MI SI E' accesa la lampadina solo stanotte. Pensavo ai telefilm. E mi chiedevo: come mai tutta una sfilza di nuovi prodotti - tra i quali la stupenda Battlestar Galactica che è appena giunta alla fine della sua terza stagione - si sta impallando? Per quanto se ne voglia dire, infatti, il problema c'è. Lost, oppure Desperate Housewives e vari altri che erano partiti con una potenza autoriale di tutto rilievo adesso annaspano negli ascolti americani, tanto da essere prossimi alla cancellazione o comunque ad un forte ridimensionamento. Ad esempio, Battlestar non vedrà nascere lo spin-off Caprica come serial ma, al limite, come film di due ore direttamente in Dvd, ma se ne produrrà invece uno dedicato alla serie regolare (sta succedendo anche per Stargate Sg1, fresca fresca di cancellazione) e poi forse si riparla di quarta stagione per gennaio prossimo.
Un discorso poteva essere quello già fatto qui - e autorevolmente criticato da Buroggu che come blog mi appassiona assai, anche se io rimango della mia opinione - circa l'arco narrativo troppo diluito dal successo che richiede un'aggiunta di nuove stagioni. Insomma, la sconfitta dell'originalità vincente attraverso la "serializzazione industriale" intesa come "salto dello squalo".
Orbene, miei prodi, l'illuminazione notturna è questa. Riguarda sempre il punto centrale di questa ondata di nuova serialità, cioè il fatto che sia realizzata a base di storie condite di elementi narrativi intensi e fortemente legati tra loro. In parole povere: romanzi a puntate con temi anche di attualità. E se l'intensità della storia, oltre che certe regie di tutto rilievo, catturano il pubblico, in qualche maniera nel medio-lungo periodo lo respingono.
Chi segue la storia, infatti, a un certo punto perde un paio di puntate e rimane tagliato fuori, perché è come se ti togliessero duecento pagine di un librone che stai leggendo: ti spiazza e non capisci più bene cosa succede. Idem per chi scopre la serie tardi, mettiamo alla seconda o terza stagione. Certo, potrebbe andarsi a comprare i Dvd (o scaricare tutto) e rimettersi in pari. Ma non scherziamo: mica è un lavoro. E quindi nonostante l'ottima partenza, pian piano queste serie tendono a escludere anziché includere nuovo pubblico. E svuotano letteralmente la loro audience, senza attrarne di nuova. Potrebbe essere una buona spiegazione? Perché il problema c'è, anche se magari si tratta solo di un cambiamento nella moda e nei gusti degli spettatori (e nelle tare di Nielsen, che pare faccia acqua tanto quanto Auditel).
28.3.07
25.3.07
E' di nuovo un'altra domenica!
Spreconi
DUNQUE, LA STORIA è semplice: fanno i portali e spendono tanto quanto ci vorrebbe per costruire un aeroporto. Mah.
Ne indagano qui Federico Ferrazza e Letizia Gabaglio (L'espresso). Senza bisogno di nessun Grillo del momento...
Ne indagano qui Federico Ferrazza e Letizia Gabaglio (L'espresso). Senza bisogno di nessun Grillo del momento...
23.3.07
It's Milano, again
SONO DI NUOVO in città. Wow! (E non perché sono in città)
20.3.07
E' arrivato un bastimento grosso. Ma proprio grosso...
SONO A SALT LAKE City e quindi mi sono perso davvero per poco il bestione di passaggio negli Usa. Ovvero, il doppio viaggio a New York City (JFK) e Los Angeles (LAX) del colosso targato Airbus, vale a dire l'A380.
Narrano le cronache che non pochi si siano trovati a sbattere gli occhi chiedendosi: "ma è davvero così grande"? Il San Francisco Chronicle offre un'attenta ricostruzione delle peregrinazioni in terra americana del velivolo Lufthansa. (Loro anche la foto dell'A380 davanti a un aggeggino di JetBlue)
Narrano le cronache che non pochi si siano trovati a sbattere gli occhi chiedendosi: "ma è davvero così grande"? Il San Francisco Chronicle offre un'attenta ricostruzione delle peregrinazioni in terra americana del velivolo Lufthansa. (Loro anche la foto dell'A380 davanti a un aggeggino di JetBlue)
19.3.07
300 e non uno di più
VISTO CHE C'ERA da ingannare un pomeriggio un po' sonnolento a Salt Lake City, sono andato al cinema. A dire il vero, un po' l'avevo programmato. Dopo tanto parlarne, ero curioso di andare a vedere 300 e vederlo in un multiplex americano, di quelli che ti senti afferrare dall'odore burroso di pop-corn quando stai per entrare. Missione compiuta, ne sono uscito da poco.
Com'è? Beh, un filmone, per così dire. Non un trattato di storia greca, di sicuro, e neanche un capolavoro d'autore. No, è una botta di effetti speciali, di situazioni epiche, di colori straordinari (bruciati, intensissimi, "sporcati"). Un pranzo senza limiti, direi.
Cose che mi sono piaciute: l'epica estrema, il senso della follia che aleggia negli occhi sgranati di Leonida e degli altri spartani, il genuino desiderio di fare tantissimo con tantissimi effetti speciali, seppur raccontando una storia senza dei o creature soprannaturali (se si eccettuano le dimensioni di Serse), la mancanza di una morale che non sia elementare (il coraggio di pochi contro la violenza di molti).
Cose che non mi sono piaciute: l'epica estrema, il bisogno di ripercorrere Gladiatore e l'estetica dei film sullo stile di Troy e Alexander, la totale mancanza di senso storico (ma dopotutto, per farsene di che?), la mancanza di una morale che non sia elementare. Un certo senso claustrofobico, come se tutto avvenisse su un set, anche le esterne.
Ecco, a ripensarci, le cose che mi sono piaciute e quelle che non mi sono piaciute sono simili. Alla fine, è un film di quelli che la domenica pomeriggio ci stanno proprio bene. Elementare quanto basta per non occupare che un paio di neuroni, ma veloce da farti uscire con la pupilla stanca per il continuo guizzare di tutto e di tutti. Indimenticabile il rosso cupo dei mantelli spartani e del sangue che schizza denso come un fegato spaccato. Perché questi film vanno benissimo? Perché raccontano storie semplici, con poche complicazioni, e restituiscono un po' di senso del meraviglioso al bambino che è in noi. Soprattutto se il cinema ha l'impianto Thx...
Qui l'hanno vietato per una mezza scena di sesso coniugale alquanto sfumata. Per la catasta di corpi sventrati, le gambe e i torsi che saltano via sotto i colpi di spada e via dicendo, non ci sarebbe stato problema. Da noi chissà come sarà.
ps: passi che le tecniche di combattimento sono tutte rifatte e imprecise da un punto di vista storico. Ma una cosa mi assilla: possibile che gli spartani facessero pesi in palestra con attrezzi Technogym? Certi muscoli solo con la ginnastica a corpo libero non è che te li sviluppi facilmente...
Com'è? Beh, un filmone, per così dire. Non un trattato di storia greca, di sicuro, e neanche un capolavoro d'autore. No, è una botta di effetti speciali, di situazioni epiche, di colori straordinari (bruciati, intensissimi, "sporcati"). Un pranzo senza limiti, direi.
Cose che mi sono piaciute: l'epica estrema, il senso della follia che aleggia negli occhi sgranati di Leonida e degli altri spartani, il genuino desiderio di fare tantissimo con tantissimi effetti speciali, seppur raccontando una storia senza dei o creature soprannaturali (se si eccettuano le dimensioni di Serse), la mancanza di una morale che non sia elementare (il coraggio di pochi contro la violenza di molti).
Cose che non mi sono piaciute: l'epica estrema, il bisogno di ripercorrere Gladiatore e l'estetica dei film sullo stile di Troy e Alexander, la totale mancanza di senso storico (ma dopotutto, per farsene di che?), la mancanza di una morale che non sia elementare. Un certo senso claustrofobico, come se tutto avvenisse su un set, anche le esterne.
Ecco, a ripensarci, le cose che mi sono piaciute e quelle che non mi sono piaciute sono simili. Alla fine, è un film di quelli che la domenica pomeriggio ci stanno proprio bene. Elementare quanto basta per non occupare che un paio di neuroni, ma veloce da farti uscire con la pupilla stanca per il continuo guizzare di tutto e di tutti. Indimenticabile il rosso cupo dei mantelli spartani e del sangue che schizza denso come un fegato spaccato. Perché questi film vanno benissimo? Perché raccontano storie semplici, con poche complicazioni, e restituiscono un po' di senso del meraviglioso al bambino che è in noi. Soprattutto se il cinema ha l'impianto Thx...
Qui l'hanno vietato per una mezza scena di sesso coniugale alquanto sfumata. Per la catasta di corpi sventrati, le gambe e i torsi che saltano via sotto i colpi di spada e via dicendo, non ci sarebbe stato problema. Da noi chissà come sarà.
ps: passi che le tecniche di combattimento sono tutte rifatte e imprecise da un punto di vista storico. Ma una cosa mi assilla: possibile che gli spartani facessero pesi in palestra con attrezzi Technogym? Certi muscoli solo con la ginnastica a corpo libero non è che te li sviluppi facilmente...
18.3.07
Chief apology officer
TRA I NUOVI lavori che stanno emergendo, c'è questo del Responsabile per le scuse (Cao, nella divertente idea del New York Times[FreeRegReq]) di Southwest Airlines, che a me pare assai interessante e apprezzabile.
In pratica, la responsabilità del trentasettenne Fred Taylor Jr. è quella di inviare lettere di scuse (di solito con il suo numero di telefono diretto in calce) a quei clienti della compagnia aerea che hanno avuto problemi. Ad esempio, un volo cancellato senza che fossero stati avvertiti in maniera corretta i passeggeri, una toilet che perde irrorando di cattivi odori la cabina e via dicendo.
Il buon Fred ne scrive circa 180 all'anno, che vengono inviate a un totale di 20mila passeggeri. Southwest, che ha la responsabilità di aver inventato il business low cost poi diventato un fenomeno globale, non dice se ha preso qualche azienda giapponese come esempio. A me questa idea del Cao piace parecchio, ammesso che risponda ad alcune regole. La prima è che sia effettuata senza inflazionarla, dando una effettiva dimensione "umana" al rapporto tra il cliente e l'azienda (e non un qualcosa di tipo "call center" o da "capo del marketing che scrive a te e ad altri 47mila clienti con una lettera aziendale ciclostilata"), la seconda è che la "morbidità" dell'azienda nelle scuse si rifletta in coerenza nelle altre forme di relazione con il pubblico.
Venti anni fa si dibatteva se al centro dell'azienda dovesse esserci il prodotto o il cliente. La risposta, hanno deciso, vale a seconda del contesto. Quando è il cliente che diventa la cosa più importante, le informazioni su di lui dovrebbero essere condivise tra tutti i rappresentati dell'impresa (e comunque dovrebbe esserci uno stile univoco nel trattare con quella fetta di umanità che sta dando dei soldi in cambio di qualcosa che non è beneficenza, come alle volte parrebbe di capire chiamando un call center), in modo tale che il buon uomo o donna che sia abbia la possibilità di pensare di aver costruito un rapporto soddisfacente. Un po' come succedeva quando ancora esisteva il negozio sotto casa dove andare a fare la spesa. Il posto in cui ci si riconosce e ci si chiama per nome. Senza esagerare, senza strafare, ma anche chiedendo scusa quando è il caso. Da entrambe le parti, perché no.
