AVETE PRESENTE QUEI film che sono costruiti come se fossero dei piccoli teoremi di matematica? Tutto pulito, tutto torna, tutto è ben disegnato? Ebbene, Looper è uno di questi. La storia è semplice: nel futuro remoto viene inventato il viaggio del tempo, subito messo fuorilegge dalle autorità ma i mafiosi lo utilizzano per spedire indietro le persone da far scomparire con due palle in testa, perché nel futuro remoto non si riesce a eliminare un corpo senza che ti becchino. Il passato dove vengono spediti questi morituri è il nostro futuro prossimo, un posto simile al nostro con un po' più di tecnologia, qualche droga diversa e queste fighissime moto che galleggiano agganciate a una megaturbina.
I loopers sono criminali assunti per fare il lavoro sporco: si fanno trovare al posto giusto, acchiappano e accoppano il corpo che si materializza, recuperano i lingotti d'argento che vengono messi come paga sul corpo stesso, e infine dispongono del corpo. Il problema è che a un certo punto questi criminali si trovano a far fuori loro stessi, molto più vecchi, rimpatriati dal futuro. In quel caso la paga è notevolmente più alta, gli ultimi lingotti sono anche il benservito.
Ecco, in questa storia in cui è meglio imparare il cinese che non il francese (omaggio alla globalizzazione avanzante anche dentro Hollywood) entra di prepotenza un cast solido e teso verso l'obiettivo di un thriller ben congegnato. Bruce Willis alterna film così a quelli più commerciali, mentre è molto, molto interessante Joseph Gordon-Levitt, che ha lo sguardo di un Robert De Niro giovane e un po' più divertito ma non per questo meno intenso. Fra le altre cose il ragazzo ha anche interessi di produzione (ha creato hitRECord) e di regia.
A proposito di regia, dietro la camera c'è un talento molto interessante, al suo terzo film nonostante abbia quasi quarant'anni: si chiama Rian Johnson e ha lavorato già con Gordon-Levitt nel suo primo film low budget (mezzo milione di dollari di produzione), Brick (2006) e poi con un buon gruppo di attori di livello --Mark Ruffalo, Adrien Brody, Rachel Weisz e Rinko Kikuchi-- per The Brothers Bloom del 2009. Non ho visto nessuno dei due finora, ma recupererò perché mi pare interessante.
Looper rimane un titolo molto intelligente e studiato, con una trama serrata della quale anticipare qualcosa vale solo a rovinare il piacere di chi voglia vederselo. Nonostante (l'ottimo) Bruce Willis.
31.10.12
30.10.12
Silvio Berlusconi, innocenza, non colpevolezza e il ministro di giustizia Paola Severino
UN PAIO DI giorni fa, mentre Belusconi tuonava che voleva rientrare in lizza come candidato premier e gli si opponeva la condanna di primo grado per una delle sue tante questioni giudiziali (nella fattispecie: evasione fiscale della "sua" Mediaset), il nostro ministro di Giustizia Paola Severino, primo ministro donna al Palazzaccio nonché allieva di Flick, avvocato e soprattutto accademico di lungo corso in diritto Penale, ha rilasciato una dichiarazione che mi ha lasciato perplesso.
ZCZC1986/SXA
XPP99565
U POL S0A QBXB
MEDIASET: SEVERINO,VIGE PRESUNZIONE INNOCENZA,NO CONSEGUENZE
EX PREMIER LIBERO DI DECIDERE SU SUO DESTINO POLITICO
(ANSA) - GERUSALEMME, 28 OTT - La sentenza Mediaset e' di
primo grado e ''non ha una diretta e immediata conseguenza sulla
vita politica di Berlusconi come di qualunque altro politico,
perche' nel nostro paese vige un principio che e' la presunzione
di innocenza''. Lo ha detto il ministro della Giustizia Paola
Severino a margine del suo intervento alla Hebrew University di
Gerusalemme. (SEGUE).
LC
28-OTT-12 14:54
ZCZC2002/SXA
XPP99566
R POL S0A QBXB
MEDIASET: SEVERINO,VIGE PRESUNZIONE INNOCENZA,NO CONSEGUENZE (2)
(ANSA) - GERUSALEMME, 28 OTT - ''Principio vinto e superato -
ha aggiunto Severino - solo quando c'e' una sentenza definitiva.
Quindi Berlusconi, come qualunque altro politico che si trovi
nella stessa situazione, e' libero di decidere del suo destino
politico e decidera' liberamente quello che vorra' nelle
prossime elezioni''.
''Le sentenze appartengono all'ordine giuidiziario e qui si
tratta di una sentenza di primo grado. Finche' le sentenze non
diventano definitive, cio' che stabiliscono non puo' essere
essere considerato definitivo''. ''In ogni caso - ha aggiunto -
prendero' visione anche della motivazione della sentenza che e'
sempre molto importante oltre che la decisione''. (ANSA).
LC
28-OTT-12 14:55
Severino, se è stata ben trascritta da LC, afferma che nel nostro paese ''vige un principio che e' la presunzione di innocenza''. Peccato che nel nostro ordinamento le cose stiano in maniera leggermente diversa. Il principio astratto è quello della presunzione d'innocenza, ma la nostra Costituzione recepisce quello della non colpevolezza. E come si potrebbe altrimenti giustificare il fatto che una persona sulla quale il giudice non ha ancora emesso una sentenza definitiva possa andare in galera se si presume che sia innocente?
L'articolo 27 secondo comma della Costituzione dice infatti:
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Da cui si evince che uno non è colpevole se non dopo la condanna definitiva. Non si dice però che è innocente, ma solo che non è colpevole.
La considerazione di non colpevolezza di una persona è molto importante, vuol dire che non deve dimostrare di essere innocente ma che tocca all'accusa portare delle prove al riguardo. Non c'è pregiudizio, il giudice si deve presentare privo di convincimenti precedenti al processo.
Da un lato questo è un resto del modello di processo inquisitorio che vigeva in Italia dai tempi del codice Rocco (processo in cui le prove vengono raccolte in segreto dal giudice-inquisitore) e che è stato "smantellato" solo con l'istituzione del giusto processo alla fine degli anni Ottanta. Dall'altro, però, è anche il modo con il quale il nostro costituente, prima ancora del legislatore, concepisce il ruolo dell'individuo di fronte alla Legge: non colpevole, a meno che non si riesca a dimostrare il contrario. Perché sarebbe ad esempio singolare considerare innocente un reo confesso nelle more tra il primo grado e il momento in cui si arrivi a una sentenza in giudicato. E magari erogare misure cautelari, come dicono i GUP mentre ti schiaffano in galera per uno delle quattro possibili misure cautelari personali coercitive.
