SIAMO ARRIVATI ALL'EPILOGO anche di quest'anno. Tempo di classifiche, riflessioni, meditazioni, buoni propositi, intanto che si tira fuori dall'armadio lo smoking e ci si prepara all'esclusivo veglione in località esotica, distante ed ovviamente amena.
Segnalo quindi le due ultime cose che mi hanno più colpito. La prima è grazie a Roberto, che me l'ha segnalata pochi giorni addietro. Si tratta di Mad Men, serie televisiva per intenditori al suo esordio su AMC, creata dall'inventore dei Soprano, vale a dire Matthew Weiner. È ambientata nella New York dei tardi anni Cinquanta-primi Sessanta e gli uomini folli del titolo sono i pubblicitari (furono loro stessi a definirsi così), anzi i protagonisti lavorano per la Sterling Cooper, finta ma veri invece sono la maggior parte dei clienti, soprattutto la Lucky Strike (quella delle sigarette). Straordinaria ambientazione in un mondo vecchio di mezzo secolo fa che in realtà è al tempo stesso vicino e alieno.
I rapporti con le donne (solo segretarie, tutte pie e devote, oppure mogli, pie e devote, o amanti folli e donne liberate da stereotipi di genere), l'invenzione dell'industria pubblicitaria, la sovrapposizione tra commercio (vendere prodotti) e politica (vendere candidati). Fantastica, per chi mai si sia avvicinato al mondo della comunicazione in generale e delle agenzie di pubblicità in particolare, la filosofia e l'atmosfera di Madison Avenue, dove ha sede la Sterling Cooper. Senza contare il corrosivo sguardo al "com'eravamo" della famiglia americana di quegli anni che sono, bisogna ricordarlo, gli anni fondanti dell'attuale mito della Famiglia, della Società e del Sogno di quel paese. Grazie ancora, Roberto!
Seconda segnalazione, altrettanto pazzesca come impatto, è Californication, che non è la musica dei Red Hot Chili Peppers, ma alla serie televisiva di Showtime ideata da Tom Kapinos che segna il rientro di David Duchovny (ve lo ricordate? X-files e poi improbabili telefilm con storie e ambientazioni all Playboy). La storia è quella di uno scrittore newyorkese in crisi, Hank Moody, che è stato lasciato dalla compagna (con la quale ha una figlia dodicenne) di cui è ancora innamorato e che vaga tra avventure di sesso puro, droghe di tutti i genere (e tante sigarette, come i personaggi di Mad Men) e solitaria sofferenza per la ex che si sta per risposare. Lo scenario è una Los Angeles da brivido per la capacità di disegnare sul piccolo schermo le luci, le strade e soprattutto gli interni della città più americana d'America. Per chi c'è stato, è al tempo stesso la città che ha visto e quella che avrebbe potuto sognare.
La trama è alquanto più complicata, visto che tra le altre cose Hank finisce a letto con la figlia sedicenne del futuro marito della ex compagna che è anche il suo capo (ma non lo sapeva neanche lui) e il suo nuovo romanzo rischia di venirgli rubato... Da notare il personaggio del suo fido agente letterario, che lo segue in tutti i sensi (anche nei festini): interpretato da uno straordinario Evan Handler, il pezzo migliore della serie insieme allo stesso Duchovny.
Praticamente, se vogliamo cambiare prospettiva, la storia di un uomo innamorato e della sua Porsche. Il telefilm inizia con un "lavoro di fino" fatto da una monaca nella navata centrale di una chiesa, e poi due sigarette fumate a letto con la suddetta monaca che in realtà non è altro che l'originale di un sogno. Insomma, anche qui c'è trippa per gatti, anche se devono essere gatti maggiorenni.
Due serie di ottimo livello, tutte da godere, indice di un 2007 che mantiene la tradizione di questi ultimi anni di "rinascimento" del telefilm americano. Poi, magari è solo una fase o il fatto che siano prodotti affascinanti perché non ancora arrivati da queste parti. Però, mannaggia... Beh, vado a farmi stirare lo sparato.
31.12.07
30.12.07
25.12.07
Chinatown Italia
A NATALE CI vuole un po' di fortuna per beccare il libro giusto da leggere. Posizionato nella fredda e natia Firenze, ho preso alla Edison questo Chinatown Italia del cronista di nera dell'Ansa Fabrizio Cassinelli (Aliberti editore, 14 euro, 300 pagine). Probabilmente doveva essere un piccolo libro minore, uno di quelli stampati quasi a proprie spese per un editore underground, che affrontano un tema "minore" senza troppe pretese. Invece, non è così.
Chinatown Italia, nonostante una serie di ingenuità e i limiti della "produzione minore" (basta guardare la copertina per capire che non è capitato fra le mani degli stilisti di Strade Blu Mondadori) è un libro di grande valore. Innanzitutto, perché racconta una storia di cronaca basandosi su fatti, fatti e fatti. Certo, alle volte Cassinelli sente i limiti del suo essere cronista e probabilmente poco avvezzo ai virtuosismi e allo stile che il "passo lungo" di un libro richiede, ma coglie nel segno. Il suo è un inquietante e documentato reportage sulle Chinatown italiane, a partire da quella di Milano. Un documento raro e prezioso, sia per capire - e smontare molti stereotipi che circondano il fenomeno dell'immigrazione cinese nel nostro Paese - che per provare emozioni personali, svincolate dalle letture premasticate e dottrinarie, ideologiche che ci vengono solitamente somministrate.
Avrebbe potuto affidarsi a una squadra di "massaggiatori del testo", gli scafati editor delle grandi case editrici, che avrebbero potuto sciogliere le ripetizioni (dodici volte che cita e spiega cosa sia la chetamina, ovverosia ogni volta "la droga sintetica molto in voga tra gli orientali, normalmente utilizzata per curare i cavalli"), riorganizzare alcuni passaggi, fare più attenzione all'ortografia dei nomi propri e di luogo - soprattutto in Cina - che cambiano da pagina a pagina. Avrebbe potuto forse investire anche un po' di più nella ricerca, peraltro estremamente documentata e arricchita da tonnellate di verbali di carabinieri e polizia, raccolti con certosina pazienza, oppure essere un po' meno "timido", dato che si scioglie davvero solo nella seconda parte del libro, quando può unire le parti più succulente del suo reportage alle analisi di maggior respiro, come quella finale sul fenomeno della prostituzione nelle Chinatown. Ma, vivaddio, siano anni e anni luce avanti all'odioso Gomorra di Roberto Saviano, l'uomo buono per un solo libro. Ce ne fossero di più, di giornalisti come Cassinelli, che raccontano storie vere con fatti documentati e distacco - partecipato ma sempre distacco - e non con il desiderio di trasformarsi in un virtuoso della lingua e in un caposaldo della letteratura, incarnazione del verbo.
Da leggere, anche dopo Natale.
Chinatown Italia, nonostante una serie di ingenuità e i limiti della "produzione minore" (basta guardare la copertina per capire che non è capitato fra le mani degli stilisti di Strade Blu Mondadori) è un libro di grande valore. Innanzitutto, perché racconta una storia di cronaca basandosi su fatti, fatti e fatti. Certo, alle volte Cassinelli sente i limiti del suo essere cronista e probabilmente poco avvezzo ai virtuosismi e allo stile che il "passo lungo" di un libro richiede, ma coglie nel segno. Il suo è un inquietante e documentato reportage sulle Chinatown italiane, a partire da quella di Milano. Un documento raro e prezioso, sia per capire - e smontare molti stereotipi che circondano il fenomeno dell'immigrazione cinese nel nostro Paese - che per provare emozioni personali, svincolate dalle letture premasticate e dottrinarie, ideologiche che ci vengono solitamente somministrate.