In pratica, la responsabilità del trentasettenne Fred Taylor Jr. è quella di inviare lettere di scuse (di solito con il suo numero di telefono diretto in calce) a quei clienti della compagnia aerea che hanno avuto problemi. Ad esempio, un volo cancellato senza che fossero stati avvertiti in maniera corretta i passeggeri, una toilet che perde irrorando di cattivi odori la cabina e via dicendo.
Il buon Fred ne scrive circa 180 all'anno, che vengono inviate a un totale di 20mila passeggeri. Southwest, che ha la responsabilità di aver inventato il business low cost poi diventato un fenomeno globale, non dice se ha preso qualche azienda giapponese come esempio. A me questa idea del Cao piace parecchio, ammesso che risponda ad alcune regole. La prima è che sia effettuata senza inflazionarla, dando una effettiva dimensione "umana" al rapporto tra il cliente e l'azienda (e non un qualcosa di tipo "call center" o da "capo del marketing che scrive a te e ad altri 47mila clienti con una lettera aziendale ciclostilata"), la seconda è che la "morbidità" dell'azienda nelle scuse si rifletta in coerenza nelle altre forme di relazione con il pubblico.
Venti anni fa si dibatteva se al centro dell'azienda dovesse esserci il prodotto o il cliente. La risposta, hanno deciso, vale a seconda del contesto. Quando è il cliente che diventa la cosa più importante, le informazioni su di lui dovrebbero essere condivise tra tutti i rappresentati dell'impresa (e comunque dovrebbe esserci uno stile univoco nel trattare con quella fetta di umanità che sta dando dei soldi in cambio di qualcosa che non è beneficenza, come alle volte parrebbe di capire chiamando un call center), in modo tale che il buon uomo o donna che sia abbia la possibilità di pensare di aver costruito un rapporto soddisfacente. Un po' come succedeva quando ancora esisteva il negozio sotto casa dove andare a fare la spesa. Il posto in cui ci si riconosce e ci si chiama per nome. Senza esagerare, senza strafare, ma anche chiedendo scusa quando è il caso. Da entrambe le parti, perché no.
Piccole soddisfazioni...
LO VEDO AL volo qui dagli Stati Uniti: siamo secondi dopo il pifferaio ligure nella classifica dei più scaricati su iTunes Italia. Adesso, con un paio di raffinamenti, il podcast di Macity diventerà davvero straordinario!
16.3.07
Torno subito
VADO UN ATTIMO a Salt Lake City, perché devo fare due o tre cose. Ma a metà della prossima settimana torno, eh. Non vi preoccupate (anche se farò un giro-pesca via Atlanta... Brrr già me le sento nelle ossa le undici ore di cui almeno tre inutili).
Voi, se nel frattempo vi annoiate, casomai spegnete il computer e prendetevi due o tre giorni di stacco... Male non fa, mi dicono.
Voi, se nel frattempo vi annoiate, casomai spegnete il computer e prendetevi due o tre giorni di stacco... Male non fa, mi dicono.
Wiiiii-ciuf-ciuf...
NON CI AVEVO fatto caso, ma è uscito in Giappone (sempre solo in Giappone, maledetti!) un gioco per la console di Nintendo, il Wii, che per me ha un sapore molto, molto antico. E' Densha de Go!. Un giorno - tremate - tirerò fuori una fenomenologia di questo video game che neanche Umberto Eco. Per adesso, alcune brevi considerazioni.
Io "dentro" DdG! mi ci perdo. Ci nuoto in profondità e ci scompaio come fosse un lago di liquido amniotico. E' ipnotico: devi guidare il treno - uno di quei treni che di solito vengono definiti dagli urbanisti e dagli assessori comunali "metropolitana leggera di superficie" - a zonzo lungo il tragitto prestabilito, rispettando gli orari, i limiti di velocità, il comfort dei viaggiatori (per le frenate brusche) e ovviamente la precisione al centimetro quando ci si ferma in stazione. Meraviglioso: mi ipnotizza e mi rilassa.
Me lo sono sciroppato a partire dalla fine degli anni Novanta su Saturn, Dreamcast e adesso su Psp (ho mancato il Nintendo 64 e - soprattutto - le svariate versioni per Ps1 e Ps2, che probabilmente si arricchiranno anche con qualcosina per Ps3, ci puoi scommettere dei soldi veri, amico). Imparare a gestire l'interfaccia in giapponese non è troppo complesso - soprattutto quando si è capita la logica sottostante. E', tra le altre cose, uno straordinario esempio di game design, cioè come prendere un'attività professionale (il conduttore di treno) e trasformarla prima in un gioco arcade e poi in un gioco per console (e, a quanto mi risulta, anche per Pc con Windows nipponico). La domanda è: perché non ce lo portano anche in Europa? Il gioco è "relegato" nel solo mercato giapponese che è anche tecnologicamente impenetrabile (salvo strane modifiche alle console che al giorno d'oggi però non usano più) e affascinante come tutte le cose proibite.
E pensare che ci sarebbe anche il controller dedicato (quello me lo sono lasciato scappare per Dreamcast e Saturn e per Psp ahimé non esiste) che nella versione Wii intitolata Shinkansen '06: Sanyou Shinkansen Hen è persino più bello del solito. Come si arguisce facilmente dal nome, trattasi della versione alquanto "veloce" del gioco, che non ci fa più guidare la metropolitana leggera di superficie bensì il bullet train giapponese per eccellenza. Sigh...
Io "dentro" DdG! mi ci perdo. Ci nuoto in profondità e ci scompaio come fosse un lago di liquido amniotico. E' ipnotico: devi guidare il treno - uno di quei treni che di solito vengono definiti dagli urbanisti e dagli assessori comunali "metropolitana leggera di superficie" - a zonzo lungo il tragitto prestabilito, rispettando gli orari, i limiti di velocità, il comfort dei viaggiatori (per le frenate brusche) e ovviamente la precisione al centimetro quando ci si ferma in stazione. Meraviglioso: mi ipnotizza e mi rilassa.
Me lo sono sciroppato a partire dalla fine degli anni Novanta su Saturn, Dreamcast e adesso su Psp (ho mancato il Nintendo 64 e - soprattutto - le svariate versioni per Ps1 e Ps2, che probabilmente si arricchiranno anche con qualcosina per Ps3, ci puoi scommettere dei soldi veri, amico). Imparare a gestire l'interfaccia in giapponese non è troppo complesso - soprattutto quando si è capita la logica sottostante. E', tra le altre cose, uno straordinario esempio di game design, cioè come prendere un'attività professionale (il conduttore di treno) e trasformarla prima in un gioco arcade e poi in un gioco per console (e, a quanto mi risulta, anche per Pc con Windows nipponico). La domanda è: perché non ce lo portano anche in Europa? Il gioco è "relegato" nel solo mercato giapponese che è anche tecnologicamente impenetrabile (salvo strane modifiche alle console che al giorno d'oggi però non usano più) e affascinante come tutte le cose proibite.
E pensare che ci sarebbe anche il controller dedicato (quello me lo sono lasciato scappare per Dreamcast e Saturn e per Psp ahimé non esiste) che nella versione Wii intitolata Shinkansen '06: Sanyou Shinkansen Hen è persino più bello del solito. Come si arguisce facilmente dal nome, trattasi della versione alquanto "veloce" del gioco, che non ci fa più guidare la metropolitana leggera di superficie bensì il bullet train giapponese per eccellenza. Sigh...
14.3.07
Novità della mattina
E' UN PO' come la storia della gazzella e del leone che, a prescindere dal tipo di animale, quando si svegliano una cosa sola sanno: per sopravvivere devono correre nella savana. Ecco, stamattina Blogger - che poi è la piattaforma di Google sulla quale è poggiato questo blog - si è svegliata male e ha ponzato che questo sia un "blog di spam". Quindi, quando posto devo inserire un codice anti-spam (proprio come nei commenti) e per di più un omino da qualche parte in India adesso verrà qui e si metterà a leggere il mio blog per decidere se è spam oppure no. Qui c'è la spiegazione aziendale - in inglese - su come l'eroico Blogger combatta la sua crociata contro gli infedeli dello spam. Parrebbe, in particolare, essere una faccenda di Link Spamming. Chiederò alla Procura di Potenza di fare luce sulla vicenda...
Ibrido o non ibrido?
SONO DUE ANNI dietro a Toyota e Honda, ma si stanno muovendo. Il capo di Mercedes, cioè DaimlerChrysler, Dieter Zetsche, ha dichiarato a Auto Motor und Sport che l'azienda non svilupperà più veicoli che non siano ibridi. In questa prima fase, partiranno auto con un po' di aiuto elettrico per il motore a scoppio - "ibridi leggeri" - mentre in un secondo tempo arriveranno ibridi "potenti", in cui sarà possibile circolare per abbondanti tratti solo a corrente elettrica e, di conseguenza, ad emissioni zero.
Due domande: com'è che queste cose le trovo prevalentemente su Internet? E poi, perché non ho idea di cosa stia facendo il gruppo Fiat al riguardo? C'è una roadmap? Scadenze? Modelli che non siano la Panda tipo spedizione nel deserto del Gobi? Gli ibridi di Toyota non sono allo stato prototipale, li sta vendendo da un po'...
Due domande: com'è che queste cose le trovo prevalentemente su Internet? E poi, perché non ho idea di cosa stia facendo il gruppo Fiat al riguardo? C'è una roadmap? Scadenze? Modelli che non siano la Panda tipo spedizione nel deserto del Gobi? Gli ibridi di Toyota non sono allo stato prototipale, li sta vendendo da un po'...
13.3.07
Cara, oggi ho fatto un canone
TI SUCCEDE PER tutta la vita, credo: inizi all'asilo chiedendoti chi ce la farà tra gli amici di cui ti circondi, poi te lo chiedi a scuola, poi all'università, poi agli inizi del lavoro e poi via via sempre, per ogni grado e livello che la vita ti mette davanti. A questo giro di pista, ce l'ha fatta una vecchia conoscenza, Matteo Bittanti, che ha anche la sua voce su Wikipedia. E ce l'ha fatta col botto [FreeRegReq]. Grande!
Is That Just Some Game? No, It’s a Cultural Artifact
When Henry Lowood, curator of the History of Science and Technology Collections at Stanford University, started preserving video games and video-game artifacts in 1998 he thought it was closer to professional oblivion than a bold new move into the future.
In just a few years, however, Mr. Lowood’s notion that video games were something with a history worth preserving and a culture worth studying has gone from absurd to worthy of consideration by the Library of Congress.
On Thursday at the annual Game Developers Conference in San Francisco, Mr. Lowood announced a game canon, an idea that grew out of a proposal submitted to the Library of Congress in September 2006 by a consortium made up of Stanford, the University of Maryland and the University of Illinois.
“Creating this list is an assertion that digital games have a cultural significance and a historical significance,” Mr. Lowood said in an interview. And if that is acknowledged, he said, “maybe we should do something about preserving them.”