Nel nostro ordinamento, ma anche secondo la Corte di Giustizia Europea, è considerato innocente chiunque non sia sottoposto a processo, mentre chi è sottoposto a processo è considerato non colpevole fino a sentenza passata in giudicato. Non esistono sinonimi nella lingua dei giuristi: se uno è considerato innocente è una cosa, se non è considerato colpevole è un'altra.
La conseguenza nell'ambito della politica non è secondaria: dire che Berlusconi anche se condannato è comunque innocente, e dirlo subito dopo che un giudice ha condannato l'ex Premier e che l'ex Premier ha annunciato di volersi ricandidare, non è esattamente un esercizio di "garanzia" o amministrativo, ma un atto politico ben chiaro, oltretutto con rilievo all'attività elettorale che è il caposaldo dal quale i cittadini esercitano il rito democratico. Oppure il ministro si è solo sbagliato con la terminologia, come fosse un ingegnere leghista qualunque?
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MEDIASET: SEVERINO,VIGE PRESUNZIONE INNOCENZA,NO CONSEGUENZE
EX PREMIER LIBERO DI DECIDERE SU SUO DESTINO POLITICO
(ANSA) - GERUSALEMME, 28 OTT - La sentenza Mediaset e' di
primo grado e ''non ha una diretta e immediata conseguenza sulla
vita politica di Berlusconi come di qualunque altro politico,
perche' nel nostro paese vige un principio che e' la presunzione
di innocenza''. Lo ha detto il ministro della Giustizia Paola
Severino a margine del suo intervento alla Hebrew University di
Gerusalemme. (SEGUE).
LC
28-OTT-12 14:54
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MEDIASET: SEVERINO,VIGE PRESUNZIONE INNOCENZA,NO CONSEGUENZE (2)
(ANSA) - GERUSALEMME, 28 OTT - ''Principio vinto e superato -
ha aggiunto Severino - solo quando c'e' una sentenza definitiva.
Quindi Berlusconi, come qualunque altro politico che si trovi
nella stessa situazione, e' libero di decidere del suo destino
politico e decidera' liberamente quello che vorra' nelle
prossime elezioni''.
''Le sentenze appartengono all'ordine giuidiziario e qui si
tratta di una sentenza di primo grado. Finche' le sentenze non
diventano definitive, cio' che stabiliscono non puo' essere
essere considerato definitivo''. ''In ogni caso - ha aggiunto -
prendero' visione anche della motivazione della sentenza che e'
sempre molto importante oltre che la decisione''. (ANSA).
LC
28-OTT-12 14:55
Severino, se è stata ben trascritta da LC, afferma che nel nostro paese ''vige un principio che e' la presunzione di innocenza''. Peccato che nel nostro ordinamento le cose stiano in maniera leggermente diversa. Il principio astratto è quello della presunzione d'innocenza, ma la nostra Costituzione recepisce quello della non colpevolezza. E come si potrebbe altrimenti giustificare il fatto che una persona sulla quale il giudice non ha ancora emesso una sentenza definitiva possa andare in galera se si presume che sia innocente?
L'articolo 27 secondo comma della Costituzione dice infatti:
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Da cui si evince che uno non è colpevole se non dopo la condanna definitiva. Non si dice però che è innocente, ma solo che non è colpevole.
La considerazione di non colpevolezza di una persona è molto importante, vuol dire che non deve dimostrare di essere innocente ma che tocca all'accusa portare delle prove al riguardo. Non c'è pregiudizio, il giudice si deve presentare privo di convincimenti precedenti al processo.
Da un lato questo è un resto del modello di processo inquisitorio che vigeva in Italia dai tempi del codice Rocco (processo in cui le prove vengono raccolte in segreto dal giudice-inquisitore) e che è stato "smantellato" solo con l'istituzione del giusto processo alla fine degli anni Ottanta. Dall'altro, però, è anche il modo con il quale il nostro costituente, prima ancora del legislatore, concepisce il ruolo dell'individuo di fronte alla Legge: non colpevole, a meno che non si riesca a dimostrare il contrario. Perché sarebbe ad esempio singolare considerare innocente un reo confesso nelle more tra il primo grado e il momento in cui si arrivi a una sentenza in giudicato. E magari erogare misure cautelari, come dicono i GUP mentre ti schiaffano in galera per uno delle quattro possibili misure cautelari personali coercitive.
Nel nostro ordinamento, ma anche secondo la Corte di Giustizia Europea, è considerato innocente chiunque non sia sottoposto a processo, mentre chi è sottoposto a processo è considerato non colpevole fino a sentenza passata in giudicato. Non esistono sinonimi nella lingua dei giuristi: se uno è considerato innocente è una cosa, se non è considerato colpevole è un'altra.
La conseguenza nell'ambito della politica non è secondaria: dire che Berlusconi anche se condannato è comunque innocente, e dirlo subito dopo che un giudice ha condannato l'ex Premier e che l'ex Premier ha annunciato di volersi ricandidare, non è esattamente un esercizio di "garanzia" o amministrativo, ma un atto politico ben chiaro, oltretutto con rilievo all'attività elettorale che è il caposaldo dal quale i cittadini esercitano il rito democratico. Oppure il ministro si è solo sbagliato con la terminologia, come fosse un ingegnere leghista qualunque?
Shinjuku Incident (2009)
JACKIE CHAN SVOLTA verso il cinema drammatico. O qualcosa del genere. Tra sabato e domenica mi sono guardato Shinjuku Incident (da noi "La vendetta del dragone"), film di Hong Kong del 2009 diretto da Derek Yee. Il film è la storia di Steelhead, contadino e meccanico di trattori cinese che, per cercare la promessa sposa "scomparsa" in Giappone dopo esservi emigrata illegalmente, segue la stessa via e cerca di farsi strada nei bassifondi di una Tokyo lucida e spietata, dove vige la legge del più forte e dove prima o poi i conti con la Yakuza, la mafia para-legale giapponese, devi sempre farli.