Avrebbe potuto affidarsi a una squadra di "massaggiatori del testo", gli scafati editor delle grandi case editrici, che avrebbero potuto sciogliere le ripetizioni (dodici volte che cita e spiega cosa sia la chetamina, ovverosia ogni volta "la droga sintetica molto in voga tra gli orientali, normalmente utilizzata per curare i cavalli"), riorganizzare alcuni passaggi, fare più attenzione all'ortografia dei nomi propri e di luogo - soprattutto in Cina - che cambiano da pagina a pagina. Avrebbe potuto forse investire anche un po' di più nella ricerca, peraltro estremamente documentata e arricchita da tonnellate di verbali di carabinieri e polizia, raccolti con certosina pazienza, oppure essere un po' meno "timido", dato che si scioglie davvero solo nella seconda parte del libro, quando può unire le parti più succulente del suo reportage alle analisi di maggior respiro, come quella finale sul fenomeno della prostituzione nelle Chinatown. Ma, vivaddio, siano anni e anni luce avanti all'odioso Gomorra di Roberto Saviano, l'uomo buono per un solo libro. Ce ne fossero di più, di giornalisti come Cassinelli, che raccontano storie vere con fatti documentati e distacco - partecipato ma sempre distacco - e non con il desiderio di trasformarsi in un virtuoso della lingua e in un caposaldo della letteratura, incarnazione del verbo.
Da leggere, anche dopo Natale.
23.12.07
La domenica prima di Natale
SEMBRA IL TITOLO di un film o di un libro, ma è solo l'introduzione al consueto post dedicato a Doonesbury, di Gary B. Trudeau.
22.12.07
Bug Me Not
ANDATE IN UN sito qualunque per vedere i concerti in città o roba del genere, e vogliono la registrazione con tanto di username e password. Rompiscatole. Meno male che c'è questo sito, il cui semplice e geniale mestiere è farci evitare registrazioni inutili: contiene lui username e password a iosa, da utilizzare allegramente. Mai più senza.
Raziocinanti?
«A FAVORE DI Air France-Klm, spiega il Cda, un piano industriale "di elevata credibilità e idoneo a risolvere le criticità di tipo strategico, industriale e finanziario di Alitalia, tenuto anche conto del contesto competitivo nel quale la società opera"».
Poi, a gennaio si vedrà. Ma mi pare che le premesse siano sensate
Poi, a gennaio si vedrà. Ma mi pare che le premesse siano sensate
21.12.07
Anni Settanta
OVVIAMENTE DENTRO NON c'è tutto quello che uno vorrebbe trovare. Così, mancano i Pink Floyd e manca Grease o La febbre del sabato sera, per dire. O altre piccole cose che invece uno si aspetterebbe. E ce ne sono altre, invece, un po' spiazzanti, come la storia di David Hockney, del suo quadro "Mr and Mrs Clark and Percy" e quella dei singolari modelli della sua opera. Altre ancora sono addirittura non americanocentriche, ma al cento per cento Made in England: dai Monty Python a David Bowie, fino alla gara tra i Sex Pistols (God Save the Queen) e i Clash (London Calling). Oppure, l'ossessione (di cos'altro si potrebbe parlare?) per una certa parte del cinema che ruota intorno a Martin Scorsese, Jack Nicholson e Francis Ford Coppola. David Bowie e Lou Reed, senza contare Andy Warhol, sono idoli assoluti. Insomma, comunque la giriate, soprattutto adesso che è il tempo della memoria per la nostra società, cominciare a ripassare gli Anni Settanta con il libro del giornalista inglese Howard Sounes – che è stato biografo e tuttora venera con trasporto mistico Bob Dylan mentre ignora bellamente i Beatles – è una lettura necessaria. Lo pubblica Laterza nella gradevole collana Contromano, al modico prezzo di 15 euro per 500 e spicciole pagine. Tra Natale e Capodanno, mentre siete in treno o in aereo (visto il formato molto tascabile) è una lettura inevitabile. Sperando di essere presto condannati a rivivere (il meglio de)gli anni Settanta.
20.12.07
Think Different
«THE REASONABLE MAN adapts himself to the world; the unreasonable man persists in trying to adapt the world to himself. Therefore, all progress depends on the unreasonable man.»
George Bernard Shaw
George Bernard Shaw
Run rabbit, run (ovvero, il Milione)
SONO AL TELEFONO con Alitalia, in attesa tanto per cambiare, che sto cercando di farmi accreditare le miglia di una tratta volata a novembre. Capita sovente che si "perdano" una tratta. Non è colpa loro, casomai di Air France in questo caso. Comunque, com'è e come non è, sto qui che riguardo l'estratto conto online. E vedo che, con le miglia che nei prossimi giorni mi girano, superò quota 800 mila complessive. Il traguardo del milione si avvicina. Un interrogativo mi si presenta, però: ce la farò a superare la simbolica soglia o faranno prima festa loro? A questo punto, è meglio di un romanzo di Updike... (per lo squallore generale della situazione, intendo).
Ps: anche la fantastica persona del call center mi ha detto che preferirebbe Air France come partner futuro dell'azienda. Certo, poi per i dipendenti tutto è legato dal clima interno di lavoro (non si può mai dire a priori e non è legato alla stabilità del piano industriale). Però, così, tanto per ricordarlo ai posteri...
Ps: anche la fantastica persona del call center mi ha detto che preferirebbe Air France come partner futuro dell'azienda. Certo, poi per i dipendenti tutto è legato dal clima interno di lavoro (non si può mai dire a priori e non è legato alla stabilità del piano industriale). Però, così, tanto per ricordarlo ai posteri...
19.12.07
Bionic Woman
C'ERA UNA VOLTA, quando eravamo ragazzini, un telefilm che ci aveva fatto sognare. Almeno, ad alcuni. Era uno spin-off, una prosecuzione di un'altra serie. Si chiamava La donna bionica (tre stagioni fra il 1976 e il 1978, Abc e poi Nbc), ed era interpretato da Lindsay Wagner, che ci ha anche vinto anche un Emmy. Adesso, la Nbc ci riprova. Ha infatti dato il via ad un'altra serie della donna bionica, basato sempre sull'idea che ci sia un'agenzia governativa semi-sconosciuta che trasforma una giovane donna (interpretata questa volta dall'inglese Michelle Ryan), prossima a morire a seguito di un incidente, in un cyborg. Anzi, una donna bionica.
Mentre la serie degli anni Settanta apparteneva a quello stesso immaginario californiano a cui appartengono Chips (ricordate? Poncherello e Baker...) e L'uomo da sei milioni di dollari (uno sfolgorante Lee Majors, e tra le altre cose la serie "padre" di questa della donna bionica), la nuova edizione non può che fare i conti con le immagini molto meno ingenue alle quali ci siamo abituati oggi: 24, per citarne una. E il risultato della comparazione è abbastanza imbarazzante.
Sì, perché bionic woman, nonostante sia ancora in produzione (è ferma per via dello sciopero, ma riprenderà appena passa), non è un telefilm di quelli memorabili. Anzi, è abbastanza bruttino. Intendiamoci: un bruttino che qui da noi farebbe miracoli, ma negli Usa si colloca nella fascia bassa delle produzioni. Girato in Canada, con un problema di organizzazione dei temi e delle idee, si ruota sempre intorno al confronto, all'idea di fiducia, di segretezza, di relazioni che non riescono ad avanzare perché non si riesce realmente a comunicare, ed è banalmente uno strumento degli sceneggiatori per essere liberi di inserire nuovi "angoli" dei personaggi e nuove situazioni senza contraddirsi esplicitamente.
Non aiuta neanche il cast, perché a parte la co-protagonista, Katee Sackhoff di Battlestar Galactica, e ovviamente Michelle Ryan, il resto fa acqua da tutte le parti. Recitano bene, i poverini, ma hanno personaggi fatti di plastica. Insomma, risparmiate i bit sul vostro disco rigido, a meno che non vogliate farvi una divertente scarrozzata in una serie minore.