Mr. Lowood and the four members of his committee — the game designers Warren Spector and Steve Meretzky; Matteo Bittanti, an academic researcher; and Christopher Grant, a game journalist — announced their list of the 10 most important video games of all time: Spacewar! (1962), Star Raiders (1979), Zork (1980), Tetris (1985), SimCity (1989), Super Mario Bros. 3 (1990), Civilization I/II (1991), Doom (1993), Warcraft series (beginning 1994) and Sensible World of Soccer (1994).
Is That Just Some Game? No, It’s a Cultural Artifact
When Henry Lowood, curator of the History of Science and Technology Collections at Stanford University, started preserving video games and video-game artifacts in 1998 he thought it was closer to professional oblivion than a bold new move into the future.
In just a few years, however, Mr. Lowood’s notion that video games were something with a history worth preserving and a culture worth studying has gone from absurd to worthy of consideration by the Library of Congress.
On Thursday at the annual Game Developers Conference in San Francisco, Mr. Lowood announced a game canon, an idea that grew out of a proposal submitted to the Library of Congress in September 2006 by a consortium made up of Stanford, the University of Maryland and the University of Illinois.
“Creating this list is an assertion that digital games have a cultural significance and a historical significance,” Mr. Lowood said in an interview. And if that is acknowledged, he said, “maybe we should do something about preserving them.”
Mr. Lowood and the four members of his committee — the game designers Warren Spector and Steve Meretzky; Matteo Bittanti, an academic researcher; and Christopher Grant, a game journalist — announced their list of the 10 most important video games of all time: Spacewar! (1962), Star Raiders (1979), Zork (1980), Tetris (1985), SimCity (1989), Super Mario Bros. 3 (1990), Civilization I/II (1991), Doom (1993), Warcraft series (beginning 1994) and Sensible World of Soccer (1994).
12.3.07
Scoop all'inglese
QUEL VECCHIO, SANO giornalismo old style, cioè fatto con i piedi. Quello dei mastini della cronaca, che macinano notizia senza alcuna finezza se non per strillare l'aspetto più spettacolare (e improbabile o altamente inesatto) della notizia. E, per di più, Made in Great Britain e targato Sunday Times. Eccolo qui, il piano più improbabile del secolo, nato dal cortocircuito di due sinapsi del capo-cronista che l'ha voluto in pagina:
Al-Qaeda plot to bring down UK internet
Buttar giù Internet. Omioddìo. E come faranno? Così:
SCOTLAND YARD has uncovered evidence that Al-Qaeda has been plotting to bring down the internet in Britain, causing chaos to business and the London Stock Exchange.
In a series of raids, detectives have recovered computer files revealing that terrorist suspects had targeted a high-security internet “hub” in London.
The facility, in Docklands, houses the channel through which almost every bit of information on the internet passes in or out of Britain.
The suspects, who were arrested, had targeted the headquarters of Telehouse Europe, which houses Europe’s biggest “web hotel”, containing dozens of “servers” , the boxes which contain the information that makes up the web.
Security experts say the plot against Britain’s internet “hub” reflects the constantly changing threat from Al-Qaeda and related Islamic extremist groups.
Neanche quando c'era Churchill e le V2 volavano come calabroni sopra Londra si ricordano delle cose così palesemente fuori dal mondo... Vi faccio grazia di commenti, analisi delle idiozie sparate come cose certe e tutto il resto. L'unica considerazione che mi viene è la seguente: se in effetti i terroristi ragionano in questo modo, possiamo tranquillamente andare da Bush e dirgli che può fare festa e richiamare tutti a casa, la guerra al terrorismo è palesemente finita per mancanza di avversari senzienti e pericolosi. Il problema è che questi che scrivono sono - almeno apparentemente - dalla "nostra parte". Sigh...
Al-Qaeda plot to bring down UK internet
Buttar giù Internet. Omioddìo. E come faranno? Così:
SCOTLAND YARD has uncovered evidence that Al-Qaeda has been plotting to bring down the internet in Britain, causing chaos to business and the London Stock Exchange.
In a series of raids, detectives have recovered computer files revealing that terrorist suspects had targeted a high-security internet “hub” in London.
The facility, in Docklands, houses the channel through which almost every bit of information on the internet passes in or out of Britain.
The suspects, who were arrested, had targeted the headquarters of Telehouse Europe, which houses Europe’s biggest “web hotel”, containing dozens of “servers” , the boxes which contain the information that makes up the web.
Security experts say the plot against Britain’s internet “hub” reflects the constantly changing threat from Al-Qaeda and related Islamic extremist groups.
Neanche quando c'era Churchill e le V2 volavano come calabroni sopra Londra si ricordano delle cose così palesemente fuori dal mondo... Vi faccio grazia di commenti, analisi delle idiozie sparate come cose certe e tutto il resto. L'unica considerazione che mi viene è la seguente: se in effetti i terroristi ragionano in questo modo, possiamo tranquillamente andare da Bush e dirgli che può fare festa e richiamare tutti a casa, la guerra al terrorismo è palesemente finita per mancanza di avversari senzienti e pericolosi. Il problema è che questi che scrivono sono - almeno apparentemente - dalla "nostra parte". Sigh...
La madre di tutti i problemi
ALLA FINE, E' talmente semplice che stupisce non ci si faccia caso: il problema non sono le tecnologie, gli apparecchi, i modi d'uso, la compatibilità, i servizi. No, il problema è uno solo: il costo. Perché il telefonino oggi potrebbe essere la madre di tutte le rivoluzioni, cambiando davvero molte cose. Potrebbe portare le informazioni "fluide" del Web 2.0 ovunque, far connettere e connettere, dare presenza e mobilità (non a caso, si dice che è quella la nuova frontiera delle tecnologie di rete, non il Pc), permetterci di vivere in modo migliore, più proficuo e anche più sereno. Un bel computer - fisso o portatile che sia - e un telefonino intelligente in tasca. Cosa vuoi di più? Lo pagherei anche caro. Il problema non è quanto costa. Il problema è un altro: quanto costa dopo, usarlo. E prima o poi lo capiranno che vendere la macchina con la benzina a 10mila euro al litro (50mila se si viaggia all'estero) ha un solo effetto: poi si tengono i motori spenti.
Negli Usa, ora che il fenomeno dei cellulari sta prendendo piede, se ne rendono conto e cominciano a cambiare i modelli di contratto e servizi offerti dalle compagnie telefoniche. Noi, i nostri vampironi locali, ce li portiamo sulla schiena come macigni, con o senza costi di ricarica e scatto alla risposta. In un'epoca di flessibilità lavorativa e fluidità di ruoli, possibile che nessuno si renda conto di che cazzata paurosa siano le tariffe "tribù" e "zero limits"? Quanto tutto ciò tenga artificialmente lontane le persone ("metti giù, cara, sennò spendi troppo"), limiti la creatività, le relazioni sociali, il fluire libero della conoscenza e dei network di contatti, il business, la vita di tutti i giorni? Sono queste le cose che fanno uscire un paese dalla recessione economica (oltre a un puntuale sforzo di pagare sempre e onestamente le tasse).
Allora, perché non posso navigare e parlare col telefonino per una giornata spendendo meno di quanto mi costi andare al ristorante per una settimana di fila tutte le sere? Con cosa cavolo li fanno i ponti radio? Sono d'oro massiccio?
Negli Usa, ora che il fenomeno dei cellulari sta prendendo piede, se ne rendono conto e cominciano a cambiare i modelli di contratto e servizi offerti dalle compagnie telefoniche. Noi, i nostri vampironi locali, ce li portiamo sulla schiena come macigni, con o senza costi di ricarica e scatto alla risposta. In un'epoca di flessibilità lavorativa e fluidità di ruoli, possibile che nessuno si renda conto di che cazzata paurosa siano le tariffe "tribù" e "zero limits"? Quanto tutto ciò tenga artificialmente lontane le persone ("metti giù, cara, sennò spendi troppo"), limiti la creatività, le relazioni sociali, il fluire libero della conoscenza e dei network di contatti, il business, la vita di tutti i giorni? Sono queste le cose che fanno uscire un paese dalla recessione economica (oltre a un puntuale sforzo di pagare sempre e onestamente le tasse).
Allora, perché non posso navigare e parlare col telefonino per una giornata spendendo meno di quanto mi costi andare al ristorante per una settimana di fila tutte le sere? Con cosa cavolo li fanno i ponti radio? Sono d'oro massiccio?
Fumettoni
INIZIAMO SUBITO BENE la settimana con un annuncio: io questo fumettone appena esce me lo vado a vedere. Così finalmente posso ridare un senso a tante fatiche fatte durante il liceo, chino sui libri...
Ps: concordo. Visto che mi sto appassionando ai film girati in lingua originale (anche quando è Maya antico o Sanscrito), forse era meglio se lo giravano con la lingua dell'epoca e ci mettevano tanti bei sottotitoli...
Ps: concordo. Visto che mi sto appassionando ai film girati in lingua originale (anche quando è Maya antico o Sanscrito), forse era meglio se lo giravano con la lingua dell'epoca e ci mettevano tanti bei sottotitoli...
11.3.07
L'avete voluto? Ora però vi sciroppate anche l'altro...
QUALCHE GIORNO FA ho aperto i rubinetti di questo blog, cioè ho cambiato settaggio del feed Rss (auff, e di che stiamo a parlà?) in modo tale che si possa vedere tutto il contenuto senza dover venire fisicamente sul blog. Adesso, però, ho pure cambiato il feed Rss. Uso questo di FeedBurner, che mi dicono essere assai più fico. Consiglio a tutti di passare in massa alla nuova fonte di conoscenza. Se non altro, me lo dovete perché siete stati voi a dirmi di aprire i feed...
L'indirizzo è anche qui a sinistra, nella barra dei miei link...
L'indirizzo è anche qui a sinistra, nella barra dei miei link...
Size Matters
LA PROSSIMA VOLTA che qualcuno mi dice "dai, sono pur sempre 15 pollici!", lo porto davanti a un iMac24 e lo faccio abbronzare...
(per adesso m'è venuta così: poi ci si ritorna sopra e se ne parla per bene, perché lo schermo è solo una parte del discorso. In mezzo c'è l'interfaccia e una possibilità che pochi stanno valutando. Ma - grazie a Mac e al sistema operativo 10.5 che uscirà tra qualche mese - potrebbe darsi che lo schermo dei nostri computer si rivoluzioni, facendo diventare mainstream l'idea del desktop multiplo... E allora varrebbe la pena di rimettere insieme alcune delle innovazioni di interfaccia dopo icone, finestre e mouse, per capire dove stiamo andando)
(per adesso m'è venuta così: poi ci si ritorna sopra e se ne parla per bene, perché lo schermo è solo una parte del discorso. In mezzo c'è l'interfaccia e una possibilità che pochi stanno valutando. Ma - grazie a Mac e al sistema operativo 10.5 che uscirà tra qualche mese - potrebbe darsi che lo schermo dei nostri computer si rivoluzioni, facendo diventare mainstream l'idea del desktop multiplo... E allora varrebbe la pena di rimettere insieme alcune delle innovazioni di interfaccia dopo icone, finestre e mouse, per capire dove stiamo andando)
Finirà a mazzate?
