAGIONE
GIANLUCA, ovviamente. E non ce n'è poi tanto da aggiungere. Oppure no: vediamo i temi di fondo. Una certezza c'è. Facciamo schifo. Perché? In che senso? È presto detto...
Abbiamo questo complesso di inferiorità, un'attitudine paragonabile solo ai tifosi del baseball italiano: "mica siamo americani, però poi nel nostro piccolo anche noi...". Nel nostro piccolo una cippa: produciamo serie televisive nostrano con lo stesso accorato slancio che ci mettevamo a fare i drammoni sceneggiati degli anni Sessanta. Solo che scimmiottiamo gli americani. E non abbiamo nessun Sergio Leone che ci mette qualcosa di suo: li scimmiottiamo e basta. Vengo e mi spiego.
Per quasi trent'anni abbiamo vissuto con una piacevole spaccatura culturale. Erano gli anni Ottanta quando da noi i telefilm, soprattutto le sit-com made in Usa, hanno cominciato a comparire. Arrivavano come riempitivi, come programmi-
filler che la tivù privata metteva a ciclo continuo, una sorta di striscia quotidiana dal lunedì al venerdì. Ignoravamo totalmente che potessero avere un arco di storia più complesso perché non venivano programmate in sequenza, venivano tagliate e rimontate, venivano doppiate barbaramente da caterve dei nostri bravissimi professionisti del doppiaggio. Cioè, la peggiore iattura che ci potesse capitare.
Non parlo degli Amendola - peraltro geniale artista, il padre - quanto degli onesti professionisti figli del teatro e delle scuole di dizione Rai. Hanno massacrato - perché non potevano fare altro - un intero mondo di accenti e sfumature. Come restauratori di affreschi che imbiancano senza pietà perché hanno solo la tinta bianca. Poi, quando abbiamo avuto ben piantato nel cranio il telefilm "adattato" (e i cartoni animati giapponesi, "adattati" anche questi ma col machete), è arrivata la grande crisi.
Noi praticamente non ce ne siamo accorti, ma a partire da un certo punto della fine degli anni Novanta gli Stati Uniti sono entrati in flip. Loro il telefilm e la sit-com l'hanno inventato, di questo bisogna rendergliene merito. E una scuola, che parte da Lucille Ball e il suo
I Love Lucy (praticamente inedito in Italia, ma ancora più che guardabile con il gusto moderno nonostante sia iniziato nel 1951) e continua con il lavoro anche del suo allora marito Desi Arnaz e del loro studio di produzione Desilu. Loro hanno forgiato squadre di autori, di produttori, di attori. Perché i direttori di rete americani sono se possibile ancora più bestie dei nostri. Ma c'è un ma.
Qualche giorno fa ero a pranzo a Bologna con alcune persone e si parlava di telefilm. Quello di Mediaset (ce n'è sempre uno di Mediaset quando si va a pranzo e si parla di tivù) diceva: "Non ci possiamo paragonare agli americani, loro hanno una potenza di fuoco nella produzione che noi non ci sogniamo nemmeno". Right! E ha ragione Gianluca quando dice:
una serie americana repellente sta comunque ad una italiana bella quanto uno scarabocchio del Shakespeare all'opera omnia di Federico Moccia. Però gli americani non sono nati imparati.
Il telefilm Usa non viene bene perché usano il basilico californiano che qui non cresce. Il telefilm Usa viene bene perché i loro attori sanno fare una cosa che alla maggior parte dei nostri risulta ignota: sanno recitare. Anche le svampitelle di 19 anni che Gianluca pubblica come wallpaper. E i loro sceneggiatori e soggettisti sanno scrivere. Per la televisione, non per la (presunta) letteratura da accademia svedese. Anche quelli più frustrati che non riescono ad arrivare a fine serata.