Mentre la serie degli anni Settanta apparteneva a quello stesso immaginario californiano a cui appartengono Chips (ricordate? Poncherello e Baker...) e L'uomo da sei milioni di dollari (uno sfolgorante Lee Majors, e tra le altre cose la serie "padre" di questa della donna bionica), la nuova edizione non può che fare i conti con le immagini molto meno ingenue alle quali ci siamo abituati oggi: 24, per citarne una. E il risultato della comparazione è abbastanza imbarazzante.
Sì, perché bionic woman, nonostante sia ancora in produzione (è ferma per via dello sciopero, ma riprenderà appena passa), non è un telefilm di quelli memorabili. Anzi, è abbastanza bruttino. Intendiamoci: un bruttino che qui da noi farebbe miracoli, ma negli Usa si colloca nella fascia bassa delle produzioni. Girato in Canada, con un problema di organizzazione dei temi e delle idee, si ruota sempre intorno al confronto, all'idea di fiducia, di segretezza, di relazioni che non riescono ad avanzare perché non si riesce realmente a comunicare, ed è banalmente uno strumento degli sceneggiatori per essere liberi di inserire nuovi "angoli" dei personaggi e nuove situazioni senza contraddirsi esplicitamente.
Non aiuta neanche il cast, perché a parte la co-protagonista, Katee Sackhoff di Battlestar Galactica, e ovviamente Michelle Ryan, il resto fa acqua da tutte le parti. Recitano bene, i poverini, ma hanno personaggi fatti di plastica. Insomma, risparmiate i bit sul vostro disco rigido, a meno che non vogliate farvi una divertente scarrozzata in una serie minore.
Lunchtime
«TIME IS AN illusion. Lunchtime doubly so.»
Douglas Adams
Douglas Adams
18.12.07
Photoshop
LE VARIE VOLTE che mi è capitato di incontrarli, non ho mai in effetti sfruttato l'occasione per chiedere cosa si prova (se mai si prova qualcosa) sapendo di aver creato lo strumento per antonomasia che "illustra" le meraviglie, le potenzialità e i rischi del digitale. Parlo di Adobe, che ha programmato Photoshop, il software per il fotoritocco più popolare e diffuso. Talmente diffuso che spesso ci dimentichiamo che in sostanza è quello a fare da prototipo per l'immaginario dei mondi digitali. Con Photoshop si ritoccano e si falsificano (migliorandole, peggiorandole o inventandole) le immagini che la nostra società contemporanea ci ha insegnato a prestare affidamento. Indimenticabile come esempio questo "campionato" di artisti in rete che usando Photoshop creano falsi: i fotomontaggi (alcuni deliziosi) fatti inventandosi coppie hollywoddiane impossibili. Tipo Cameron Diaz con Humprey Bogart...
17.12.07
Emozione Roma, Bologna, Torino, Genova, Venezia (Padova e Verona)
ECCO, MI CHIEDONO (e mi chiedo anch'io): quando fare le presentazioni dell'opera del Giovane Autore per queste - e altre - città? Io aggiungo: come organizzarle? Dove andare a pescare i contatti giusti? Dove trovare i locali e via dicendo? Il Giovane Autore, nonostante il funambolico supporto del Grande Editore Nazionale, ha difficoltà a coordinare le lavatrici fra bianchi, colorati e lana, figuriamoci a gestire la sua propria agenda di presentazioni.
Il mestiere è in effetti difficile: come si fa a organizzare una teoria di presentazioni in città del centro-nord? (escludiamo la parte meridionale e isolana del Paese per mere questioni di costi della trasferta). Ecco dunque che nasce l'idea: la "Tournée del Giovane Autore". Avete una libreria, anche piccola? Un negozio che vende prodotti Apple? Un bar con tavolini? Un abbaino con vista sulla pubblica via? È il momento di farsi avanti! Leggete il libro del Giovane Autore, Emozione Apple, approfondite con il blog dedicato, guardate il vostro calendario personale e scrivetegli, al Giovane Autore (sempre che il suddetto libro sia piaciuto, ovviamente). Scrivete al consueto indirizzo antonio ( qui va messo un punto ) dini (qui va messa una chiocciola ) gmail (qui va messo un altro punto ) com
Esso, il Giovane Autore intendo, sarà lì con voi for free Se invece non avete nessuna delle precedenti attività, ma avete apprezzato lo stesso l'idea, segnalatela sul vostro blog (se non ce l'avete, è un buon momento per aprirne uno). La Tournée del Giovane Autore è come un concerto rock vecchio stile, i quelli che venivano fatti nei club: posti piccoli, pochi appassionati, tante buone chiacchiere. Sennò, se non si va un po' a giro a incontrare il pubblico dopo i mesi del Carpiatone Totale, che gusto c'è?
Ps: quasi dimenticavo. Il pubblico è a carico vostro...
Il mestiere è in effetti difficile: come si fa a organizzare una teoria di presentazioni in città del centro-nord? (escludiamo la parte meridionale e isolana del Paese per mere questioni di costi della trasferta). Ecco dunque che nasce l'idea: la "Tournée del Giovane Autore". Avete una libreria, anche piccola? Un negozio che vende prodotti Apple? Un bar con tavolini? Un abbaino con vista sulla pubblica via? È il momento di farsi avanti! Leggete il libro del Giovane Autore, Emozione Apple, approfondite con il blog dedicato, guardate il vostro calendario personale e scrivetegli, al Giovane Autore (sempre che il suddetto libro sia piaciuto, ovviamente). Scrivete al consueto indirizzo antonio ( qui va messo un punto ) dini (qui va messa una chiocciola ) gmail (qui va messo un altro punto ) com
Esso, il Giovane Autore intendo, sarà lì con voi for free Se invece non avete nessuna delle precedenti attività, ma avete apprezzato lo stesso l'idea, segnalatela sul vostro blog (se non ce l'avete, è un buon momento per aprirne uno). La Tournée del Giovane Autore è come un concerto rock vecchio stile, i quelli che venivano fatti nei club: posti piccoli, pochi appassionati, tante buone chiacchiere. Sennò, se non si va un po' a giro a incontrare il pubblico dopo i mesi del Carpiatone Totale, che gusto c'è?
Ps: quasi dimenticavo. Il pubblico è a carico vostro...
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The Golden Compass
C'È ARIA DI fanatismo dietro al significato della Bussola d'Oro (cioè The Golden Compass), prima parte di una trilogia tratta dall'opera di Philip Pullman, complessivamente intitolata His Dark Materials tradotta tutta quanta anche da noi grazie a Salani, con modica cifra (ogni volume è nella fascia dei 15 euro).
C'è aria di fanatismo perché Pullman, pur scrivendo tre romanzi per ragazzi (e proprio perché scrive tre romanzi per ragazzi) compie un "peccato mortale" di ateismo anticlericale. Non è blasfemo, badate bene. Casomai eretico, se proprio volessimo andare al di sotto della superficie delle parole. Come del resto era capitato (visto che siamo sotto Natale, vale la pena ricordarlo) anche al migliore dei film dei Monty Python, Brian di Nazareth. All'epoca, era il 1979, il presidente degli Stati Uniti da tre anni era un "cristiano rinato". E durante la sua campagna elettorale Jimmy Carter aveva fatto appello all'elettorato più giovane anche attraverso un neo-convertito/neo-rinato molto popolare: Bob Dylan. Oggi la situazione è, se possibile, ancor più arroventata su questi temi, e all'attuale presidente degli Usa fa forse più gioco Samuel P. Huntington con le sue tesi delle civiltà che collidono proprio sui temi religiosi (e tutto ciò che questo dopo l'11 settembre ha preso a significare). Ma la sostanza non pare essere molto diversa.