CI SIAMO, AIRBUS è ufficialmente sul bancone del pescivendolo, nella scomoda figura del pesce pescato, aperto in due e già che ci siamo decapitato. Ecco la prima perdita nella sua storia, tutta dovuta alla clamorosa toppata con il superjumbo A380 e (lasciatemelo dire) ad un altro paio di errori di management e programmazione dei prodotti niente male.
In pratica, taglieranno 10mila posti di lavoro, ma ancora non hanno capito come fare a risolvere per bene il problema, visto che i clienti stanno scappando dall'A380 e nei prossimi due-tre anni non ci sarà niente per contrastare il Boeing 787 nel ben più lucroso segmento dei velivoli mid-range.
Perdite nell'anno fiscale 2006: 572 milioni di euro (mezzo miliardo) nonostante un aumento del fatturato del 14% (arriva a 25,19 miliardi) e la vendita di 434 aeroplani contro i 387 del 2005.
Quanto è costato scazzare l'A380? Un pozzo di soldi: 2,5 miliardi di euro per la precisione, di cui 1,2 miliardi di costi extra e perdita di contratti per la vendita, 0,8 miliardi di pagamenti che Airbus sperava di poter fare più avanti, 0,5 miliardi di altri pagamenti non previsti. Nel mazzo, anche il rapporto euro-dollaro a favore di quest'ultimo ha contribuito al danno.
Airbus è controllata da Eads, cioè European Aeronautic Defence and Space. Per l'azienda, che naviga comunque dalla parte buona della riga contabile, il fatturato è stato di 39,4 miliardi, cioè un 15% più del 2005, con "soli" 399 milioni di euro di utili a causa delle perdite di Airbus. Nel 2005 Eads aveva fatto utili per 2,852 miliardi di euro.
Il commento? Airbus, casomai non si fosse capito, ha chiuso un ciclo. La domanda adesso è: quanto ci metterà ad aprirne uno nuovo in positivo? A me pare che le cose andranno un po' per le lunghe...
In pratica, taglieranno 10mila posti di lavoro, ma ancora non hanno capito come fare a risolvere per bene il problema, visto che i clienti stanno scappando dall'A380 e nei prossimi due-tre anni non ci sarà niente per contrastare il Boeing 787 nel ben più lucroso segmento dei velivoli mid-range.
Perdite nell'anno fiscale 2006: 572 milioni di euro (mezzo miliardo) nonostante un aumento del fatturato del 14% (arriva a 25,19 miliardi) e la vendita di 434 aeroplani contro i 387 del 2005.
Quanto è costato scazzare l'A380? Un pozzo di soldi: 2,5 miliardi di euro per la precisione, di cui 1,2 miliardi di costi extra e perdita di contratti per la vendita, 0,8 miliardi di pagamenti che Airbus sperava di poter fare più avanti, 0,5 miliardi di altri pagamenti non previsti. Nel mazzo, anche il rapporto euro-dollaro a favore di quest'ultimo ha contribuito al danno.
Airbus è controllata da Eads, cioè European Aeronautic Defence and Space. Per l'azienda, che naviga comunque dalla parte buona della riga contabile, il fatturato è stato di 39,4 miliardi, cioè un 15% più del 2005, con "soli" 399 milioni di euro di utili a causa delle perdite di Airbus. Nel 2005 Eads aveva fatto utili per 2,852 miliardi di euro.
Il commento? Airbus, casomai non si fosse capito, ha chiuso un ciclo. La domanda adesso è: quanto ci metterà ad aprirne uno nuovo in positivo? A me pare che le cose andranno un po' per le lunghe...
Doonesbury, tra le altre cose
SUCCEDE PRATICAMENTE DI tutto, in queste vorticose settimane. Anche che la domenica esca la consueta tavola di Gary B. Trudeau. Cliccatela per ingrandirla.
10.3.07
Toto Pessoa c'est moi
SONO IN RETE: dentro la rete, anzi. Sono l'inviato Toto Pessoa di Radio24, come riporta la stampa (bel nome, tra l'altro, vero?). E mi chiedo: se in molti stanno dicendo che di SL [Ehi, Second Life, per i non addetti...] se ne parli di più di quanto non ci si vada, perché se ne parla tanto? E quasi sempre male? Ma intanto ci vanno tutti, anche se poi a girare non ci trovi nessuno? Boh...
8.3.07
Cosa succede se... Sex Machine!
AVETE PRESENTE LE Candid-Camera, come quelle di Nanny Loy negli anni Settanta? Ancora ci stanno lavorando sopra, perché squadra che vince non si cambia. In questo caso, a dire il vero, è divertente come idea...
Ogni scarrafone è proprio bello...
IN TOSCANA SI fa il vino. Credo che più o meno tutti lo sappiamo, anche se non è l'unica regione italiana e neanche - l'Italia - l'unico paese al mondo. E', quella della Toscana, una tradizione secolare e molto sentita: è difficile immaginare che alle tavole di Firenze, di Siena o di Arezzo si bevano vini "stranieri", come il Barolo, il Dolcetto, la Falanghina. Un "francese", poi, non ne parliamo. E, soprattutto, tertium non datur...
Mio padre, che è tutto fuorché un enologo o un esperto di vini, mi raccontava un po' di tempo fa che gli americani - ah, gli americani - ci stavano truffando da decenni. E' una storia che gli avevano raccontato anni prima e che si racconta, penso, ancora oggi. Eccola. In California, nella mitologica Napa Valley (praticamente un altro pianeta, per intere generazioni di nostri connazionali che evidentemente non hanno più seguito le orme di Amerigo Vespucci), era nato un grande consorzio di venditori di vini fatti con quelle uvacce che hanno da quelle parti. Innesti e ibridi tra strane piante locali e i nostri preziosi vitigni, trafugati con tutta probabilità dagli scaltri militari americani durante la Liberazione (in cambio ci hanno dato i letali parassiti del cipresso - che tanti lutti addussero - infrattati nelle mimetizzazioni delle jeep e dei carri armati).
Dài e dài, hanno cominciato a vendere il vinaccio prima negli Usa e poi anche fuori. Per farlo, diceva la storia, avevano scelto di chiamare il vino "Gallo", così, tanto per vedere di sfruttare l'universale appeal del ben più noto consorzio toscano Gallo Nero. Una furbizia da quasi cinesi (o da quasi italiani, ma noi queste cose non le facciamo più da tempo, giuro!).
Insomma, un bel giorno una delegazione di avvocati prezzolati dai grandi marchesi, conti e messeri dell'uva toscana era andato sino nella Napa Valley a dire a questi Cow boy di smetterla entro breve di sfruttare il marchio che suonava fin troppo simile a Gallo Nero, altrimenti le cause legali, i risarcimenti danni, le ingiunzioni della Corte, un mazzo tanto etc. etc.
Loro, però, racconta la storia orale tramandata all'ora di pranzo da desco a desco fiorentino, avevano fatto una cosa furba. Avevano detto sì-sì agli avvocati, ci rivediamo la settimana prossima e se ne parla meglio. Poi si erano scatafasciati a cercare questo vecchio immigrato italiano, oramai rincoglionito, tal Joe Gallo, e lo avevano usato come prestanome intestandogli ogni cosa. Cosicché, quando si erano ritrovati con i suddetti avvocati, avevano dapprima esibito l'uomo - anziano - e di seguito fatto accomodare il collegio legale del Gallo Nero alla porta. Il vino, si erano degnati di spiegare, ha l'etichetta "Gallo" perché lo fa il signor Gallo, ecco. E vediamo di non venir più a rompere le scatole alla brava gente, pare abbiano aggiunto lustrando i pistoloni che - si sa - nel West ancora tutti portano alla cintola.
Disdoro, sdegno, arrabbiatura. I lerci, anzi i lozzi americani stavano giocando sporco: se continua così un giorno - di solito a questo punto giurano gli aneddòfori - ce lo venderanno anche a noi, quel vinaccio che sa di fanghiglia. Non sia mai! Anatema, figlio (questo è il momento in cui la tradizione assume le forme e i contorni del monito) che tu ti abbeveri al frutto corrotto e falsificato del vino del West. Poi, a questo punto, a onor del vero l'ingenuo padre che ha tanto viaggiato ma in America non c'è mai stato, mi chiede a bassa voce però com'è, com'è questo vinaccio americano, con quel pudore e quella complicità che dai tempi del Paradiso perduto è stata sempre prodromo di epocali abbuffate e conseguenti bibliche cacciate.
Già, la fanghiglia americana. A parte che in realtà siano parecchio fruttati, per l'eccesso di sole e le terre grasse, quei vini là si chiamano "Gallo" perché Ernest e Julio, due fratelli nati in California da tal fu Gallo Giuseppe e signora Assunta, fondarono nel 1933 l'omonima ditta E&J Gallo, che nel tempo è diventata la più grande azienda vinicola al mondo, con 40 etichette, 4.600 dipendenti, vendite in 90 paesi, permettendo ai signori Gallo di mettere insieme un patrimonio di 1,3 miliardi di dollari. Ecco, Julio morì nel 1993, mentre Ernest è morto l'altro giorno alla tenera età di 98 anni. Lo scrive il Corriere della Sera, tra l'altro. Per fortuna mio padre legge La Nazione, altrimenti sai che botta...
Mio padre, che è tutto fuorché un enologo o un esperto di vini, mi raccontava un po' di tempo fa che gli americani - ah, gli americani - ci stavano truffando da decenni. E' una storia che gli avevano raccontato anni prima e che si racconta, penso, ancora oggi. Eccola. In California, nella mitologica Napa Valley (praticamente un altro pianeta, per intere generazioni di nostri connazionali che evidentemente non hanno più seguito le orme di Amerigo Vespucci), era nato un grande consorzio di venditori di vini fatti con quelle uvacce che hanno da quelle parti. Innesti e ibridi tra strane piante locali e i nostri preziosi vitigni, trafugati con tutta probabilità dagli scaltri militari americani durante la Liberazione (in cambio ci hanno dato i letali parassiti del cipresso - che tanti lutti addussero - infrattati nelle mimetizzazioni delle jeep e dei carri armati).
Dài e dài, hanno cominciato a vendere il vinaccio prima negli Usa e poi anche fuori. Per farlo, diceva la storia, avevano scelto di chiamare il vino "Gallo", così, tanto per vedere di sfruttare l'universale appeal del ben più noto consorzio toscano Gallo Nero. Una furbizia da quasi cinesi (o da quasi italiani, ma noi queste cose non le facciamo più da tempo, giuro!).
Insomma, un bel giorno una delegazione di avvocati prezzolati dai grandi marchesi, conti e messeri dell'uva toscana era andato sino nella Napa Valley a dire a questi Cow boy di smetterla entro breve di sfruttare il marchio che suonava fin troppo simile a Gallo Nero, altrimenti le cause legali, i risarcimenti danni, le ingiunzioni della Corte, un mazzo tanto etc. etc.
Loro, però, racconta la storia orale tramandata all'ora di pranzo da desco a desco fiorentino, avevano fatto una cosa furba. Avevano detto sì-sì agli avvocati, ci rivediamo la settimana prossima e se ne parla meglio. Poi si erano scatafasciati a cercare questo vecchio immigrato italiano, oramai rincoglionito, tal Joe Gallo, e lo avevano usato come prestanome intestandogli ogni cosa. Cosicché, quando si erano ritrovati con i suddetti avvocati, avevano dapprima esibito l'uomo - anziano - e di seguito fatto accomodare il collegio legale del Gallo Nero alla porta. Il vino, si erano degnati di spiegare, ha l'etichetta "Gallo" perché lo fa il signor Gallo, ecco. E vediamo di non venir più a rompere le scatole alla brava gente, pare abbiano aggiunto lustrando i pistoloni che - si sa - nel West ancora tutti portano alla cintola.