Scontro di culture tutto asiatico (cinesi, taiwanesi, giapponesi, con i rispettivi amori e odi), copione che dà adito a più letture culturali e tentativo moderatamente riuscito di offrire un ruolo a Jackie Chan che non si basi esclusivamente sul suo notevole tempismo comico e sulla sua ragguardevole conoscenza delle arti marziali acrobatiche, il film è comunque un dramma godibile. Non sono i contenuti a far impazzire (anzi, c'è qualche elemento piuttosto consunto nella storia, che scivola nella banalità dell'apologo), quanto la confezione, che è ben curata e piacevole.
È un periodo che il cinema asiatico mi sta attirando sempre di più. In questo caso, è ancora il cinema tradizionale di Hong Kong, quello che ha dato alla luce Bruce Lee per intenderci, ma anche la Cina continentale sta producendo titoli di un certo interesse. È da un po' che accade, ma adesso si sta formando quella massa critica che fa da prologo a qualche tipo di cambiamento culturale in Asia. Dopotutto, la Cina è la potenza emergente e il cinema è la punta di diamante del soft power. Lo sapevano bene gli americani, che finanziarono Hollywood per ammorbidire l'Europa del post-WWII e scongiurare la nascita di un antagonista.
Scontro di culture tutto asiatico (cinesi, taiwanesi, giapponesi, con i rispettivi amori e odi), copione che dà adito a più letture culturali e tentativo moderatamente riuscito di offrire un ruolo a Jackie Chan che non si basi esclusivamente sul suo notevole tempismo comico e sulla sua ragguardevole conoscenza delle arti marziali acrobatiche, il film è comunque un dramma godibile. Non sono i contenuti a far impazzire (anzi, c'è qualche elemento piuttosto consunto nella storia, che scivola nella banalità dell'apologo), quanto la confezione, che è ben curata e piacevole.
È un periodo che il cinema asiatico mi sta attirando sempre di più. In questo caso, è ancora il cinema tradizionale di Hong Kong, quello che ha dato alla luce Bruce Lee per intenderci, ma anche la Cina continentale sta producendo titoli di un certo interesse. È da un po' che accade, ma adesso si sta formando quella massa critica che fa da prologo a qualche tipo di cambiamento culturale in Asia. Dopotutto, la Cina è la potenza emergente e il cinema è la punta di diamante del soft power. Lo sapevano bene gli americani, che finanziarono Hollywood per ammorbidire l'Europa del post-WWII e scongiurare la nascita di un antagonista.
29.10.12
Iron Sky sbarca a Tokyo
LA COSA PIÙ bella è che si direbbe che si diverta, il regista del film di fantascienza finlandese indipendente che parla di Nazisti nascosti sulla Luna per settant'anni...
28.10.12
Uh...
SIAMO IN CAMPAGNA elettorale negli Usa. Anzi, sta proprio finendo. E Garry B. Trudeau questa domenica non si lascia sfuggire la possibilità di menare gran fendenti con Doonesbury, facendo riferimenti abbastanza espliciti a quale potrebbe essere il risultato finale di una campagna per evitare il voto delle parti "scomode" della società che delegittimerebbe il voto.
26.10.12
eBookFest di Sanremo
DOMANI SONO NELLA città dei fiori della riviera ligure di ponente, all'eBookFest. Obiettivo: parlare di eBook e giornalismo, un connubio alquanto interessante (il vostro Giovane Autore preferito ha piccole sorpresine in arrivo in questo campo). Comunque, se passate venite a fare ciao ciao.
27 ottobre 2012, ore 09.30 - 13.00, sala Ranuncolo
Programma:
Ebook non significa soltanto "romanzo" ma sempre di più informazione e giornalismo. A volte considerato come strumento di emancipazione per free-lance, a volte vero e proprio ginepraio di "difficoltà tecnologica", l'ebook entra nelle redazioni e ne modifica il linguaggio. Ma i giornalisti li sanno usare gli ebook? A cosa può servire un "libro digitale" per fare informazione e quali sono i nuovi strumenti offerti al giornalista e alla redazione?
Modera Carola Frediani, giornalista, Effecinque
Paolo Salom, Corriere Della Sera, autore e scrittore italiano
Antonio Dini, giornalista e saggista
Vittorio Pasteris, giornalista, esperto di tecnologia e digitale
Maria Cecilia Averame, Quintadicopertina
Ore 11.30 Seminario Ebook e giornalismo: istruzioni per l'uso
Giornalisti autori ed editori di ebook di informazione spiegano perché hanno scelto l'ebook e come lo hanno utilizzato. Quali sono le risorse, quali le difficoltà in un dibattito aperto dove sarà possibile confrontarsi apertamente e fare domande dirette agli autori.
Massimo Colasurdo, Informant, editore
Carola Frediani, giornalista e autrice
Sara Dellabella, giornalista e autrice AgenParl
Tutto questo ovviamente accade perché mi ha voluto coinvolgere la mitica Carola Frediani, la peraltro moderatrice del dibattito. E in realtà dovrebbe essere lei a venir intervistata, visto che ho finito di leggere il suo "Dentro Anonymous. Viaggio nelle legioni dei cyberattivisti", che è un perfetto esempio di giornalismo sposato all'eBook. Ah, tra parentesi, se avete voglia di leggere qualcosa sul fenomeno Anonymous, è questo il libro da prendere, non foss'altro perché è una inchiesta fatta sul campo (seppur virtuale) parlando con i testimoni. Insomma, bello!
27 ottobre 2012, ore 09.30 - 13.00, sala Ranuncolo
GIORNALISMO ED EDITORIA DIGITALE: PRATICHE E MODELLI A CONFRONTO
Programma:
Ebook non significa soltanto "romanzo" ma sempre di più informazione e giornalismo. A volte considerato come strumento di emancipazione per free-lance, a volte vero e proprio ginepraio di "difficoltà tecnologica", l'ebook entra nelle redazioni e ne modifica il linguaggio. Ma i giornalisti li sanno usare gli ebook? A cosa può servire un "libro digitale" per fare informazione e quali sono i nuovi strumenti offerti al giornalista e alla redazione?
Modera Carola Frediani, giornalista, Effecinque
Paolo Salom, Corriere Della Sera, autore e scrittore italiano
Antonio Dini, giornalista e saggista
Vittorio Pasteris, giornalista, esperto di tecnologia e digitale
Maria Cecilia Averame, Quintadicopertina
Ore 11.30 Seminario Ebook e giornalismo: istruzioni per l'uso
Giornalisti autori ed editori di ebook di informazione spiegano perché hanno scelto l'ebook e come lo hanno utilizzato. Quali sono le risorse, quali le difficoltà in un dibattito aperto dove sarà possibile confrontarsi apertamente e fare domande dirette agli autori.