Il fanatismo è forse da entrambe le parti, però. Perché Pullman non si risparmia negli attacchi a tesi contro la religione e lo stato, contro la malvagità degli uomini che mirano al potere e desiderano solo fare del male ai simboli dell'innocenza (i bambini), contro le ambizioni e la sete di potere, il condizionamento che impedisce di vivere l'unica e breve vita come dovrebbe essere vissuta, e cioè all'insegna, dice Pullman, anche di un sano e misurato edonismo. Luca cita l'ampio pezzo di Atlantic Monthly che fa il punto sulla vicenda.
La storia del film è la versione "semplificata" di quella del libro – per questo non c'è voluto un ex Beatles come George Harrison per produrlo (accadde invece per il film dei Monty Python dopo il rifiuto delle major del settore) – ma lo stesso disturba l'ortodossia e inquina le coscienze dei più piccoli. Il peccato mortale, casomai, è la strutturazione della storia, un prologo di quasi due ore che si interrompe bruscamente e lascia l'amara sensazione di essere entrati per errore in una macchina a più stadi, come Matrix e soprattutto come il Signore degli Anelli. Anzi, di più: la Bussola termina repentinamente e a metà di una scena, praticamente con un cliff hanger degno di un buon telefilm, lasciando però perplesso lo spettatore che immagina come eccessiva l'attesa di un anno (almeno) prima di sciogliere i nodi di questo primo capitolo e lasciarne altri sul tavolo per la terza e – si spera – ultima parte dell'opera.
A parte questo, il film è maturo per gli effetti e suggestivo nell'ambientazione. Con Nicole Kidman, recentemente sempre più sotto tono, questa in buona forma. L'unica, vera irreale macchietta è quella di Sam Elliott, improbabile cow-boy texano che ricorda più la disastrosa parte in Ghost Rider (non l'avete visto? non vi siete persi proprio niente) che non un personaggio sensato e funzionale al film. Daniel Craig, meglio noto come l'ultimo 007, compare per adesso in maniera marginale: ritornerà nei prossimi capitoli con una funzione più chiara.
Attenzione, perché in questa fase di ricerca (soprattutto da parte degli investitori e produttori) di un nuovo Harry Potter, in realtà si perde il valore intrinseco nella storia. Che è un genuino e pregevole pezzo di artigianato fantasy con spunti interessanti e originali. Vale la pena, secondo me, cimentarsi nella lettura del volume originale e attendere con buona pace i prossimi due capitoli del film. Anche se non è detto che arriveranno.
Il dubbio che pervade lo spettatore, dopo una più attenta riflessione, è comunque un altro. Come faranno a far "ripartire" il film, tra un annetto? Con un riassunto della puntata precedente prima dei titoli di testa?
C'è aria di fanatismo perché Pullman, pur scrivendo tre romanzi per ragazzi (e proprio perché scrive tre romanzi per ragazzi) compie un "peccato mortale" di ateismo anticlericale. Non è blasfemo, badate bene. Casomai eretico, se proprio volessimo andare al di sotto della superficie delle parole. Come del resto era capitato (visto che siamo sotto Natale, vale la pena ricordarlo) anche al migliore dei film dei Monty Python, Brian di Nazareth. All'epoca, era il 1979, il presidente degli Stati Uniti da tre anni era un "cristiano rinato". E durante la sua campagna elettorale Jimmy Carter aveva fatto appello all'elettorato più giovane anche attraverso un neo-convertito/neo-rinato molto popolare: Bob Dylan. Oggi la situazione è, se possibile, ancor più arroventata su questi temi, e all'attuale presidente degli Usa fa forse più gioco Samuel P. Huntington con le sue tesi delle civiltà che collidono proprio sui temi religiosi (e tutto ciò che questo dopo l'11 settembre ha preso a significare). Ma la sostanza non pare essere molto diversa.
Il fanatismo è forse da entrambe le parti, però. Perché Pullman non si risparmia negli attacchi a tesi contro la religione e lo stato, contro la malvagità degli uomini che mirano al potere e desiderano solo fare del male ai simboli dell'innocenza (i bambini), contro le ambizioni e la sete di potere, il condizionamento che impedisce di vivere l'unica e breve vita come dovrebbe essere vissuta, e cioè all'insegna, dice Pullman, anche di un sano e misurato edonismo. Luca cita l'ampio pezzo di Atlantic Monthly che fa il punto sulla vicenda.
La storia del film è la versione "semplificata" di quella del libro – per questo non c'è voluto un ex Beatles come George Harrison per produrlo (accadde invece per il film dei Monty Python dopo il rifiuto delle major del settore) – ma lo stesso disturba l'ortodossia e inquina le coscienze dei più piccoli. Il peccato mortale, casomai, è la strutturazione della storia, un prologo di quasi due ore che si interrompe bruscamente e lascia l'amara sensazione di essere entrati per errore in una macchina a più stadi, come Matrix e soprattutto come il Signore degli Anelli. Anzi, di più: la Bussola termina repentinamente e a metà di una scena, praticamente con un cliff hanger degno di un buon telefilm, lasciando però perplesso lo spettatore che immagina come eccessiva l'attesa di un anno (almeno) prima di sciogliere i nodi di questo primo capitolo e lasciarne altri sul tavolo per la terza e – si spera – ultima parte dell'opera.
A parte questo, il film è maturo per gli effetti e suggestivo nell'ambientazione. Con Nicole Kidman, recentemente sempre più sotto tono, questa in buona forma. L'unica, vera irreale macchietta è quella di Sam Elliott, improbabile cow-boy texano che ricorda più la disastrosa parte in Ghost Rider (non l'avete visto? non vi siete persi proprio niente) che non un personaggio sensato e funzionale al film. Daniel Craig, meglio noto come l'ultimo 007, compare per adesso in maniera marginale: ritornerà nei prossimi capitoli con una funzione più chiara.
Attenzione, perché in questa fase di ricerca (soprattutto da parte degli investitori e produttori) di un nuovo Harry Potter, in realtà si perde il valore intrinseco nella storia. Che è un genuino e pregevole pezzo di artigianato fantasy con spunti interessanti e originali. Vale la pena, secondo me, cimentarsi nella lettura del volume originale e attendere con buona pace i prossimi due capitoli del film. Anche se non è detto che arriveranno.
Il dubbio che pervade lo spettatore, dopo una più attenta riflessione, è comunque un altro. Come faranno a far "ripartire" il film, tra un annetto? Con un riassunto della puntata precedente prima dei titoli di testa?
Beowulf
LA SFIGA MI ha subito inquadrato: avevo tempo per un cinema e non c'erano Imax 3D a disposizione, nonostante la settimana scorsa fossi negli Usa. Perché Beowulf, come accennavo sotto è davvero una festa per gli occhi e un miracolo per la tecnologia. Oltre ad essere un ottimo film di Natale se soprattutto nei film di Natale cercate intrattenimento e spettacolarità. Ma si gusta davvero di più se lo si può vedere in uno dei cinema attrezzati per la visione tridimensionale. Che, non essendoci stato, in realtà non so come sia, anche se posso immaginarla da alcune scelte di regia visivamente calibrate per un "effetto" assente nei cinema tradizionali (come le carrellate a pelo degli oggetti, o il lancio improvviso verso lo spettatore di un oggetto da parte degli attori).
Però la saga di Beowulf, uno dei miti fondanti della letteratura del nord Europa e soprattutto anglosassone (è anche il primo testo scritto pervenuto da quelle parti) ben si presta a questa operazione. Che è particolare, a ben guardare. Ricorda quella dello sfortunato film del 2001 Final Fantasy, spin off dell'omonima serie di videogiochi della giapponese Square (oggi Square-Enix). Ma c'è di più. Là i personaggi erano totalmente sintetici, oltre che realistici, mentre qui sono ricostruzioni di attori veri, ottenute con i teli verdi e tanto lavoro di computer. Tra Angelina Jolie, Anthony Hopkins, John Malkovich e Robin Wright Penn, per citare i più noti, è come se si aprisse una nuova dimensione per il mondo di Hollywood: infiniti film con star infinite, sempre più perfette e a loro agio tra universi virtuali ed effetti speciali generati nel silicio di un computer.