Disdoro, sdegno, arrabbiatura. I lerci, anzi i lozzi americani stavano giocando sporco: se continua così un giorno - di solito a questo punto giurano gli aneddòfori - ce lo venderanno anche a noi, quel vinaccio che sa di fanghiglia. Non sia mai! Anatema, figlio (questo è il momento in cui la tradizione assume le forme e i contorni del monito) che tu ti abbeveri al frutto corrotto e falsificato del vino del West. Poi, a questo punto, a onor del vero l'ingenuo padre che ha tanto viaggiato ma in America non c'è mai stato, mi chiede a bassa voce però com'è, com'è questo vinaccio americano, con quel pudore e quella complicità che dai tempi del Paradiso perduto è stata sempre prodromo di epocali abbuffate e conseguenti bibliche cacciate.
Già, la fanghiglia americana. A parte che in realtà siano parecchio fruttati, per l'eccesso di sole e le terre grasse, quei vini là si chiamano "Gallo" perché Ernest e Julio, due fratelli nati in California da tal fu Gallo Giuseppe e signora Assunta, fondarono nel 1933 l'omonima ditta E&J Gallo, che nel tempo è diventata la più grande azienda vinicola al mondo, con 40 etichette, 4.600 dipendenti, vendite in 90 paesi, permettendo ai signori Gallo di mettere insieme un patrimonio di 1,3 miliardi di dollari. Ecco, Julio morì nel 1993, mentre Ernest è morto l'altro giorno alla tenera età di 98 anni. Lo scrive il Corriere della Sera, tra l'altro. Per fortuna mio padre legge La Nazione, altrimenti sai che botta...
7.3.07
DF Wallace, il porno e un luminoso bar di Las Vegas
LA PRIMA IDEA era quella di fare un lungo post su David Foster Wallace, visto che ho finito da poco di leggere Una cosa divertente che non farò mai più pubblicato da Minimum Fax (mamma mia, sono passati quasi dieci anni dall'edizione italiana...) e me ne sto lavorando un altro paio sempre dell'esimio. Poi, ho pensato che forse potevo andare a fare un altro tipo di ragionamento: Wallace è arrivato in Italia con Minimum Fax ma poi è transitato su Einaudi (Considera l'aragosta, che tra l'altro è il primo e geniale libro che avevo letto dell'autore. E' un altro Wallace, più complesso e stratificato ma assolutamente godibile. Anzi, talmente godibile che uno dei saggi era quello che mi aveva portato a metà gennaio dalle parti di Las Vegas) aprendogli l'accesso ad un pubblico più ampio.
Così, mi ritrovo come ulteriore ipotesi a parlare di libri - non ne parlo mai abbastanza considerando il peso che in questo periodo hanno nella mia vita e soprattutto non ne parlo mai in maniera sufficientemente "critica" - e dell'effetto che i libri hanno su di me. Ma non voglio dimenticare una delle premesse: Einaudi ha acchiappato un buon fenomeno letterario - se volessimo dipingere il catalogo della casa editrice probabilmente Wallace sarebbe una delle migliori bandiere - dopo che la piccola Minimum Fax ci ha scommesso e l'ha portato dalle nostre parti. Sono cose che succedono nel rutinante mondo editoriale.
Poi, però, avevo anche trovato, sempre cercando di costruire un percorso sull'idea originale di un lungo post su David Foster Wallace, la relativa voce su Wikipedia italiana. Per una volta, mi pare, dicono delle cose sensate. In particolare, a proposito di Una cosa divertente:
Stilisticamente presenta alcuni caratteri comuni a tutti i saggi di Wallace, come:
- un massiccio uso di note a piè di pagina, che talvolta si estendono per pagine
- il registro profondamente umoristico
Il reportage è caratterizzato dalla sua estensione a tutto campo: Wallace spazia liberamente da un'analisi sociologica dei viaggiatori e dell'equipaggio, passando per una ricostruzione dell'industria delle crociere extra-lusso, fino a giungere a un'analisi introspettiva, con una disamina della multiformi reazioni dello scrittore di fronte al fenomeno crociera.
Io non sono bravo a mettere in fila un po' di fatti e di "W" (cosa, come, quando, quelle robe là insomma): probabilmente non sono un bravo giornalista per questo motivo. Chissà, magari ho altri talenti. Mi conforta pensare che non sono molti gli italiani in grado di farlo e che spesso il ricorso ai registri più caratteristici dei blog che vanno per la maggiore (tipo ironia, ellissi, anche anacoluti e forme dialettali spinte verso il vernacolo) siano in realtà una manifestazione di questa incapacità endemica di articolare il discorso in maniera sensata e seguendo un filo logico con sinteticità, qualcosa da dire e anche un po' di stile che non guasta mai. Queste sono carenze del sistema scolastico italiano, dalle elementari in su, e la rete dei blog non sta facendo altro che approfondire il vuoto di molti. Comunque, il punto non era questo, quanto Wallace. L'effetto a oggi su di me è simile a quello di Morricone (dev'essere per questo che l'idea mi è venuta dopo il post precedente), cioè mi si appiccica addosso, mi resta nell'orecchio.
Metti Considera l'aragosta, quello di Einaudi che poi è quello che avevo letto per primo dell'autore dopo che mi era stato vivamente caldeggiato da una deliziosa amica. Il libro è una raccolta di saggi e reportage, alcuni belli e un paio tremendi - o perlomeno indigesti. Lo stile e anche la forma sono deliziosi e sperimentali senza rischiare di ucciderti, perché dopotutto gioca solo con le note a pie' di pagina e le note delle note e qualche altra idea formale niente male. Niente strane parole o forme dialettali vere o presunte (o non presunte) tali. Anzi, scorre via che è proprio un piacere. Insomma, è divertente soprattutto come scrive, intendendo i molteplici sensi che il "come" può dare alla frase precedente.
Poi, ovviamente, è molto piacevole anche quello di cui scrive. Questo fa parte del gioco: si tratta comunque di saggi-racconti-reportage. Non saprei come definirli, comunque mescolano fatti reali all'analisi e all'approfondimento. Non è sbagliato considerare da questo punto di vista Wallace un buon giornalista, perché spesso si imputa al giornalista, o meglio al cronista, il ruolo di distaccato specchio dei fatti. Ma i fatti fuori dal contesto e dall'analisi non esistono come informazione e notizia. David Randall, in un altro dei settecentocinquanta libri che leggo in parallelo (di questo se ne parla un'altra volta, promesso!) scrivendo della particolare specie di giornalisti che risponde al nome di cronisti (con la meravigliosa definizione-paragone di cacciatori-raccoglitori del giornalismo) sostiene che non sono la capacità di elencare i nudi fatti ma l'analisi lo strumento-chiave della professione. Poi, Wallace ci mette molto di più e molto di suo, compresa una straordinaria capacità di divagare senza andare fuori tema o apparire innaturale. Questo è un "vantaggio competitivo" rispetto a molti peraltro dotati di buone penne, che forse si capisce meglio pensando al concetto (e al mito) della leggerezza. Da noi, intendo fuori dalla scrivania e dai taccuini di quelli come Wallace, la leggerezza è soprattutto un esercizio di vaghezza, talvolta di cazzeggio, in qualche modo ispirato più o meno profondamente da una struttura logica di fondo, ma molto meccanica. Dentro il recinto della scrivania di Wallace e nei suoi taccuini, invece, non c'è leggerezza ma capacità maieutica di divagare portando nuova ricchezza verso il lettore. E' un esecizio di retorica, non di forma (se ha senso questa improvvisata distinzione da linguista amatoriale), che bisogna riconoscere a lui riesce proprio bene.
Comunque, in uno dei racconti-reportage-saggi di Considera l'aragosta, c'era questa notte degli Oscar dell'industria del porno. Godibilissima, non tanto e non solo per l'argomento, quanto per la possibilità che offre di spaziare in un campo che, sebbene già abbondantemente esplorato, lascia decisamente spazio ad esplorazioni ulteriori. Bello. Mi aveva colpito e - cogliendo due coincidenze nel mio piccolo straordinarie (la fiera-notte dei premi indetta da Avn si tiene subito dopo il Ces di Las Vegas e io a gennaio dovevo andare a Las Vegas per il Ces - e poi fare un salto a San Francisco per il Macworld - ripartendo però da LV) - non mi è parso il vero di provare a seguire questa pista e vedere se il cacciatore-raccoglitore Wallace avesse lasciato qualcosa da tirare su. Complice L'espresso, che mi pareva a ragion veduta la migliore tra le testate italiane a cui proporre questa storia, mi sono organizzato e la versione sintetica degli eventi sta qua.
In realtà, è la terza riscrittura della storia. Un mix delle prime due. La primissima, a parere non solo mio, ottima e scritta nei tempi giusti; ma poi - per via del fatto che la pubblicazione non era alla fine della settimana giusta ma è stata spostata una settimana dopo - riscritta per dare più spazio all'analisi e meno alla cronaca, non è quella che è stata pubblicata. Anche la seconda, però, con troppa analisi, è saltata. Sono arrivato quindi ad una terza versione "di compromesso" tra le prime due (più analisi ma ancora cronaca e colore) che poi è quella che è uscita a fine gennaio. Un buon esercizio e, devo dire, anche una buona prova professionale. Non per me come risultato, voglio dire. Quando ti fanno riscrivere un servizio lungo (per i motivi più vari, ma diciamo per ipotesi comunque non perché non sai come si mettono in fila delle idee e dei fatti su un foglio di carta) capisci che ti trovi nel contesto giusto: hai la ragionevole sicurezza che i tuoi interlocutori stanno lavorando con standard di qualità alti. E la qualità, attraverso le riscritture, aumenta: almeno, la penso così, visto che quel che esce dalla mia macchinetta per scrivere digitale non è mai una "forma primitiva" ma ha spesso subito fin troppe evoluzioni. Non so se chiamarlo labor limae, che in realtà è un'altra cosa e sta nella parte di finalizzazione di un testo, oppure in un altro modo che adesso non mi viene. Comunque, per chiudere su questo ragionamento, non è un lavoro che sta solo nel computer o nel taccuino, ma è anche una danza di ipotesi e di tuffi - o falsi tuffi, o false parate - che si snodano nella mente per tutto il tempo necessario ad arrivare a scrivere quel che sto scrivendo.