E poi i loro registi e compositori... indovinate? Sanno dirigere e comporre. Potremmo andare avanti così per ore. I nostri sognano Sergei Eisenstein, i loro si leggono qualche romanzo giallo e tirano fuori
Hill Street Blues (Bochco passa attraverso la Mtm Enterprises, dove a dirigere la baracca c'è Mary Tyler Moore, una che per la televisione ha fatto qualcosa). Dalle nostre parti, quando il cinema italiano aveva cominciato a scendere una china da cui non si è più ripreso, l'unica ventata originale è arrivata dallo spaghetti western. Nel telefilm nostrano, invece, niente. Nemmeno quando gli Stati Uniti sono entrati in flip.
C'era una copertina di
Time, se non sbaglio, che spiegava bene il problema. Era dedicata alla fine di
Friends, cioè il 6 maggio 2004. Il settimanale faceva due conti e più o meno diceva: dieci anni fa quando è cominciato
Friends, c'erano centinaia di telefilm in programmazione. Oggi sono ridotti a qualche decina, in rapido calo. È la fine di un'era?
In realtà, era il principio di una nuova era. Perché, forti della crisi partita a fine Novanta, gli americani hanno rilanciato sperimentando e investendo su novità formali e di sostanza. Robe come gli stracitati
Lost,
Desperate Housewives,
24,
Battlestar Galactica,
Boston Legal e poi tutta una
nouvelle vague ispirata dal film
American Beauty dove si gioca con l'eros e la morte, con la bellezza e il tema del doppio. (non sto a fare titoli, lavorateci da soli). Da noi? L'ondata di roba nuova, come
Csi ad esempio, ha riempito le pagine dei giornali e coinciso con la comparsa del download illegale di materiale originale (su questo torno tra un attimo), ma non ha minimamente scosso l'anima della nostra televisione. Le due "serie" che ancora fanno discutere i creativi e dirigenti della televisione nostrana sono
Un medico in famiglia ed
Elisa di Rivombrosa. Successi genuini e inattesi. Giustamente studiati. Ma anche Maurizio Costanzo e Bruno Vespa fanno
audience: mica per questo bisogna dargli retta e studiarli come esempi da riprodurre.
Il donwload invece ci ha fregati tutti. Ha saldato la frattura, ha sparso il seme di una pianta nuova, ha curvato lo spazio per riportare vicini due fronti (quello Usa e quello italiano) che parevano separati da una distanza incolmabile.
Intendiamoci: in Italia non ci sono milioni di anglofoni che si dilettano a guardare tutta la programmazione televisiva anglo-americana. Invece, i telefilm scaricati hanno agito sulle élite tecnologiche e piano piano hanno cominciato ad attecchire. Perché ha "toccato" qualche centinaio di migliaia di persone, cambiato i gusti, restituito il piacere di una lingua originale (sottotitolata) che comunque suonava genuina, non artificiale come i nostri anodini doppiatori. Hanno cambiato i pochi che poi ne hanno parlato, cambiandoli, i molti.
E i Dvd, col doppio audio e la capacità di mettere ordine fra le stagioni nella leggerezza dei palinsesti, hanno chiuso il cerchio. Il prodotto telefilm – una specialità tutta americana come la torta di mele e il tacchino ripieno - l'hanno capita i consumatori ma non i produttori di televisione nostrana. E tantomeno gli attori e i registi. Gli sceneggiatori non sono pervenuti.
Cosa penso io in sostanza? Negli Usa non hanno una "tecnologia da fantascienza" per i telefilm. Hanno solo una industria diversa. Che noi scimmiottiamo senza in realtà preoccuparci di capire come funziona. Facessimo ancora il
Tenente Sheridan magari faticheremmo ma almeno ci sarebbe il guizzo di originalità autarchico. Facessimo i cinesi (una volta si diceva "i giapponesi") del settore, riusciremmo a copiare qualcosa di più che non la marca di videocamera usata per le riprese o i font della titolatrice per i pannelli di testa e di coda. Parliamoci chiaro: ha ragione Gianluca. I nostri telefilm sono inguardabili. E chi li realizza meriterebbe la peggiore tra le torture: guardarli almeno una volta. Perché evidentemente non lo fa mai. Quelli fatti in America, anche le puzzole più puzzole, sono meglio, molto meglio. In compenso, come osserva sempre Gianluca, noi sappiamo fare la pizza. Non si può mica avere tutto, no?