Il film, che è diretto dal veterano Robert Zemeckis (da Roger Rabbit a Ritorno al futuro), si fa guardare e scorre piuttosto bene, sia come storia che come "realismo", soprattutto dalla metà in giù. Il mito è riadattato rispetto a quanto rimane del poema epico originale ma non per questo eccessivamente semplificato. Cambia, casomai, l'obiettivo, che diventa quello di raccontare una storia di ambizione, coraggio e mortalità. L'unico aspetto genuinamente gratuito è la "sorellanza" finale tra le due vedove di Beowulf, visto anche il ruolo tutto sommato marginale delle donne: paravento per far risaltare l'avversaria-mostruosa interpretata da Angelina Jolie, mantide nemica della pace di qualsiasi famiglia, virtuale o attuale.
È uno dei pochi film che vale davvero vedere al cinema: i metri di superficie del telone fanno la loro bella differenza, quando sono i dettagli degli effetti digitali (robe da nevrotici) a risultare alla fine i veri protagonisti.
Però la saga di Beowulf, uno dei miti fondanti della letteratura del nord Europa e soprattutto anglosassone (è anche il primo testo scritto pervenuto da quelle parti) ben si presta a questa operazione. Che è particolare, a ben guardare. Ricorda quella dello sfortunato film del 2001 Final Fantasy, spin off dell'omonima serie di videogiochi della giapponese Square (oggi Square-Enix). Ma c'è di più. Là i personaggi erano totalmente sintetici, oltre che realistici, mentre qui sono ricostruzioni di attori veri, ottenute con i teli verdi e tanto lavoro di computer. Tra Angelina Jolie, Anthony Hopkins, John Malkovich e Robin Wright Penn, per citare i più noti, è come se si aprisse una nuova dimensione per il mondo di Hollywood: infiniti film con star infinite, sempre più perfette e a loro agio tra universi virtuali ed effetti speciali generati nel silicio di un computer.
Il film, che è diretto dal veterano Robert Zemeckis (da Roger Rabbit a Ritorno al futuro), si fa guardare e scorre piuttosto bene, sia come storia che come "realismo", soprattutto dalla metà in giù. Il mito è riadattato rispetto a quanto rimane del poema epico originale ma non per questo eccessivamente semplificato. Cambia, casomai, l'obiettivo, che diventa quello di raccontare una storia di ambizione, coraggio e mortalità. L'unico aspetto genuinamente gratuito è la "sorellanza" finale tra le due vedove di Beowulf, visto anche il ruolo tutto sommato marginale delle donne: paravento per far risaltare l'avversaria-mostruosa interpretata da Angelina Jolie, mantide nemica della pace di qualsiasi famiglia, virtuale o attuale.
È uno dei pochi film che vale davvero vedere al cinema: i metri di superficie del telone fanno la loro bella differenza, quando sono i dettagli degli effetti digitali (robe da nevrotici) a risultare alla fine i veri protagonisti.
Ratatouille
LA SCENA IN cui Rémy scappa con i documenti di Alfredo Linguini, inseguito da Skimmer è meravigliosa. Una delle cose migliori fatte con l'animazione computerizzata, a mio avviso. E tutto Ratatouille è un gran bel cartone animato, solo a tratti un po' legnoso (i gusti del cibo come musica e colore) ma nell'insieme bello, godibile, divertente e anche a modo suo "impegnato". Dopotutto è la storia di come diventare se stessi e che dimostra che la natura è il cambiamento.
Io fossi in voi lo andrei a vedere, là dove ancora lo danno.
Con i 614 milioni e passa di dollari sinora guadagnati al botteghino in tutto il mondo, Ratatouille è il terzo film per incassi della Pixar, e ha portato il totale degli otto film realizzati dall'azienda di proprietà della Disney (e c'è dentro anche la storia di Steve Jobs) alla bella cifra di quasi 4 miliardi e trecento milioni di dollari di fatturato solo al botteghino in 12 anni.
Vedremo se nel 2010 Toy Story 3 saprà fare di meglio...
Io fossi in voi lo andrei a vedere, là dove ancora lo danno.
Con i 614 milioni e passa di dollari sinora guadagnati al botteghino in tutto il mondo, Ratatouille è il terzo film per incassi della Pixar, e ha portato il totale degli otto film realizzati dall'azienda di proprietà della Disney (e c'è dentro anche la storia di Steve Jobs) alla bella cifra di quasi 4 miliardi e trecento milioni di dollari di fatturato solo al botteghino in 12 anni.
Vedremo se nel 2010 Toy Story 3 saprà fare di meglio...
16.12.07
L'esame dei giornalisti
NON L'HO LETTO da nessuna parte e sono costretto obtorto collo a scriverlo io. Perché poi uno ci passa da petulante e precisino, mentre è solo di Firenze (Dante, i panni in Arno e tutte quelle cose là) e quindi gli dolgono le orecchie e gli pungono gli occhi a sentire e leggere codeste espressioni.
Allora: non si dice "macchina da scrivere". Si dice "macchina per scrivere". Così come si dice "macchina per cucire" e non "da cucire". Si può – per carità - fare anche come Repubblica e comporre un sommario sull'esame dei giornalisti (che adesso ammette l'uso del computer) con questo testo:
La nuova norma prevede che non si debba più usare la vecchia macchina da scrivere portatile
Il punto è proprio questo: l'esame serve ad accertare le competenze professionali del candidato giornalista, che comprendono anche quelle linguistiche. Non si va a tentarlo per poter usare la macchina per scrivere, come nota invece Massimo. Poi si può pensare tutto il bene e il male che si vuole dei giornalisti, sia come singoli che come categoria. Di solito il male. Ma che ci volete fare? Senza sarebbe peggio. E comunque, con buona pace dei progressisti della lingua nostrana che poi ne fanno gran vezzo quando invece gli comoda, la regola è "per" e l'eccezione (oramai registrata e sdoganata dai più illustri dizionari bla bla bla) è "da". Non viceversa. La prossima volta possiamo dilungarci sull'uso più corretto di "affatto" o sui participi, se preferite. Per oggi dovrebbe bastare così.
No, un momento, prima che me ne dimentichi: qualcuno ha visto mai delle macchine per scrivere non portatili?
Allora: non si dice "macchina da scrivere". Si dice "macchina per scrivere". Così come si dice "macchina per cucire" e non "da cucire". Si può – per carità - fare anche come Repubblica e comporre un sommario sull'esame dei giornalisti (che adesso ammette l'uso del computer) con questo testo:
La nuova norma prevede che non si debba più usare la vecchia macchina da scrivere portatile
Il punto è proprio questo: l'esame serve ad accertare le competenze professionali del candidato giornalista, che comprendono anche quelle linguistiche. Non si va a tentarlo per poter usare la macchina per scrivere, come nota invece Massimo. Poi si può pensare tutto il bene e il male che si vuole dei giornalisti, sia come singoli che come categoria. Di solito il male. Ma che ci volete fare? Senza sarebbe peggio. E comunque, con buona pace dei progressisti della lingua nostrana che poi ne fanno gran vezzo quando invece gli comoda, la regola è "per" e l'eccezione (oramai registrata e sdoganata dai più illustri dizionari bla bla bla) è "da". Non viceversa. La prossima volta possiamo dilungarci sull'uso più corretto di "affatto" o sui participi, se preferite. Per oggi dovrebbe bastare così.
No, un momento, prima che me ne dimentichi: qualcuno ha visto mai delle macchine per scrivere non portatili?