Cosa si sta scrivendo? Il trucco, alla fine, è di avere ben chiaro cosa si sta facendo. Poi, Wallace probabilmente disintegra le barriere come è karma per ogni buon fuoriclasse di ogni generazione, ma qui alla fine ci si può chiedere se "fare letteratura" e "fare giornalismo" abbiano cittadinanza nello stesso universo spazio-temporale. Secondo me, no. Altri due libri sull'argomento che procedono nella mia personale e parallelizzita pipeline toccano o comunque riguardano questo tema. More to come
Per scrivere di quella storia che ha visto un esercito di giovani donne (e giovani uomini) esibire una professionalità a dir poco inconsueta a Las Vegas, è stato necessario tempo e ovviamente si sono accumulati ricordi. Stranamente, ne ho fissi nella mente soprattutto due. Il primo è il bar del Signature, l'hotel parte dell'MGM Grand dove ho dormito sino al momento giusto - il giorno dopo la notte dei premi - e da dove me ne sono dovuto andare per overbooking proprio quando mi avrebbe fatto comodo invece la stanza, la connessione Internet e una scrivania tutta per me, per scrivere. Ho prenotato la mattina stessa al New York New York grazie alla cortesia del consierge del Signature, ma poi - prima che la camera potesse essere pronta e per giocare al meglio coi maledetti fusi orari tra Italia e Usa - mi sono messo a scrivere su un tavolino di legno scuro del bar, mentre sugli schermi piatti non facevano che trasmettere per noi bianchi sui trenta-quaranta partite di football a ripetizione. Così, per me, scrivere la prima versione di quella storia è indissolutamente legato a quel bar, al bancone con due baristi molto rilassati, agli ospiti dell'hotel che si siedevano accanto a me e si lasciavano trasportare dalla televisione, alla sete che non mi dava respiro.
Poi, l'altro ricordo, è quello della sera dopo. Credo che, insieme alla sensazione di essere completamente svuotato tipica di quando finisci un buon pezzo, un modo per vedere chi sei sia ripensare a cosa hai fatto la sera. Si dice che Emilio Fede (che è stato un signor inviato e con Tv7 ha realizzato delle eccellenti cose) fosse quello che andava a donne, manifestando una vitalità irrefrenabile. Per me, è stato andare a cena ad uno dei ristoranti dell'hotel-casinò New York New York, completamente bollito, abbuffandomi di bistecca e preparandomi ad una notte di sonno duro prima della partenza per l'Italia con orari antelucani. Però, che buona che era quella bistecca.
Ecco, lo sapevo. Alla fine, non ho scritto più di tanto di Wallace, anche se avrei voluto. E ho scritto troppo di me, anche se non come avrei voluto. Non riesco a tirare fuori l'aneddotica - figuriamoci darle una forma appetibile - o la cronaca delle mie emozioni e delle cose che vedo o a cui partecipo. Questo forse sta nel metodo che mi sono inventato per lavorare (perché non è che me lo abbiano proprio insegnato: dei pochissimi consigli, l'unico sensato che ricordi è quello del mio ex-capo Massimo Esposti - per la partenza verso l'Australia nel 2003 - di tenere un sorta di diario sul taccuino in modo da ricapitolare ogni giorno cos'è successo e fissare qualche pensiero che poi ne apra altri dentro la mente, quando finalmente scriverai) o forse è proprio per come sono fatte le mie sinapsi, i miei neuroni o comunque qualsiasi cosa dentro il cranio dia forme alle idee e ai ricordi. Meno male che tanti, più tosti di me, hanno "scavato" su questo tema. Mi evita di perder tempo a scriverci sopra e mi permette di concentrarmi sul prossimo Wallace che ho comprato.
Così, mi ritrovo come ulteriore ipotesi a parlare di libri - non ne parlo mai abbastanza considerando il peso che in questo periodo hanno nella mia vita e soprattutto non ne parlo mai in maniera sufficientemente "critica" - e dell'effetto che i libri hanno su di me. Ma non voglio dimenticare una delle premesse: Einaudi ha acchiappato un buon fenomeno letterario - se volessimo dipingere il catalogo della casa editrice probabilmente Wallace sarebbe una delle migliori bandiere - dopo che la piccola Minimum Fax ci ha scommesso e l'ha portato dalle nostre parti. Sono cose che succedono nel rutinante mondo editoriale.
Poi, però, avevo anche trovato, sempre cercando di costruire un percorso sull'idea originale di un lungo post su David Foster Wallace, la relativa voce su Wikipedia italiana. Per una volta, mi pare, dicono delle cose sensate. In particolare, a proposito di Una cosa divertente:
Stilisticamente presenta alcuni caratteri comuni a tutti i saggi di Wallace, come:
- un massiccio uso di note a piè di pagina, che talvolta si estendono per pagine
- il registro profondamente umoristico
Il reportage è caratterizzato dalla sua estensione a tutto campo: Wallace spazia liberamente da un'analisi sociologica dei viaggiatori e dell'equipaggio, passando per una ricostruzione dell'industria delle crociere extra-lusso, fino a giungere a un'analisi introspettiva, con una disamina della multiformi reazioni dello scrittore di fronte al fenomeno crociera.
Io non sono bravo a mettere in fila un po' di fatti e di "W" (cosa, come, quando, quelle robe là insomma): probabilmente non sono un bravo giornalista per questo motivo. Chissà, magari ho altri talenti. Mi conforta pensare che non sono molti gli italiani in grado di farlo e che spesso il ricorso ai registri più caratteristici dei blog che vanno per la maggiore (tipo ironia, ellissi, anche anacoluti e forme dialettali spinte verso il vernacolo) siano in realtà una manifestazione di questa incapacità endemica di articolare il discorso in maniera sensata e seguendo un filo logico con sinteticità, qualcosa da dire e anche un po' di stile che non guasta mai. Queste sono carenze del sistema scolastico italiano, dalle elementari in su, e la rete dei blog non sta facendo altro che approfondire il vuoto di molti. Comunque, il punto non era questo, quanto Wallace. L'effetto a oggi su di me è simile a quello di Morricone (dev'essere per questo che l'idea mi è venuta dopo il post precedente), cioè mi si appiccica addosso, mi resta nell'orecchio.
Metti Considera l'aragosta, quello di Einaudi che poi è quello che avevo letto per primo dell'autore dopo che mi era stato vivamente caldeggiato da una deliziosa amica. Il libro è una raccolta di saggi e reportage, alcuni belli e un paio tremendi - o perlomeno indigesti. Lo stile e anche la forma sono deliziosi e sperimentali senza rischiare di ucciderti, perché dopotutto gioca solo con le note a pie' di pagina e le note delle note e qualche altra idea formale niente male. Niente strane parole o forme dialettali vere o presunte (o non presunte) tali. Anzi, scorre via che è proprio un piacere. Insomma, è divertente soprattutto come scrive, intendendo i molteplici sensi che il "come" può dare alla frase precedente.
Poi, ovviamente, è molto piacevole anche quello di cui scrive. Questo fa parte del gioco: si tratta comunque di saggi-racconti-reportage. Non saprei come definirli, comunque mescolano fatti reali all'analisi e all'approfondimento. Non è sbagliato considerare da questo punto di vista Wallace un buon giornalista, perché spesso si imputa al giornalista, o meglio al cronista, il ruolo di distaccato specchio dei fatti. Ma i fatti fuori dal contesto e dall'analisi non esistono come informazione e notizia. David Randall, in un altro dei settecentocinquanta libri che leggo in parallelo (di questo se ne parla un'altra volta, promesso!) scrivendo della particolare specie di giornalisti che risponde al nome di cronisti (con la meravigliosa definizione-paragone di cacciatori-raccoglitori del giornalismo) sostiene che non sono la capacità di elencare i nudi fatti ma l'analisi lo strumento-chiave della professione. Poi, Wallace ci mette molto di più e molto di suo, compresa una straordinaria capacità di divagare senza andare fuori tema o apparire innaturale. Questo è un "vantaggio competitivo" rispetto a molti peraltro dotati di buone penne, che forse si capisce meglio pensando al concetto (e al mito) della leggerezza. Da noi, intendo fuori dalla scrivania e dai taccuini di quelli come Wallace, la leggerezza è soprattutto un esercizio di vaghezza, talvolta di cazzeggio, in qualche modo ispirato più o meno profondamente da una struttura logica di fondo, ma molto meccanica. Dentro il recinto della scrivania di Wallace e nei suoi taccuini, invece, non c'è leggerezza ma capacità maieutica di divagare portando nuova ricchezza verso il lettore. E' un esecizio di retorica, non di forma (se ha senso questa improvvisata distinzione da linguista amatoriale), che bisogna riconoscere a lui riesce proprio bene.
Comunque, in uno dei racconti-reportage-saggi di Considera l'aragosta, c'era questa notte degli Oscar dell'industria del porno. Godibilissima, non tanto e non solo per l'argomento, quanto per la possibilità che offre di spaziare in un campo che, sebbene già abbondantemente esplorato, lascia decisamente spazio ad esplorazioni ulteriori. Bello. Mi aveva colpito e - cogliendo due coincidenze nel mio piccolo straordinarie (la fiera-notte dei premi indetta da Avn si tiene subito dopo il Ces di Las Vegas e io a gennaio dovevo andare a Las Vegas per il Ces - e poi fare un salto a San Francisco per il Macworld - ripartendo però da LV) - non mi è parso il vero di provare a seguire questa pista e vedere se il cacciatore-raccoglitore Wallace avesse lasciato qualcosa da tirare su. Complice L'espresso, che mi pareva a ragion veduta la migliore tra le testate italiane a cui proporre questa storia, mi sono organizzato e la versione sintetica degli eventi sta qua.
In realtà, è la terza riscrittura della storia. Un mix delle prime due. La primissima, a parere non solo mio, ottima e scritta nei tempi giusti; ma poi - per via del fatto che la pubblicazione non era alla fine della settimana giusta ma è stata spostata una settimana dopo - riscritta per dare più spazio all'analisi e meno alla cronaca, non è quella che è stata pubblicata. Anche la seconda, però, con troppa analisi, è saltata. Sono arrivato quindi ad una terza versione "di compromesso" tra le prime due (più analisi ma ancora cronaca e colore) che poi è quella che è uscita a fine gennaio. Un buon esercizio e, devo dire, anche una buona prova professionale. Non per me come risultato, voglio dire. Quando ti fanno riscrivere un servizio lungo (per i motivi più vari, ma diciamo per ipotesi comunque non perché non sai come si mettono in fila delle idee e dei fatti su un foglio di carta) capisci che ti trovi nel contesto giusto: hai la ragionevole sicurezza che i tuoi interlocutori stanno lavorando con standard di qualità alti. E la qualità, attraverso le riscritture, aumenta: almeno, la penso così, visto che quel che esce dalla mia macchinetta per scrivere digitale non è mai una "forma primitiva" ma ha spesso subito fin troppe evoluzioni. Non so se chiamarlo labor limae, che in realtà è un'altra cosa e sta nella parte di finalizzazione di un testo, oppure in un altro modo che adesso non mi viene. Comunque, per chiudere su questo ragionamento, non è un lavoro che sta solo nel computer o nel taccuino, ma è anche una danza di ipotesi e di tuffi - o falsi tuffi, o false parate - che si snodano nella mente per tutto il tempo necessario ad arrivare a scrivere quel che sto scrivendo.