Massimo Colasurdo, Informant, editore
Carola Frediani, giornalista e autrice
Sara Dellabella, giornalista e autrice AgenParl
Tutto questo ovviamente accade perché mi ha voluto coinvolgere la mitica Carola Frediani, la peraltro moderatrice del dibattito. E in realtà dovrebbe essere lei a venir intervistata, visto che ho finito di leggere il suo "Dentro Anonymous. Viaggio nelle legioni dei cyberattivisti", che è un perfetto esempio di giornalismo sposato all'eBook. Ah, tra parentesi, se avete voglia di leggere qualcosa sul fenomeno Anonymous, è questo il libro da prendere, non foss'altro perché è una inchiesta fatta sul campo (seppur virtuale) parlando con i testimoni. Insomma, bello!
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24.10.12
iPad mini
A ME SEMBRA molto bello. Peccato non averlo potuto provare più a lungo.
23.10.12
Il paradosso dei rumors
SONO A SAN Francisco, in pausa: sono arrivato ieri con un volo di British Airways, ho passato una giornata (scomoda) in città, e adesso sono tornato all'aeroporto di SFO per aspettare gli altri giornalisti e andare tutti assieme a San Jose dove, domani, Apple presenterà...
Ecco, che cosa presenterà Apple? I rumors, le indiscrezioni, le voci di corridoio hanno spiegato tutto o quasi tutto: un nuovo iPad mini, forse nuovi iMac, Mac mini, altre diavolerie di questo genere compresa una versione "riadattata" dell'iPad di terza generazione con il nuovo cavetto Lightning. Tutti pensieri belli che piacerebbero agli utenti, certo, ma anche indiscrezioni documentate con tanto di foto dei mock-up raccolte chissà dove nelle fabbriche asiatiche.
A me viene da pensare: è la terza volta che fuggono via le voci sui prodotti di Apple da quando è morto a ottobre del 2011 il buon Steve Jobs: indiscrezioni sul nuovo iPad, suoi nuovi iPhone 5 e adesso sul nuovo iPad mini (e il suo pendant nel mondo dell'editoria digitale, segnatamente quello della scuola).
Beh, se fosse vero - ed è probabile che lo sia - si marcherebbe definitivamente la vera distinzione tra questa epoca e quella di Steve Jobs: ai vecchi tempi tutti questo non sarebbe stato tollerato e sarebbero rotolate teste, sarebbero stati rescissi contratti di fornitura, ci sarebbe state conseguenze insomma. E invece no...
Ecco, che cosa presenterà Apple? I rumors, le indiscrezioni, le voci di corridoio hanno spiegato tutto o quasi tutto: un nuovo iPad mini, forse nuovi iMac, Mac mini, altre diavolerie di questo genere compresa una versione "riadattata" dell'iPad di terza generazione con il nuovo cavetto Lightning. Tutti pensieri belli che piacerebbero agli utenti, certo, ma anche indiscrezioni documentate con tanto di foto dei mock-up raccolte chissà dove nelle fabbriche asiatiche.
A me viene da pensare: è la terza volta che fuggono via le voci sui prodotti di Apple da quando è morto a ottobre del 2011 il buon Steve Jobs: indiscrezioni sul nuovo iPad, suoi nuovi iPhone 5 e adesso sul nuovo iPad mini (e il suo pendant nel mondo dell'editoria digitale, segnatamente quello della scuola).
Beh, se fosse vero - ed è probabile che lo sia - si marcherebbe definitivamente la vera distinzione tra questa epoca e quella di Steve Jobs: ai vecchi tempi tutti questo non sarebbe stato tollerato e sarebbero rotolate teste, sarebbero stati rescissi contratti di fornitura, ci sarebbe state conseguenze insomma. E invece no...
21.10.12
Thank you for calling
DOMENICA DI TRASFERTA internazionale, sono a San Francisco e poi a San José per l'iPad mini, ma Doonesbury è sempre qui, grazie a Garry B. Trudeau.
14.10.12
Dei pirati e dei corsari
NON C'È MAI stato un momento in cui si potesse leggere così tanto e così gratuitamente, o quasi. E probabilmente non ci sarà mai più: presto emergerà un altro assetto, una forma del mercato definitiva (almeno fino alla prossima rivoluzione) e si navigherà per un po' in quel modo nuovo che tanti sperano ma che non è detto che sia poi così interessante e ricco.
Infatti, a differenza della crisi economica che non passerà ma invece definisce un "nuovo normale" (e che ci dovrebbe far parlare di "economia della decrescita" e di altri paradigmi comunitari e sociali, perlomeno dal punto di vista di una assunzione di responsabilità collettiva e del desiderio di collaborare attivamente anche da parte degli imprenditori), il cambiamento del mercato del testo sta semplicemente trasformandosi, ma non rimarrà "compresso" ancora a lungo.
La difficoltà deriva dall'intuire le opportunità che offre, anche perché rimette in discussione soprattutto metafore e categorie di pensiero, prima ancora che modelli di business. Andate da un giornalista e ditegli che deve imparare a fare business diventando imprenditore di se stesso, dopo decenni che la deontologia professionale predica la massima lontananza possibile tra il giornalista indipendente e autonomo da un lato e i modelli di business e la loro sostenibilità dall'altra. Interessante da questo punto di vista la discussione che passa attraverso questa intervista a Jeff Jarvis. Il quale cita anche l'attività fatta partire da un suo allievo, che ha creato tramite crowdfounding il sito Narratively NYC, bel settimanale che racconta storie di frontiera. Ma, come dicevo, la possibilità di leggere in questo momento è semplicemente troppo grande per poter essere colta nella sua interezza e perché abbia ancora senso che produca un risultato economico capace di mantenere molta parte della filiera attorno a chi scrive.