Vogliono comprare Alitalia per fregarsi le posate e i sottobicchieri della Magnifica
AIR FRANCE INSIEME a Klm formano il "cuore" di uno dei più potenti gruppi commerciali nel settore dell'aeronautica civile. AirOne no. AF e Klm vogliono licenziare un sacco di gente, trasferire equipaggi e personale, ridimensionare Malpensa facendolo diventare un vettore per collegamenti punto-a-punto, AirOne no (due hub, tutti i dipendenti, tanti aerei diversi, vocazione italo-europea-internazionale). AF e Klm hanno la capacità di integrare Alitalia all'interno di un piano di sviluppo sostanzialmente diverso da quello improbabile e vago finora portato avanti da chi ha amministrato Alitalia. AirOne no, vuole mantenere ambizioni, vaghezze e improbabilità.
Secondo alcuni "critici", l'acquisto di Alitalia da parte di una compagnia "straniera", similmente a quanto succedeva quando Fazio difendeva l'italianità delle banche nostrane, vorrebbe dire che "lo straniero" se la "porta via".
Eppure, gli affari di una compagnia aerea, come di una banca, sono i servizi legati al territorio. Comprare una compagnia aerea per "portarsela via" ha lo stesso senso che avrebbe comprarsi una banca per trasferirne tutte le agenzie all'estero. L'idea stessa è solo il frutto di un tentativo di accecare il prossimo. Se lo straniero si comprasse la Fiat, allora sì che potrebbe chiudere gli stabilimenti qui in Italia e riaprirli in India e Cina, commercializzando altrove i prodotti con il marchio torinese. Quella è produzione industriale. Le operazioni di quel tipo sono già successe (chimica, meccanica di precisione, per dire due settori) Ma se lo straniero si compra Alitalia, non è che prende gli aerei e li trasferisce a Rotterdam o a Marsiglia, lasciando gli italiani a fischiare negli aeroporti...
Il problema sono le ambizioni dei singoli che si muovono sullo sfondo. E la concreta (e triste) possibilità di vendere la compagnia aerea a una banda di furbetti. Quando si vedono i politici sbracciarsi tutti insieme a favore di una tesi - Formigoni con Veltroni, per dire - viene il dubbio che forse gli interessi siano molti diversi da quelli che ci si potrebbe aspettare dalle tre categorie interessate: dipendenti di Alitalia, azionisti di Alitalia e passeggeri di Alitalia.
Cosa preferiscono le tre categorie? Chiusura della compagnia dopo altri due anni di pazzeschi piani industriali e accordi all'italiana per "entrare nell'affare", come AirOne promette con i suoi sponsor politici e bancari? Oppure ripartenza della compagnia con l'oramai non più evitabile cura dimagrante e la perdita di un braccio incancrenito (Malpensa), sulla base di un piano industriale organico e una strategia di respiro internazionale? Cosa pensano, che Air France e Klm vogliano comprare Alitalia per fregarsi le posate e i sottobicchieri della Magnifica?
Vada come vada, l'incoscienza e la furbizia che stanno caratterizzando l'operazione di "addomesticamento" dell'opzione «1 centesimo» di AirOne e soci sono davvero deplorevoli. E sono anche il miglior segnale del clima italiano, prima ancora che della recessione (e del mangia-mangia) che stanno ammazzando l'Italia. Forse ci meriteremmo tutti, soprattutto i dipendenti di Alitalia (magari proprio quelli del bancone Roma-Milano di Fiumicino che vedevo ieri), che vada davvero così. Peccato che poi a pagare non sarebbero solo loro.
Secondo alcuni "critici", l'acquisto di Alitalia da parte di una compagnia "straniera", similmente a quanto succedeva quando Fazio difendeva l'italianità delle banche nostrane, vorrebbe dire che "lo straniero" se la "porta via".
Eppure, gli affari di una compagnia aerea, come di una banca, sono i servizi legati al territorio. Comprare una compagnia aerea per "portarsela via" ha lo stesso senso che avrebbe comprarsi una banca per trasferirne tutte le agenzie all'estero. L'idea stessa è solo il frutto di un tentativo di accecare il prossimo. Se lo straniero si comprasse la Fiat, allora sì che potrebbe chiudere gli stabilimenti qui in Italia e riaprirli in India e Cina, commercializzando altrove i prodotti con il marchio torinese. Quella è produzione industriale. Le operazioni di quel tipo sono già successe (chimica, meccanica di precisione, per dire due settori) Ma se lo straniero si compra Alitalia, non è che prende gli aerei e li trasferisce a Rotterdam o a Marsiglia, lasciando gli italiani a fischiare negli aeroporti...
Il problema sono le ambizioni dei singoli che si muovono sullo sfondo. E la concreta (e triste) possibilità di vendere la compagnia aerea a una banda di furbetti. Quando si vedono i politici sbracciarsi tutti insieme a favore di una tesi - Formigoni con Veltroni, per dire - viene il dubbio che forse gli interessi siano molti diversi da quelli che ci si potrebbe aspettare dalle tre categorie interessate: dipendenti di Alitalia, azionisti di Alitalia e passeggeri di Alitalia.
Cosa preferiscono le tre categorie? Chiusura della compagnia dopo altri due anni di pazzeschi piani industriali e accordi all'italiana per "entrare nell'affare", come AirOne promette con i suoi sponsor politici e bancari? Oppure ripartenza della compagnia con l'oramai non più evitabile cura dimagrante e la perdita di un braccio incancrenito (Malpensa), sulla base di un piano industriale organico e una strategia di respiro internazionale? Cosa pensano, che Air France e Klm vogliano comprare Alitalia per fregarsi le posate e i sottobicchieri della Magnifica?
Vada come vada, l'incoscienza e la furbizia che stanno caratterizzando l'operazione di "addomesticamento" dell'opzione «1 centesimo» di AirOne e soci sono davvero deplorevoli. E sono anche il miglior segnale del clima italiano, prima ancora che della recessione (e del mangia-mangia) che stanno ammazzando l'Italia. Forse ci meriteremmo tutti, soprattutto i dipendenti di Alitalia (magari proprio quelli del bancone Roma-Milano di Fiumicino che vedevo ieri), che vada davvero così. Peccato che poi a pagare non sarebbero solo loro.
15.12.07
Emozionando qua e là
STRAORDINARIO PEZZO DI scrittura creativa di "E io che mi pensavo": la penna Bic emoziona! Ma emoziona anche "la Finestre sul porcile" con il suo cocktail Martini (mio caro: io lo bevo liscio liscio! Ebbene sì).
Viaggio nella notte
DAVID SEDARIS, Journey Into Night, sul New Yorker.
13.12.07
Emozione Cremona
VENERDI SERA A Cremona, nuova presentazione di Emozione Apple in tutto il suo splendore (che poi sarebbe il mio libro). Bisognerà andare verso le 18.30 in via Giovanni Maria Platina 54, presso Finder, ma ne varrà la pena!
Qui la mappa per arrivare (servirà anche a me...).
Qui la mappa per arrivare (servirà anche a me...).
iTablet
QUI NELLA SILICON Valley non si fa altro che parlare di un nuovo, leggerissimo, touchable computer portatile da parte di Apple. un Tablet. Anzi, un iTablet. Addirittura c'è anche chi, come Cringely, si avventura a spiegare i motivi per i quali a gennaio Steve Jobs lo presenterà sul palco dl Moscone Center durante il Macworld. Sono cinque:
- a gennaio arrivano gli annunci più "tosti" di Apple
- Apple metterebbe nei guai Microsoft, e brevetterebbe tutto
- sarebbe come un grosso iPod touch che aprirebbe una volta per tutte il mercato video HD via iTunes
- con iSight intregrata, creerebbe problemi anche a Skype e Cisco (ai due estremi, i due attori maggiori per le video-call
- manderebbe al cimitero il Kindle di Amazon
Soprattutto l'ultima ragione, dare un calcio nelle parti basse di Amazon e soprattutto Jef Bezos, sono una di quelle cose che fanno divertire Steve Jobs. Quindi, potrebbe essere...