Cosa si sta scrivendo? Il trucco, alla fine, è di avere ben chiaro cosa si sta facendo. Poi, Wallace probabilmente disintegra le barriere come è karma per ogni buon fuoriclasse di ogni generazione, ma qui alla fine ci si può chiedere se "fare letteratura" e "fare giornalismo" abbiano cittadinanza nello stesso universo spazio-temporale. Secondo me, no. Altri due libri sull'argomento che procedono nella mia personale e parallelizzita pipeline toccano o comunque riguardano questo tema. More to come
Per scrivere di quella storia che ha visto un esercito di giovani donne (e giovani uomini) esibire una professionalità a dir poco inconsueta a Las Vegas, è stato necessario tempo e ovviamente si sono accumulati ricordi. Stranamente, ne ho fissi nella mente soprattutto due. Il primo è il bar del Signature, l'hotel parte dell'MGM Grand dove ho dormito sino al momento giusto - il giorno dopo la notte dei premi - e da dove me ne sono dovuto andare per overbooking proprio quando mi avrebbe fatto comodo invece la stanza, la connessione Internet e una scrivania tutta per me, per scrivere. Ho prenotato la mattina stessa al New York New York grazie alla cortesia del consierge del Signature, ma poi - prima che la camera potesse essere pronta e per giocare al meglio coi maledetti fusi orari tra Italia e Usa - mi sono messo a scrivere su un tavolino di legno scuro del bar, mentre sugli schermi piatti non facevano che trasmettere per noi bianchi sui trenta-quaranta partite di football a ripetizione. Così, per me, scrivere la prima versione di quella storia è indissolutamente legato a quel bar, al bancone con due baristi molto rilassati, agli ospiti dell'hotel che si siedevano accanto a me e si lasciavano trasportare dalla televisione, alla sete che non mi dava respiro.
Poi, l'altro ricordo, è quello della sera dopo. Credo che, insieme alla sensazione di essere completamente svuotato tipica di quando finisci un buon pezzo, un modo per vedere chi sei sia ripensare a cosa hai fatto la sera. Si dice che Emilio Fede (che è stato un signor inviato e con Tv7 ha realizzato delle eccellenti cose) fosse quello che andava a donne, manifestando una vitalità irrefrenabile. Per me, è stato andare a cena ad uno dei ristoranti dell'hotel-casinò New York New York, completamente bollito, abbuffandomi di bistecca e preparandomi ad una notte di sonno duro prima della partenza per l'Italia con orari antelucani. Però, che buona che era quella bistecca.
Ecco, lo sapevo. Alla fine, non ho scritto più di tanto di Wallace, anche se avrei voluto. E ho scritto troppo di me, anche se non come avrei voluto. Non riesco a tirare fuori l'aneddotica - figuriamoci darle una forma appetibile - o la cronaca delle mie emozioni e delle cose che vedo o a cui partecipo. Questo forse sta nel metodo che mi sono inventato per lavorare (perché non è che me lo abbiano proprio insegnato: dei pochissimi consigli, l'unico sensato che ricordi è quello del mio ex-capo Massimo Esposti - per la partenza verso l'Australia nel 2003 - di tenere un sorta di diario sul taccuino in modo da ricapitolare ogni giorno cos'è successo e fissare qualche pensiero che poi ne apra altri dentro la mente, quando finalmente scriverai) o forse è proprio per come sono fatte le mie sinapsi, i miei neuroni o comunque qualsiasi cosa dentro il cranio dia forme alle idee e ai ricordi. Meno male che tanti, più tosti di me, hanno "scavato" su questo tema. Mi evita di perder tempo a scriverci sopra e mi permette di concentrarmi sul prossimo Wallace che ho comprato.
Il buono, il brutto e il cattivo
CI SONO VARI motivi, ma a me Ennio Morricone sta cominciando a piacere. E questa Estasi dell'oro che data quarantuno anni fa, in modo particolare. Anche se shon shon shon... rimane sempre shon shon shon!
Tant'è vero che vale proprio la pena di aggiungerlo qui: A Fistful of Dynamite, ovvero Duck, You Sucker!, ovvero Giù la testa, coglione! (Sergio Leone, 1971). Che musica, ragazzi miei... le immortali note!
Tant'è vero che vale proprio la pena di aggiungerlo qui: A Fistful of Dynamite, ovvero Duck, You Sucker!, ovvero Giù la testa, coglione! (Sergio Leone, 1971). Che musica, ragazzi miei... le immortali note!
4.3.07
Monocle
E' STATO UN ragazzo prodigio del giornalismo: canadese di origine e londinese d'adozione. Si chiama Tyler Brûlé e il suo biglietto da visita è Wallpaper*, la rivista di tendenza per il design, la moda, il viaggio internazionale che ha fondato nel 1994. Prima, era stato inviato per il Guardian, Stern, The Sunday Times, Vanity Fair. Colpito da un cecchino in Afghanistan, ha cambiato vita. Dopo Wallpaper, che ha venduto a Time Warner, ha condotto programmi sulla BBC, fondato un'agenzia creativa (Winkreative), scritto per il Financial Times, il New York Times, l'International Herald Tribune.
Qualche settimana fa ha lanciato un nuovo mensile. Si chiama Monocle, cioè un briefing on global affairs, business, culture & design. Costa 10 euro. E li vale tutti, datemi retta. Ne parlano così:
It is a mix of the best from The Economist, Vanity Fair and The New Yorker. A reading pleasure. Unexpected topics. Long pieces. More than 200 B4 matte pages. Heavy stuff. But smart. Elegant. Compelling. Trendy. Different. And… just journalism at its best. A lesson for newspaper and magazine publishers. Quality sells. Get it!
Ah, tutto questo prima di aver compiuto i quarant'anni.
Qualche settimana fa ha lanciato un nuovo mensile. Si chiama Monocle, cioè un briefing on global affairs, business, culture & design. Costa 10 euro. E li vale tutti, datemi retta. Ne parlano così:
It is a mix of the best from The Economist, Vanity Fair and The New Yorker. A reading pleasure. Unexpected topics. Long pieces. More than 200 B4 matte pages. Heavy stuff. But smart. Elegant. Compelling. Trendy. Different. And… just journalism at its best. A lesson for newspaper and magazine publishers. Quality sells. Get it!
Ah, tutto questo prima di aver compiuto i quarant'anni.
Motivazioni domenicali
SE AVETE BISOGNO di motivazioni per uscire sotto la pioggia e fare il vostro lavoro, questo può essere un interessante punto di partenza:
Ma tu a questo lo chiameresti?
SIAMO QUASI ALLA frutta: appello video per farsi chiamare. C'è chi va su Internet per scoprire se davvero esiste nel mondo reale...
Che famo, lo chiamiamo?
Che famo, lo chiamiamo?
3.3.07
Svelato il mistero: il libro è...
NEL MESE DI giugno del 2000 Tea Due, i Tascabili degli Editori Associati, aveva finito di stampare uno strano libro di Michael Crichton. Lo scrittore americano - che era già "esploso" sia nel mondo che in Italia - lo aveva pubblicato in originale 12 anni prima, e la Garzanti lo aveva subito ripreso in Italia, pubblicandolo nel 1989, quando cadeva il muro di Berlino e il mondo sembrava scosso da tutt'altre tensioni che non quelle del nostro romanziere statunitense.
Il libro si chiama Viaggi, in originale Travels. A me Crichton piace, più o meno dello stesso piacere che mi danno John Grisham e qualche altro autore di best-sellers. Avevo a suo tempo palpitato per Scott Turow, per dire, il primo tra gli autori del moderno legal thriller che poi però si era "sgonfiato" lasciando il campo al più abile, organizzato e prolifico Grisham. Crichton, di cui avevo sentito parlare solo dopo Jurassic Park (il film, intendo, non il libro, che peraltro non ho mai letto) mi piaceva per una serie di motivi. Si legge facile ed è scritto con lo stesso "suono" che hanno le voci dei doppiatori dei vecchi film americani: senza accenti o inflessioni particolari, un po' sopra le righe ma veloci e dalle tinte espressive e chiare. Nel mio tempo personale, col ridursi dei momenti per la lettura e della capacità di concentrarsi e "macinare" testi difficili, Crichton è diventato quasi una certezza. C'è del razzismo o meglio della xenofobia, una certa macchinosità e la furbizia di chi "produce" romanzi uno via l'altro. Ma alla fine le sue sono macchinette narrative ben congegnate. Non sempre, però: rispetto ai Grisham che ho letto, Crichton è più irregolare, soprattutto meno convincente nelle chiusure. Ma, insomma, si fa leggere e viene via liscio e senza problemi. Non è poco, in un panorama letterario nostrano di autori devastati dal proprio ego, dalla piattezza negli intrecci e dallo sperimentalismo formale endemico se non cronico.
Poi, è arrivato Viaggi. Qui, veramente dipende. Perché il libro è strano: non è un romanzo ma una raccolta di scritti coordinati sulle sue esperienze di viaggio. Proprio per quel motivo l'avevo comprato (purtroppo è uno di quei libri sui quali non ho scritto la data d'acquisto come cerco di fare d'abitudine, cosicché non mi è chiaro quanti anni fa l'ho preso. Ma non sono poi moltissimi, se non altro perché è dalla fine del 2001 che viaggio per lavoro e ricordo distintamente l'associazione. Sarà stato il 2002, magari l'inizio del 2003) e forse proprio per questo motivo l'avevo archiviato. In effetti, per parlare di viaggi, ovvero, come scrive nell'introduzione lo stesso Crichton, Per molti anni ho viaggiato soltanto per me stesso. Mi rifiutavo di scrivere dei miei viaggi e persino di programmarli con qualche obiettivo utile.
Una bella dichiarazione, a cui fanno però seguito cento pagine di "Anni di medicina (1965-1969)". Spiazzante e anche un po' fastidioso. Poi, cominciano i viaggi veri e propri, dopo o anzi durante l'abbandono della medicina. Però, l'istinto mi diceva che il libro era abbastanza inquietante. Ma singolare. Insomma, da leggere nel momento giusto. Non mi sbagliavo.
Non voglio dire che non mi è piaciuto (o che mi è piaciuto), perché non è questione di giudizio. Il punto è che le 442 pagine vanno per così dire un po' per la tangente. Crichton costruisce una sua autobiografia itinerante, alternando parti di viaggio a parti di cose che bisogna definire come altre, anche se parlano sostanzialmente del suo rapporto con la scienza e poi con la ricerca spirituale, il "paranormale" e di nuovo il rapporto con la scienza. Sono tutti viaggi, per carità: fuori e dentro di sé, scoprendo che nell'una e nell'altra direzione c'è qualcosa rispettivamente di ciascuna.
E' un libro inquietante, però. Perché Crichton è un narratore scarno (pochi sono i dettagli, molti i fatti o i passaggi che poggiano le descrizioni sull'essenza dei fatti in corso) e fondamentalmente attento alla costruzione delle atmosfere psicologiche ed emotive. Solo che, da romanziere di grandi numeri, fare di sé un'autobiografia intellettuale, per quanto parziale, rende stereotipata la sua stessa identità. In qualche modo meccanica, come se il puparo si legasse corde e cordicelle per poi ballare una danza nuova ma sullo stesso vecchio palcoscenico dei suoi pupi.