Purtroppo, e lo dico per esperienza personale di collaboratore di gruppi editoriali nazionali, il vento apparentemente soffia nella direzione opposta: si fa la difesa del perimetro ristretto, delle professionalità interne alle case editrici e ai gruppi editoriali, alle pile e pile di dirigenti, quadri e impiegati ammonticchiati in uffici che producono tonnellate di prodotti inefficienti e per molti versi inutili. Come spiegare altrimenti il fatto che, anche all'interno di grandi gruppi e testate, le iniziative più interessanti siano pensate in maniera da start-up, con un contribuito minimale della struttura e con l'apporto di professionalità esterne anche in fase di concezione e di costruzione "tecnica" del prodotto? Penso alla Vita Nova, ma ce ne sono tante altre. Che senso ha? È lo stesso tipo di paradosso che hanno vissuto le aziende fortemente innovative una volta che hanno avuto successo (decenni fa) e si sono ingolfate e ingrossate con decine e decine (o migliaia) di dipendenti che fanno lavori non necessari. La vecchia storia della Marina Militare contrapposta alla Filibusta, tanto per cambiare.
E tanto vale allora cercare di fare una distinzione un po' più particolareggiata riappropriandoci del significato di alcune parole. Mi piace la distinzione tra Marina Militare (Navy) e pirateria (Pirate) fatta da Steve Jobs come elemento motivazionale per il gruppo che tra il 1979 e il 1984 ha creato il primo Macintosh. Però secondo me si può arricchire.
La pirateria "vera" (quella che parte dalla scoperta dell'America e prospera nel Mar delle Antille nel sedicesimo secolo, complice della lotta tra Francia, Inghilterra e Spagna) era in realtà un fenomeno più strutturato e articolato. C'erano i pirati, indicati nel corso del tempo come bucanieri e filibustieri, ma sostanzialmente dei privati che assaltavano qualsiasi nave per depredarla. Questi sono le piccole start-up indipendenti, quelle che nascono in un garage da qualche parte nel mondo e crescono a proprio rischio e pericolo: se i pirati venivano catturati erano infatti subito giustiziati dopo un processo sommario.
Invece i corsari erano quegli equipaggi solitamente di un'unica nazionalità che avevano ricevuto una patente per la "guerra di corsa" (da cui il nome) e che attaccavano i vascelli di un solo paese e dei suoi alleati, "salvando" quelli del proprio. Pensate a Sir Francis Drake, che aveva ricevuto la patente dalla Regina d'Inghilterra Elisabetta I e che depredava solo i galeoni spagnoli. In caso di cattura, sarebbe stato considerato alla stregua di un soldato nemico e giudicato secondo il diritto bellico del Mare e sottoposto a "giusto" processo. Insomma, come non pensare alle start-up interne alle aziende, agli incubatori, alle strutture in qualche modo "organiche" e non "esterne" al sistema?
Con questa distinzione la squadra di Steve Jobs che aveva realizzato il Mac (e quella del Sole 24 Ore che ha progettato la Vita Nova, su cui scrivo anche io) è composta da corsari, mentre quella di Marco Arment, lo sviluppatore che ha realizzato in passato Instapaper e adesso lancia il suo periodico one-man-band, intitolato semplicemente "The Magazine", è un vero pirata. Tanto che ha detto: se entro due mesi la mia iniziativa non funziona, stacco la spina.
L'iniziativa viene da fuori i recinto dell'editoria, anche se porta con sé molte suggestioni più organiche. Ma viene sostanzialmente da un tecnocrate in grado di gestire la parte dei contenuti, e con una rete di relazioni sufficientemente ampia da garantire abbastanza materiale per i primi mesi, poi si vedrà. Tanto, se entrano i soldi, si riesce a fare tutto.
L'altro cosa che infastidisce, ma se ne parlerà un'altra volta, è che adesso siamo costretti a scegliere. Non basta più andare in edicola, comprare Panorama o L'espresso e stare bene così. Ci sono davvero tante, tantissime fonti che dobbiamo valutare personalmente, senza che nessuno ci dica se chi scrive è un genio o un manigoldo. Ma poi, non è per questo che esistono i social network e le raccomandazioni dal basso? Io intanto mi vado a leggere un po' di Narratively, che racconta Original, True and In-Depth Stories.
Infatti, a differenza della crisi economica che non passerà ma invece definisce un "nuovo normale" (e che ci dovrebbe far parlare di "economia della decrescita" e di altri paradigmi comunitari e sociali, perlomeno dal punto di vista di una assunzione di responsabilità collettiva e del desiderio di collaborare attivamente anche da parte degli imprenditori), il cambiamento del mercato del testo sta semplicemente trasformandosi, ma non rimarrà "compresso" ancora a lungo.
La difficoltà deriva dall'intuire le opportunità che offre, anche perché rimette in discussione soprattutto metafore e categorie di pensiero, prima ancora che modelli di business. Andate da un giornalista e ditegli che deve imparare a fare business diventando imprenditore di se stesso, dopo decenni che la deontologia professionale predica la massima lontananza possibile tra il giornalista indipendente e autonomo da un lato e i modelli di business e la loro sostenibilità dall'altra. Interessante da questo punto di vista la discussione che passa attraverso questa intervista a Jeff Jarvis. Il quale cita anche l'attività fatta partire da un suo allievo, che ha creato tramite crowdfounding il sito Narratively NYC, bel settimanale che racconta storie di frontiera. Ma, come dicevo, la possibilità di leggere in questo momento è semplicemente troppo grande per poter essere colta nella sua interezza e perché abbia ancora senso che produca un risultato economico capace di mantenere molta parte della filiera attorno a chi scrive.
Purtroppo, e lo dico per esperienza personale di collaboratore di gruppi editoriali nazionali, il vento apparentemente soffia nella direzione opposta: si fa la difesa del perimetro ristretto, delle professionalità interne alle case editrici e ai gruppi editoriali, alle pile e pile di dirigenti, quadri e impiegati ammonticchiati in uffici che producono tonnellate di prodotti inefficienti e per molti versi inutili. Come spiegare altrimenti il fatto che, anche all'interno di grandi gruppi e testate, le iniziative più interessanti siano pensate in maniera da start-up, con un contribuito minimale della struttura e con l'apporto di professionalità esterne anche in fase di concezione e di costruzione "tecnica" del prodotto? Penso alla Vita Nova, ma ce ne sono tante altre. Che senso ha? È lo stesso tipo di paradosso che hanno vissuto le aziende fortemente innovative una volta che hanno avuto successo (decenni fa) e si sono ingolfate e ingrossate con decine e decine (o migliaia) di dipendenti che fanno lavori non necessari. La vecchia storia della Marina Militare contrapposta alla Filibusta, tanto per cambiare.