- a gennaio arrivano gli annunci più "tosti" di Apple
- Apple metterebbe nei guai Microsoft, e brevetterebbe tutto
- sarebbe come un grosso iPod touch che aprirebbe una volta per tutte il mercato video HD via iTunes
- con iSight intregrata, creerebbe problemi anche a Skype e Cisco (ai due estremi, i due attori maggiori per le video-call
- manderebbe al cimitero il Kindle di Amazon
Soprattutto l'ultima ragione, dare un calcio nelle parti basse di Amazon e soprattutto Jef Bezos, sono una di quelle cose che fanno divertire Steve Jobs. Quindi, potrebbe essere...
11.12.07
San Josè
SONO ARRIVATO DOMENICA qui a San Josè, una delle cittadine dell Silicon Valley. Viaggio traumatico (non solo perché l'aereo da Linate era alle sette del mattino). La prima constatazione è che Charles de Gaulle, l' aeroporto di Parigi, ha un grosso problema di sovraccarico e di logistica. Stanno per collassare. Sarà che oramai in economy (couch class, come si dice qui) è sempre strapieno, o che io sono ingrossato - oppure si sono ristretti i posti, chi può dirlo - ma i viaggi sono diventati davvero faticosi, almeno se scavalchi l'oceano tre o quattro volte al mese.
Poi, San Josè è davvero un posto dimenticato da Dio e non a torto. Sono arrivato la domenica e posso testimoniare che la vita a Pontassieve nei giorni feriali in questo periodo dell'anno è più vivace. Sono però stato alla messa in spagnolo - ottimo cambio di prospettiva per curare il nostro razzismo endemico da mancanza di integrazione e soprattutto diversità. Poi al cinema (7 dollari, meno di 5 euro) a vedere Beowulf, che è una festa per gli occhi e un miracolo di tecnologia, soprattutto nella seconda parte.
Oggi parte la conferenza, una delle peggio organizzate che ho visto in sette anni. Fantastico. Già prevedo l'ordalìa del viaggio di ritorno. E, ah, a Natale fa freddo anche in California. Perlomeno, California del nord...
Poi, San Josè è davvero un posto dimenticato da Dio e non a torto. Sono arrivato la domenica e posso testimoniare che la vita a Pontassieve nei giorni feriali in questo periodo dell'anno è più vivace. Sono però stato alla messa in spagnolo - ottimo cambio di prospettiva per curare il nostro razzismo endemico da mancanza di integrazione e soprattutto diversità. Poi al cinema (7 dollari, meno di 5 euro) a vedere Beowulf, che è una festa per gli occhi e un miracolo di tecnologia, soprattutto nella seconda parte.
Oggi parte la conferenza, una delle peggio organizzate che ho visto in sette anni. Fantastico. Già prevedo l'ordalìa del viaggio di ritorno. E, ah, a Natale fa freddo anche in California. Perlomeno, California del nord...
8.12.07
Sciopero e comunicazione
PROSEGUE LO SCIOPERO degli sceneggiatori di Hollywood
Ti mando un sms dopo il decollo
QUATTRO COMPAGNIE AEREE negli Usa ci riprovano. Internet e telefoni a bordo degli aerei, una pratica che molti desidererebbero inaugurare e che altri temono li possa perseguitare anche in aria oltre che a terra. Pc World fa il punto su cosa stanno per fare American Airlines, Alaska Airlines, JetBlue e Virgin America.
7.12.07
Dipendenze
QUELLA DAI LIBRI, raccontata dalla stanza di Phoebe (E, ancora meglio, sul prestare i suddetti libri)
6.12.07
Riscoprire vecchie emozioni
IERI SERA AGHENOR registrava una intervista (al Giovane Autore!) dopo la chiacchierata che avevamo fatto a cena due giorni fa. Potenti mezzi di Skype, un po' di banda, tanta passione, la voglia di fare... podcast. Insomma, tutto normale. Ci salutiamo: "Ti mando il podcast appena l'ho finito", mi dice Stefano. Buonanotte, buonanotte. Passano un paio d'ore e - tak! - mi telefona: "Emergenza: un pezzo di intervista non è venuto. Ho premuto per errore il tasto due volte e non abbiamo registrato". Poco male: erano gli ultimi minuti, in trenta secondi rifacciamo il tutto (sempre Skype, sempre un po' di banda etc).
La riscoperta è stata emozionante: avevo 23 anni quando ho cominciato a fare il giornalista "sul serio". Ho cominciato con la radio. La radio è fatta di tre cose: conduzioni in voce (quello che legge i "gr"), quello che si precipita a fare le dirette ("Siamo qui davanti alla fiera del sedano e verdure varie") e quello che fa le interviste (quello, cioè, che mette il microfono sotto il naso alla gente). La prima cosa che ti dicono, o se non te la dicono la impari tu nel modo più duro, è che solo di una cosa bisogna essere sicuri: aver avviato la registrazione. Magari dieci minuti prima, chi se ne frega, poi tagli. Però se non registri niente, non hai niente da tagliare.
Stefano mi ha fatto tornare indietro nel tempo: a tutte le interviste – mi piace pensare che fossero le migliori - che non ho registrato: quella volta che ho pigiato "rec" ma non ho tolto la pausa al maledetto aggeggio della Sony, quella volta che non me ne sono accorto ma sono finite le batterie, quella volta che è finita la cassetta (avevamo le cassette, poi i Minidisc, poi i registratori digitali: tutto un mondo). Penserete: errori di gioventù, sarà successo le prime tre volte. Macché. L'ultima la devo aver fatta poco prima di venir via da Firenze. Allora sei fesso tu. No, siamo tanti ad essere fessi: tutti quelli che fanno radio.
Non fare la registrazione è il classico tra quello che ti può succedere alla radio: la fretta, la confusione, un po' di sfortuna, ci sono mille motivi. Soprattutto quando fai tre o quattro interviste registrate al giorno, 350 giorni l'anno (mica come nei giornali dove ponzi il pezzo per una giornata). Soprattutto quando si cambiava modello di registratore, per settimane se non per mesi si facevano degli arrosti micidiali (e a onore di Stefano, ieri lui aveva appena preso un software nuovo di pacca per registrare le telefonate via Skype). Insomma, sono tornato indietro nel tempo. Stesse emozioni, stessi batticuore, stessi rischi. Mi pare di capire che tra i blogger chi vuol fare i podcast audio non è differente da chi lavorava nelle radioline private degli anni Ottanta e Novanta: passione, voglia di fare, miliardi di errori che l'esperienza col tempo ti insegna a evitare. Che vuoi di più?
La riscoperta è stata emozionante: avevo 23 anni quando ho cominciato a fare il giornalista "sul serio". Ho cominciato con la radio. La radio è fatta di tre cose: conduzioni in voce (quello che legge i "gr"), quello che si precipita a fare le dirette ("Siamo qui davanti alla fiera del sedano e verdure varie") e quello che fa le interviste (quello, cioè, che mette il microfono sotto il naso alla gente). La prima cosa che ti dicono, o se non te la dicono la impari tu nel modo più duro, è che solo di una cosa bisogna essere sicuri: aver avviato la registrazione. Magari dieci minuti prima, chi se ne frega, poi tagli. Però se non registri niente, non hai niente da tagliare.
Stefano mi ha fatto tornare indietro nel tempo: a tutte le interviste – mi piace pensare che fossero le migliori - che non ho registrato: quella volta che ho pigiato "rec" ma non ho tolto la pausa al maledetto aggeggio della Sony, quella volta che non me ne sono accorto ma sono finite le batterie, quella volta che è finita la cassetta (avevamo le cassette, poi i Minidisc, poi i registratori digitali: tutto un mondo). Penserete: errori di gioventù, sarà successo le prime tre volte. Macché. L'ultima la devo aver fatta poco prima di venir via da Firenze. Allora sei fesso tu. No, siamo tanti ad essere fessi: tutti quelli che fanno radio.