I presupposti del suo viaggio, "l'esperienza di una vita" (scusate ma non riesco a non mettere tra virgolette "l'esperienza di una vita" quando lo scrivo, è una forma di pudore inevitabile), le psicosi, le donne, le droghe, il successo, la ricerca autodistruttiva del suo sé, la ricerca costruttiva del suo sé, sono come voci che vengono dosate e fatte intuire. Una parte del dramma dell'uomo, quella all'apparenza più genuina, è taciuta e traspare a prima vista indirettamente nel passaggio dagli anni della medicina alle successive 342 pagine. Ma, dando per acquisita la capacità di smontare e rimontare la macchinetta narrativa del suo libro, direi che è progettata tanto quanto il crescendo dei viaggi, il bisogno di un equilibrio che passa attraverso fasi diverse di una irrequietezza quasi manieristica. Alla fine, "la svolta mistica" (stesso problema di cui sopra per le virgolette e il pudore inevitabile) è quasi una misura del tempo in cui l'autorevolezza dello scrittore, direi quasi ogni singola briciola della sua capacità e reputazione, viene spesa per mascherare un fenomeno particolare che però è la cifra stessa della scrittura di Crichton.
L'uomo è un narratore dotato, senza dubbio. Ha intuizioni potenti e anche orecchio, direi. Non è la forma il problema, ma la sostanza. Cioè, il modo in cui si esprime, senza dubbio (se volete godere per come uno scrive, ecco, Crichton non è il vostro uomo, ma questo penso si sia già capito altrimenti non investirebbe tanto su storia, trama e intreccio né noi lettori sui suoi romanzi quando si va sotto l'ombrellone o ci si ferma su un prato alpino in quota). Però, alla fine, nonostante tutto, manca sempre qualcosa. Direi che manca, proprio alla fine, un sentimento di umana partecipazione. Come se la fantasia, il mondo potente evocato, la forza dei personaggi, alla fine mancassero di una degna conclusione e lasciassero così, sospesi. Troppo investimento nella costruzione di un meccanismo che spinga continuamente il lettore a formulare ipotesi, cancellarle, rivederle, modificarle, aggiornale, per poi non deluderlo alla fine. Troppo piccolo il mondo narrativo di Crichton, insomma. E troppo piccolo anche il suo mondo interiore, visto lo sforzo che fa nel raccontare se stesso anziché personaggi di fantasia per poi raggiungere lo stesso risultato.
Comunque, tra questo vecchio Viaggi e I barbari, continuo a preferire Crichton. Se non altro, il ragazzo ha del mestiere. E pinoli (secchi) al posto dei neuroni.
Il libro si chiama Viaggi, in originale Travels. A me Crichton piace, più o meno dello stesso piacere che mi danno John Grisham e qualche altro autore di best-sellers. Avevo a suo tempo palpitato per Scott Turow, per dire, il primo tra gli autori del moderno legal thriller che poi però si era "sgonfiato" lasciando il campo al più abile, organizzato e prolifico Grisham. Crichton, di cui avevo sentito parlare solo dopo Jurassic Park (il film, intendo, non il libro, che peraltro non ho mai letto) mi piaceva per una serie di motivi. Si legge facile ed è scritto con lo stesso "suono" che hanno le voci dei doppiatori dei vecchi film americani: senza accenti o inflessioni particolari, un po' sopra le righe ma veloci e dalle tinte espressive e chiare. Nel mio tempo personale, col ridursi dei momenti per la lettura e della capacità di concentrarsi e "macinare" testi difficili, Crichton è diventato quasi una certezza. C'è del razzismo o meglio della xenofobia, una certa macchinosità e la furbizia di chi "produce" romanzi uno via l'altro. Ma alla fine le sue sono macchinette narrative ben congegnate. Non sempre, però: rispetto ai Grisham che ho letto, Crichton è più irregolare, soprattutto meno convincente nelle chiusure. Ma, insomma, si fa leggere e viene via liscio e senza problemi. Non è poco, in un panorama letterario nostrano di autori devastati dal proprio ego, dalla piattezza negli intrecci e dallo sperimentalismo formale endemico se non cronico.
Poi, è arrivato Viaggi. Qui, veramente dipende. Perché il libro è strano: non è un romanzo ma una raccolta di scritti coordinati sulle sue esperienze di viaggio. Proprio per quel motivo l'avevo comprato (purtroppo è uno di quei libri sui quali non ho scritto la data d'acquisto come cerco di fare d'abitudine, cosicché non mi è chiaro quanti anni fa l'ho preso. Ma non sono poi moltissimi, se non altro perché è dalla fine del 2001 che viaggio per lavoro e ricordo distintamente l'associazione. Sarà stato il 2002, magari l'inizio del 2003) e forse proprio per questo motivo l'avevo archiviato. In effetti, per parlare di viaggi, ovvero, come scrive nell'introduzione lo stesso Crichton, Per molti anni ho viaggiato soltanto per me stesso. Mi rifiutavo di scrivere dei miei viaggi e persino di programmarli con qualche obiettivo utile.
Una bella dichiarazione, a cui fanno però seguito cento pagine di "Anni di medicina (1965-1969)". Spiazzante e anche un po' fastidioso. Poi, cominciano i viaggi veri e propri, dopo o anzi durante l'abbandono della medicina. Però, l'istinto mi diceva che il libro era abbastanza inquietante. Ma singolare. Insomma, da leggere nel momento giusto. Non mi sbagliavo.
Non voglio dire che non mi è piaciuto (o che mi è piaciuto), perché non è questione di giudizio. Il punto è che le 442 pagine vanno per così dire un po' per la tangente. Crichton costruisce una sua autobiografia itinerante, alternando parti di viaggio a parti di cose che bisogna definire come altre, anche se parlano sostanzialmente del suo rapporto con la scienza e poi con la ricerca spirituale, il "paranormale" e di nuovo il rapporto con la scienza. Sono tutti viaggi, per carità: fuori e dentro di sé, scoprendo che nell'una e nell'altra direzione c'è qualcosa rispettivamente di ciascuna.
E' un libro inquietante, però. Perché Crichton è un narratore scarno (pochi sono i dettagli, molti i fatti o i passaggi che poggiano le descrizioni sull'essenza dei fatti in corso) e fondamentalmente attento alla costruzione delle atmosfere psicologiche ed emotive. Solo che, da romanziere di grandi numeri, fare di sé un'autobiografia intellettuale, per quanto parziale, rende stereotipata la sua stessa identità. In qualche modo meccanica, come se il puparo si legasse corde e cordicelle per poi ballare una danza nuova ma sullo stesso vecchio palcoscenico dei suoi pupi.
I presupposti del suo viaggio, "l'esperienza di una vita" (scusate ma non riesco a non mettere tra virgolette "l'esperienza di una vita" quando lo scrivo, è una forma di pudore inevitabile), le psicosi, le donne, le droghe, il successo, la ricerca autodistruttiva del suo sé, la ricerca costruttiva del suo sé, sono come voci che vengono dosate e fatte intuire. Una parte del dramma dell'uomo, quella all'apparenza più genuina, è taciuta e traspare a prima vista indirettamente nel passaggio dagli anni della medicina alle successive 342 pagine. Ma, dando per acquisita la capacità di smontare e rimontare la macchinetta narrativa del suo libro, direi che è progettata tanto quanto il crescendo dei viaggi, il bisogno di un equilibrio che passa attraverso fasi diverse di una irrequietezza quasi manieristica. Alla fine, "la svolta mistica" (stesso problema di cui sopra per le virgolette e il pudore inevitabile) è quasi una misura del tempo in cui l'autorevolezza dello scrittore, direi quasi ogni singola briciola della sua capacità e reputazione, viene spesa per mascherare un fenomeno particolare che però è la cifra stessa della scrittura di Crichton.
L'uomo è un narratore dotato, senza dubbio. Ha intuizioni potenti e anche orecchio, direi. Non è la forma il problema, ma la sostanza. Cioè, il modo in cui si esprime, senza dubbio (se volete godere per come uno scrive, ecco, Crichton non è il vostro uomo, ma questo penso si sia già capito altrimenti non investirebbe tanto su storia, trama e intreccio né noi lettori sui suoi romanzi quando si va sotto l'ombrellone o ci si ferma su un prato alpino in quota). Però, alla fine, nonostante tutto, manca sempre qualcosa. Direi che manca, proprio alla fine, un sentimento di umana partecipazione. Come se la fantasia, il mondo potente evocato, la forza dei personaggi, alla fine mancassero di una degna conclusione e lasciassero così, sospesi. Troppo investimento nella costruzione di un meccanismo che spinga continuamente il lettore a formulare ipotesi, cancellarle, rivederle, modificarle, aggiornale, per poi non deluderlo alla fine. Troppo piccolo il mondo narrativo di Crichton, insomma. E troppo piccolo anche il suo mondo interiore, visto lo sforzo che fa nel raccontare se stesso anziché personaggi di fantasia per poi raggiungere lo stesso risultato.
Comunque, tra questo vecchio Viaggi e I barbari, continuo a preferire Crichton. Se non altro, il ragazzo ha del mestiere. E pinoli (secchi) al posto dei neuroni.
2.3.07
Cessione del quinto
OK, MI ARRENDO: ho aperto il feed di questo blog a voialtri che vi nutrite per interposta tecnologia. Abbeveratevi rumorosi... E grazie per l'utile e approfondita discussione!
Tanto, io aspetto solo che finisca Sanremo per poter ricominciare a sentire il giornale della mezzanotte di Radiouno all'ora sua...
Tanto, io aspetto solo che finisca Sanremo per poter ricominciare a sentire il giornale della mezzanotte di Radiouno all'ora sua...
Invida
UN ANNO FA e poco più avevo intervistato Chris Anderson nel suo ufficio di direttore di Wired a San Francisco. Perché? Stava lavorando a un libro e aveva un'idea niente male. La cosa era nell'aria, si cominciava a intuire che la lunga coda (o la Coda lunga, come ha tradotto Codice) forse ne valeva la pena. Adesso Luca l'ha intervistato e un po' mi fa invidia e tenerezza al tempo stesso.
Il libro nel frattempo è uscito negli Usa e adesso in Italia, a suo tempo l'ho letto e adesso mi sento come lo scout che è tornato al fortino. Adesso, infatti, è il momento del battaglione, non dello scout, di ripercorrere le strade appena abbozzate sulle mie mappe, mentre me ne sto accovacciato accanto al mio cavallo e bevo un po' di acqua di fuoco. Sto già pensando a quali nuove piste battere...
Il libro nel frattempo è uscito negli Usa e adesso in Italia, a suo tempo l'ho letto e adesso mi sento come lo scout che è tornato al fortino. Adesso, infatti, è il momento del battaglione, non dello scout, di ripercorrere le strade appena abbozzate sulle mie mappe, mentre me ne sto accovacciato accanto al mio cavallo e bevo un po' di acqua di fuoco. Sto già pensando a quali nuove piste battere...
1.3.07
E' tempo di decisioni collettive
LO DEVO SBLOCCARE il mio feed Rss, e lasciare che dall'aggregatore si veda tutto il post, oppure lo tengo limitato alle prime righe? Per chi non sa di cosa stiamo parlando, non approfondisco, però il senso ultimo della domanda è che vorrei capire se la maggior parte delle persone passa da qui tramite Rss oppure si carica manualmente la pagina tutte le volte. Il problema per me è che dal feed di Blogger a quanto pare non si riescono a recuperare le immagini (e io mi faccio il mazzo per trovarle e mettere su quelle secondo me adatte al post) o non si vedono i video di YouTube incapsulati.
Che dite? Sblocco?
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