E tanto vale allora cercare di fare una distinzione un po' più particolareggiata riappropriandoci del significato di alcune parole. Mi piace la distinzione tra Marina Militare (Navy) e pirateria (Pirate) fatta da Steve Jobs come elemento motivazionale per il gruppo che tra il 1979 e il 1984 ha creato il primo Macintosh. Però secondo me si può arricchire.
La pirateria "vera" (quella che parte dalla scoperta dell'America e prospera nel Mar delle Antille nel sedicesimo secolo, complice della lotta tra Francia, Inghilterra e Spagna) era in realtà un fenomeno più strutturato e articolato. C'erano i pirati, indicati nel corso del tempo come bucanieri e filibustieri, ma sostanzialmente dei privati che assaltavano qualsiasi nave per depredarla. Questi sono le piccole start-up indipendenti, quelle che nascono in un garage da qualche parte nel mondo e crescono a proprio rischio e pericolo: se i pirati venivano catturati erano infatti subito giustiziati dopo un processo sommario.
Invece i corsari erano quegli equipaggi solitamente di un'unica nazionalità che avevano ricevuto una patente per la "guerra di corsa" (da cui il nome) e che attaccavano i vascelli di un solo paese e dei suoi alleati, "salvando" quelli del proprio. Pensate a Sir Francis Drake, che aveva ricevuto la patente dalla Regina d'Inghilterra Elisabetta I e che depredava solo i galeoni spagnoli. In caso di cattura, sarebbe stato considerato alla stregua di un soldato nemico e giudicato secondo il diritto bellico del Mare e sottoposto a "giusto" processo. Insomma, come non pensare alle start-up interne alle aziende, agli incubatori, alle strutture in qualche modo "organiche" e non "esterne" al sistema?
Con questa distinzione la squadra di Steve Jobs che aveva realizzato il Mac (e quella del Sole 24 Ore che ha progettato la Vita Nova, su cui scrivo anche io) è composta da corsari, mentre quella di Marco Arment, lo sviluppatore che ha realizzato in passato Instapaper e adesso lancia il suo periodico one-man-band, intitolato semplicemente "The Magazine", è un vero pirata. Tanto che ha detto: se entro due mesi la mia iniziativa non funziona, stacco la spina.
L'iniziativa viene da fuori i recinto dell'editoria, anche se porta con sé molte suggestioni più organiche. Ma viene sostanzialmente da un tecnocrate in grado di gestire la parte dei contenuti, e con una rete di relazioni sufficientemente ampia da garantire abbastanza materiale per i primi mesi, poi si vedrà. Tanto, se entrano i soldi, si riesce a fare tutto.
L'altro cosa che infastidisce, ma se ne parlerà un'altra volta, è che adesso siamo costretti a scegliere. Non basta più andare in edicola, comprare Panorama o L'espresso e stare bene così. Ci sono davvero tante, tantissime fonti che dobbiamo valutare personalmente, senza che nessuno ci dica se chi scrive è un genio o un manigoldo. Ma poi, non è per questo che esistono i social network e le raccomandazioni dal basso? Io intanto mi vado a leggere un po' di Narratively, che racconta Original, True and In-Depth Stories.
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7.10.12
Where's the newspaper? It folded.
DOONESBURY DI GARRY B. Trudeau ha, come tutti noi, dei bei problemi a nutrirsi in modo soddisfacente con l'attuale dieta mediale. Anche se è domenica.
3.10.12
Ecco Urania nuovo formato
CON UN NUMERO (il 1587) che cade nel sessantesimo anniversario della testata e che è occupato dall'ultimo romanzo di Arthur C. Clarke, scritto assieme a Frederik Pohl, Urania cambia formato. La storica testata di fantascienza della Mondadori sfrutta il colore bianco e diventa allineato agli altri prodotti seriali Mondadori: Giallo e Segretissimo.
Per me è un cambiamento epocale: compro Urania da quasi trent'anni, cerco costantemente di integrare nuovi numeri nella collezione per renderla completa (sono molto lontano da questo traguardo, ma non si sa mai nella vita) e ogni cambiamento ha un significato diverso. Ho conosciuto la collana con la serie bianca tradizionale, fascetta rossa in alto e disegno nel tondo. Ho vissuto con disagio un decennio (l'ultimo) di cambiamenti quasi mai azzeccati. Anche il ritorno al bianco e rosso, con disegno nel tondo, dell'ultima serie era convincente sino a un certo punto. L'errore alla base era il formato "compact" da libreria super-economica, vero svilimento rispetto alla apertura ariosa del fascicolo con testo su due colonne.
Gli attuali Urania recuperano la dimensione ariosa ma non le due colonne di testo: sembra di leggere un vecchio Millemondi di qualche decennio fa. Rimarrà la gabbia grafica e il formato precedente solo per un altro numero che arriva in edicola tra poco, con l'etichetta Millemondi (collezione Inverno: esce a novembre) e che mantiene la continuità anche grafica con il primo capitolo della saga di Hamilton, L'evoluzione del vuoto.
Il primo impatto è molto positivo. Mi piace. Mi piace il nuovo oggetto. Che è più alto, oltre che più largo (e quindi crea un po' di pandemonio nella mia libreria) ma mi piace. Anche la copertina, con la scritta "Urania" così alleggerita da essere quasi un filo, mi piace molto. Vediamo come procede.
Una nota: L'ultimo teorema di Clarke e Pohl è anche l'ultimo romanzo di Clarke (un vero genio), inedito in Italia. Crea un cortocircuito voluto con il primo Urania (della serie romanzi) uscito in edicola, che era Le sabbie di Marte sempre di Clarke. Bello.
Per me è un cambiamento epocale: compro Urania da quasi trent'anni, cerco costantemente di integrare nuovi numeri nella collezione per renderla completa (sono molto lontano da questo traguardo, ma non si sa mai nella vita) e ogni cambiamento ha un significato diverso. Ho conosciuto la collana con la serie bianca tradizionale, fascetta rossa in alto e disegno nel tondo. Ho vissuto con disagio un decennio (l'ultimo) di cambiamenti quasi mai azzeccati. Anche il ritorno al bianco e rosso, con disegno nel tondo, dell'ultima serie era convincente sino a un certo punto. L'errore alla base era il formato "compact" da libreria super-economica, vero svilimento rispetto alla apertura ariosa del fascicolo con testo su due colonne.