Non fare la registrazione è il classico tra quello che ti può succedere alla radio: la fretta, la confusione, un po' di sfortuna, ci sono mille motivi. Soprattutto quando fai tre o quattro interviste registrate al giorno, 350 giorni l'anno (mica come nei giornali dove ponzi il pezzo per una giornata). Soprattutto quando si cambiava modello di registratore, per settimane se non per mesi si facevano degli arrosti micidiali (e a onore di Stefano, ieri lui aveva appena preso un software nuovo di pacca per registrare le telefonate via Skype). Insomma, sono tornato indietro nel tempo. Stesse emozioni, stessi batticuore, stessi rischi. Mi pare di capire che tra i blogger chi vuol fare i podcast audio non è differente da chi lavorava nelle radioline private degli anni Ottanta e Novanta: passione, voglia di fare, miliardi di errori che l'esperienza col tempo ti insegna a evitare. Che vuoi di più?
4.12.07
Metti la tivù a teatro
NO, SUL SERIO: metti proprio la storia della tivù a teatro. Anzi, la sua invenzione. È merito di Aaron Sorkin (il creatore, scrittore e produttore di due serie televisive rinomate per la loro complessità come testo, cioè Studio 60 on the Sunset Strip e The West Wing) che ha tirato fuori dal suo computer la sceneggiatura per un film mai realizzato e convertito poi in piece teatrale dal titolo The Farnsworth Invention, attualmente a Broadway. Ne parla diffusamente il critico della Reuters.
È la storia di un pezzetto di vita americana negli anni Venti, con l'incredibile ragazzo-genio dell'Idaho, Philo Farnsworth, a cui dobbiamo la parte tecnologica dell'apparecchio che ipnotizza la vita di milioni in tutto il mondo (e che affascina così profondamente Sorkin) e l'altro altrettanto incredibile David Sarnoff, emigrato russo che diventa il capo dell'allora colosso Rca.
L'incontro-scontro fra queste due personalità (e il terzo incomodo: lo scienziato anche lui di origini russe Vladimir Zworykin che probabilmente si è "appropriato" di molte delle idee pensate da Farnsworth già alle scuole superiori) è il Dna della nascita della televisione e dell'industria che le ruota attorno. Negli Usa e in molti altri paesi costruiti a immagine e somiglianza di quel mercato (l'Italia, per dire, dopo l'arrivo della tivù privata di Berlusconi nel 1984, che ha fatto mutare anche il servizio pubblico della Rai da un punto di vista dei palinsesti ma anche organizzativo e produttivo) e un istruttivo viaggio nello spirito delle origini.
Consigliato a chi si trova a New York City a partire da ieri (il 3 dicembre lo spettacolo ha debuttato, in ritardo a causa dello sciopero degli sceneggiatori che sta paralizzando l'intrattenimento americano da tempo) se lo può andare a vedere e poi mi dice. Qui anche il trailer (il trailer di uno spettacolo teatrale: ma ci pensate mai a quanto siamo indietro noi?)
È la storia di un pezzetto di vita americana negli anni Venti, con l'incredibile ragazzo-genio dell'Idaho, Philo Farnsworth, a cui dobbiamo la parte tecnologica dell'apparecchio che ipnotizza la vita di milioni in tutto il mondo (e che affascina così profondamente Sorkin) e l'altro altrettanto incredibile David Sarnoff, emigrato russo che diventa il capo dell'allora colosso Rca.
L'incontro-scontro fra queste due personalità (e il terzo incomodo: lo scienziato anche lui di origini russe Vladimir Zworykin che probabilmente si è "appropriato" di molte delle idee pensate da Farnsworth già alle scuole superiori) è il Dna della nascita della televisione e dell'industria che le ruota attorno. Negli Usa e in molti altri paesi costruiti a immagine e somiglianza di quel mercato (l'Italia, per dire, dopo l'arrivo della tivù privata di Berlusconi nel 1984, che ha fatto mutare anche il servizio pubblico della Rai da un punto di vista dei palinsesti ma anche organizzativo e produttivo) e un istruttivo viaggio nello spirito delle origini.
Consigliato a chi si trova a New York City a partire da ieri (il 3 dicembre lo spettacolo ha debuttato, in ritardo a causa dello sciopero degli sceneggiatori che sta paralizzando l'intrattenimento americano da tempo) se lo può andare a vedere e poi mi dice. Qui anche il trailer (il trailer di uno spettacolo teatrale: ma ci pensate mai a quanto siamo indietro noi?)
3.12.07
Emozionare ma con più calma
MI SONO CHIESTO: adesso che ho fatto il libro, che faccio, rompo le scatole a tutti quanti i miei lettori (si, sto parlando proprio con voi tre) per mesi e mesi? Naaaah. Non sarebbe carino. Un Giovane Autore che si rispetti non fa queste cose. Allora, grazie ai potenti mezzi, come sapete, ho allestito il Posto-dove-si-legge, cioè il blog di Emozione Apple. Una roba fichissima e troppo avanti da un punto di vista tecnologico (anche se voi che lo leggete non ve ne potete accorgere). Peccato non ci siano i commenti, però. Vabbé, Luca campa senza commenti da una vita e mica per questo gli è venuta l'orticaria, no? Quindi, genialiata.
Ecco l'idea: quando voglio parlare di Emozione Apple, ne parlo sul suo blog. A parte le volte che ne parlo qui. Ma queste ultime sono poche. Oppure quelle in cui ne parlo proprio qui, intendendo dire in questo Posto di Antonio. E comunque, siccome sono pigro, tenderò a incollare gli stessi post uguali identici da tutte e due le parti. Così, per far credere che ci sia un solo post e template diversi. Invece sono io che faccio copia e incolla. Che genio del male!
Ecco l'idea: quando voglio parlare di Emozione Apple, ne parlo sul suo blog. A parte le volte che ne parlo qui. Ma queste ultime sono poche. Oppure quelle in cui ne parlo proprio qui, intendendo dire in questo Posto di Antonio. E comunque, siccome sono pigro, tenderò a incollare gli stessi post uguali identici da tutte e due le parti. Così, per far credere che ci sia un solo post e template diversi. Invece sono io che faccio copia e incolla. Che genio del male!
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2.12.07
Emozione Condor
SIORE E SIORI, il Giovane Autore, dopo il successo della mini-pizza-Emozione tra amici di venerdì scorso, annuncia urbi et orbi la sua prossima mossa.
Giovedì 6 dicembre, ore 18.30, in quel della Mondadori Duomo a Milano, grande lancio meneghino del suo libro Emozione Apple. Partecipano, come pezzo forte dell'evento, Luca e Matteo, ovvero il dinamico duo di Condor (e non devo aggiungere altro, vero?).
Intervieni numeroso!
Giovedì 6 dicembre, ore 18.30, in quel della Mondadori Duomo a Milano, grande lancio meneghino del suo libro Emozione Apple. Partecipano, come pezzo forte dell'evento, Luca e Matteo, ovvero il dinamico duo di Condor (e non devo aggiungere altro, vero?).
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Why do I still read old media? I miss the ads...
Remembering Evel Knievel
LO SCORSO VENERDI è morto, a 69 anni, il funambolico e leggendario motociclista Evel Knievel, l'uomo più fratturato al mondo e una vera icona americana degli anni Settanta. La Cnn online ha raccolto il ricordo e la testimonianza dei suoi lettori-reporter digitali.
Money quote: Their stories serve as reminders of Knievel's irrepressible spirit and the inspiration it brought to many Americans.
Money quote: Their stories serve as reminders of Knievel's irrepressible spirit and the inspiration it brought to many Americans.
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