Gli attuali Urania recuperano la dimensione ariosa ma non le due colonne di testo: sembra di leggere un vecchio Millemondi di qualche decennio fa. Rimarrà la gabbia grafica e il formato precedente solo per un altro numero che arriva in edicola tra poco, con l'etichetta Millemondi (collezione Inverno: esce a novembre) e che mantiene la continuità anche grafica con il primo capitolo della saga di Hamilton, L'evoluzione del vuoto.
Il primo impatto è molto positivo. Mi piace. Mi piace il nuovo oggetto. Che è più alto, oltre che più largo (e quindi crea un po' di pandemonio nella mia libreria) ma mi piace. Anche la copertina, con la scritta "Urania" così alleggerita da essere quasi un filo, mi piace molto. Vediamo come procede.
Una nota: L'ultimo teorema di Clarke e Pohl è anche l'ultimo romanzo di Clarke (un vero genio), inedito in Italia. Crea un cortocircuito voluto con il primo Urania (della serie romanzi) uscito in edicola, che era Le sabbie di Marte sempre di Clarke. Bello.
2.10.12
Il CD compie 30 anni
AD AGOSTO DEL 2007 scrissi un pezzo per i 25 anni del Compact Disc. Le fonti dell'epoca mi dicevano che il dischetto argentato era stato presentato ufficialmente il 17 agosto del 1982 da Sony e Philips. Adesso altre fonti dicono che il primo album ad essere stato realizzato in CD è stato un album di Billy Joel, 52nd Street, che era già sul mercato da un paio d'anni.
Oggi si parla di morte del download, per dire che è lo streaming ad essere diventato il formato prevalente e Apple insegue cercando di far partire il suo servizio di radio-su-internet, con Sony che a quanto pare questa volta le mette i bastoni tra le ruote. Ma cinque anni fa si parlava più semplicemente di morte del CD. La cosa buffa è che ho ricominciato a comprarli, così come si potrebbero comprare i vinili. Comunque, qui sotto il mio pezzo dell'epoca.
Tanti auguri CD, oggi compi 25 anni (e stai morendo)
Il compact disc, presentato il 17 agosto di 25 anni fa da Philips (e realizzato insieme a Sony) compie un quarto di secolo. La sua rivoluzione fu radicale: un salto di qualità enorme rispetto a cassette e dischi, anche se non tutti trovavano nei bit lo stesso "calore" delle puntine che graffiavano la superficie del vinile. Ne sono stati venduti circa 200 miliardi di esemplari e, ancora per un po', se ne venderanno...
A ucciderlo è stata proprio l'avidità. Quell'avidità che non gli ha permesso di crescere e diventare uno strumento universale. Nato su intuizione di due colossi dell'elettronica, l'olandese Philips e la giapponese Sony, che avevano già sperimentato i primi formati di audio (e video) digitali, il Compact Disc è uno standard generoso che però è stato costretto a fare da contenitore delle brame delle grandi case discografiche, sostanzialmente "suicidandosi" con prezzi troppo elevati che hanno fatto da deterrente a nuove tecnologie come quelle della musica digitale in rete.
Oggi, 25 anni fa, Philips commercializzava il primo Cd. Un dischetto argentato che riusciva a contenere nel suo massimo 74 minuti. Come mai un formato e una dimensione così particolari? 120 millimetri, per l'esattezza, in grado di contenere 74 minuti di musica: un valore alquanto arbitrario rispetto ai 110 millimetri e 60 minuti previsti dai ricercatori olandesi di Philips, anche allora alleata con Sony per studiare lo standard.
Ma Norio Ohga, 77 anni, allora vicepresidente di Sony a capo della divisione operativa del progetto (divenne poi Ceo dell'azienda tra il 1989 e il 1999), era stregato fin dalla giovinezza passata studiando canto al conservatorio di Berlino dalla Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven. Soprattutto, nell'interpretazione da 66 minuti di Herbert von Karajan di fine anni Sessanta. Il Cd nel formato originale, per Ohga, non poteva non contenerla tutta. Per essere ancor più certi di non sbagliare, tramite un controllo degli esperti della PolyGram, all'epoca sussidiaria della Philips, si risalì sino ad una rara edizione del 1951 registrata in mono durante il Bayreuther Festspiele e diretta da Wilhelm Furtwängler della durata di 74 minuti circa. Poche modifiche (che misero però completamente fuori gioco gli impianti della fabbrica di Philips già pronta ad Hannover) e il Cd divenne uno standard di 74 minuti su un diametro di 12 centimetri pronto nel 1982 per i mercati di tutto il mondo.
Oggi si conta che di Cd ne siano stati venduti 200 miliardi e ancora un po' se ne venderanno. Ma fu l'avidità dei discografici, che continuarono a "ricaricare" prezzi sempre maggiori, a condannare il Cd. E pensare che con la funzione "random", un finto-casuale in cui l'algoritmo doveva impedire che le canzoni si riproponessero in fila (cosa poi non così impossibile con 8-12 tracce in media) il Cd aveva intanto iniziato a fare un lavoro psicologico sottile e distruttivo. Come poi l'iPod, il Cd ha destrutturato la musica, consentendo l'ascolto non lineare ed anzi programmato. E poi, con l'avvento dei primi masterizzatori, oltre alla copia "fisica" del disco, anche la creazione delle prime playlist più evolute di quelle delle cassette (e l'affermarsi di software come Toast di Roxio per Mac e di Nero per Pc).
Infine, avendo i suoi contenuti in formato digitale, anche se con un campionamento di "bassa qualità", inferiore a quei 24 bit che avrebbero ad esempio potuto restituire la completezza dei pieni orchestrali anche all'orecchio degli audiofili meno esigenti, nonostante tutti i ragionamenti che nel tempo si sono fatti sulle frequenze audio riprodotto dal cd a 44,100, cosa questa del campionamento digitale che consentiva di trasferire i bit con facilità dal supporto ottico all'hard disk, comprimerli in formato Mp3 e poi distribuirli in rete. Prima Napster e poi iTunes, per semplificare, creando quello Zeus che si mangiò il padre Cronos-Cd. E la storia, dopo 25 anni, era cambiata radicalmente.
Comunque, tanti auguri, Cd. E cento di questi giorni. Almeno, speriamo...
Oggi si parla di morte del download, per dire che è lo streaming ad essere diventato il formato prevalente e Apple insegue cercando di far partire il suo servizio di radio-su-internet, con Sony che a quanto pare questa volta le mette i bastoni tra le ruote. Ma cinque anni fa si parlava più semplicemente di morte del CD. La cosa buffa è che ho ricominciato a comprarli, così come si potrebbero comprare i vinili. Comunque, qui sotto il mio pezzo dell'epoca.
Tanti auguri CD, oggi compi 25 anni (e stai morendo)
Il compact disc, presentato il 17 agosto di 25 anni fa da Philips (e realizzato insieme a Sony) compie un quarto di secolo. La sua rivoluzione fu radicale: un salto di qualità enorme rispetto a cassette e dischi, anche se non tutti trovavano nei bit lo stesso "calore" delle puntine che graffiavano la superficie del vinile. Ne sono stati venduti circa 200 miliardi di esemplari e, ancora per un po', se ne venderanno...
A ucciderlo è stata proprio l'avidità. Quell'avidità che non gli ha permesso di crescere e diventare uno strumento universale. Nato su intuizione di due colossi dell'elettronica, l'olandese Philips e la giapponese Sony, che avevano già sperimentato i primi formati di audio (e video) digitali, il Compact Disc è uno standard generoso che però è stato costretto a fare da contenitore delle brame delle grandi case discografiche, sostanzialmente "suicidandosi" con prezzi troppo elevati che hanno fatto da deterrente a nuove tecnologie come quelle della musica digitale in rete.
Oggi, 25 anni fa, Philips commercializzava il primo Cd. Un dischetto argentato che riusciva a contenere nel suo massimo 74 minuti. Come mai un formato e una dimensione così particolari? 120 millimetri, per l'esattezza, in grado di contenere 74 minuti di musica: un valore alquanto arbitrario rispetto ai 110 millimetri e 60 minuti previsti dai ricercatori olandesi di Philips, anche allora alleata con Sony per studiare lo standard.
Ma Norio Ohga, 77 anni, allora vicepresidente di Sony a capo della divisione operativa del progetto (divenne poi Ceo dell'azienda tra il 1989 e il 1999), era stregato fin dalla giovinezza passata studiando canto al conservatorio di Berlino dalla Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven. Soprattutto, nell'interpretazione da 66 minuti di Herbert von Karajan di fine anni Sessanta. Il Cd nel formato originale, per Ohga, non poteva non contenerla tutta. Per essere ancor più certi di non sbagliare, tramite un controllo degli esperti della PolyGram, all'epoca sussidiaria della Philips, si risalì sino ad una rara edizione del 1951 registrata in mono durante il Bayreuther Festspiele e diretta da Wilhelm Furtwängler della durata di 74 minuti circa. Poche modifiche (che misero però completamente fuori gioco gli impianti della fabbrica di Philips già pronta ad Hannover) e il Cd divenne uno standard di 74 minuti su un diametro di 12 centimetri pronto nel 1982 per i mercati di tutto il mondo.
Oggi si conta che di Cd ne siano stati venduti 200 miliardi e ancora un po' se ne venderanno. Ma fu l'avidità dei discografici, che continuarono a "ricaricare" prezzi sempre maggiori, a condannare il Cd. E pensare che con la funzione "random", un finto-casuale in cui l'algoritmo doveva impedire che le canzoni si riproponessero in fila (cosa poi non così impossibile con 8-12 tracce in media) il Cd aveva intanto iniziato a fare un lavoro psicologico sottile e distruttivo. Come poi l'iPod, il Cd ha destrutturato la musica, consentendo l'ascolto non lineare ed anzi programmato. E poi, con l'avvento dei primi masterizzatori, oltre alla copia "fisica" del disco, anche la creazione delle prime playlist più evolute di quelle delle cassette (e l'affermarsi di software come Toast di Roxio per Mac e di Nero per Pc).
Infine, avendo i suoi contenuti in formato digitale, anche se con un campionamento di "bassa qualità", inferiore a quei 24 bit che avrebbero ad esempio potuto restituire la completezza dei pieni orchestrali anche all'orecchio degli audiofili meno esigenti, nonostante tutti i ragionamenti che nel tempo si sono fatti sulle frequenze audio riprodotto dal cd a 44,100, cosa questa del campionamento digitale che consentiva di trasferire i bit con facilità dal supporto ottico all'hard disk, comprimerli in formato Mp3 e poi distribuirli in rete. Prima Napster e poi iTunes, per semplificare, creando quello Zeus che si mangiò il padre Cronos-Cd. E la storia, dopo 25 anni, era cambiata radicalmente.
Comunque, tanti auguri, Cd. E cento di questi giorni. Almeno, speriamo...
Anonimo Firenze Orologi
PROPRIO NELLE ORE in cui si apprende che Firenze Orologi ha ufficialmente finalizzato l'acquisizione del marchio e di tutto il resto per quanto concerne il brand di alta orologeria fiorentina "Anonimo", esce sulla Vita Nova (disponibile su iPad gratuitamente) il mio pezzo che racconta la loro storia, e quella di Dino Zei in particolare, gran firma di alcuni dei più begli orologi sul mercato (San Marco, Glauco, Aeronauta). Anonimo si distingue dal canto suo con gli altri modelli come Millemetri, Militare, Professionale e il mio preferito: Professionale GMT (che non fanno più).
In the beginning of 2009 the former company Anonimo Spa was placed under liquidation after a bankruptcy. Straight after that, a new company, named Firenze Orologi Srl, was founded to continue the production and distribution of the watch brand Anonimo, with a total new ownership.
From that moment onwards, Firenze Orologi Srl made a long term rental contract with the liquidator for using brand, patents and old stock of Anonimo Spa.
In 2012 Firenze Orologi Srl reached an agreement with the liquidator to end the renting contract and to purchase the brand, patents and remaining stock.
This purchase of the former Anonimo Spa by Firenze Orologi Srl was completed in July 2012 and the notary act of the purchase was drawn up in August 2012.
In other words, Firenze Orologi Srl became owner of the former assets of Anonimo Spa, namely brand, patents and stock.
Il comunicato di Firenze Orologi con cui spiega le tappe relative all'acquisizione di Anonimo:
From that moment onwards, Firenze Orologi Srl made a long term rental contract with the liquidator for using brand, patents and old stock of Anonimo Spa.
In 2012 Firenze Orologi Srl reached an agreement with the liquidator to end the renting contract and to purchase the brand, patents and remaining stock.
This purchase of the former Anonimo Spa by Firenze Orologi Srl was completed in July 2012 and the notary act of the purchase was drawn up in August 2012.
In other words, Firenze Orologi Srl became owner of the former assets of Anonimo Spa, namely brand, patents and stock.
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