25.4.10

Una settimana all'aeroporto (2009)

ALAIN DE BOTTON è un simpatico filosofo e saggista inglese con il vezzo di scrivere libri generalmente troppo lunghi ma molto arguti, e di farlo tendenzialmente per motivi non meglio precisati. Con Una settimana all'aeroporto la formula cambia: il libro è sempre arguto ma più breve e il motivo diviene esplicito: l'invito da parte della società che amministra vari aeroporti fra cui quello di Heathrow (e di Napoli) a diventare per una settimana "scrittore residente" nel nuovo Terminal 5. L'odore spiacevole di brochure è in agguato ma il testo riesce, con la considerevole dialettica di de Button, a farlo svaporare.

Invece, sono gustose le meditazioni sul senso di quello che succede alla nostra società e il quadro che de Button dipinge vagando per sette giorni durante l'estate del 2009 negli ambienti del nuovo "tempio del volo" britannico. L'espediente di rendere esplicito il lavoro a cottimo permette alla fine di rendere nuovamente comprensibile il patto con il lettore, e in qualche modo più aderente con i tempi. Le meditazioni di de Button toccano campi molto diversi: dal mistero della morte (e il suo pensiero ossessivo nella nostra società) al senso del viaggio, dall'ottimismo che Seneca considerava implicito negli scoppi d'ira, alla scoperta non sempre piacevole che nella nostra vacanza perfetta c'è un ospite indesiderato e inatteso: noi stessi, che con la nostra (misera) personalità filtreremo le esperienze altrimenti fantasmagoriche dei posti in cui stiamo per recarci con la nostra famiglia.

Se non vi piace il volo, gli aeroporti non vi sembrano più interessanti di un ciottolo di fiume e non vi è mai capitato di gioire davanti alla prospettiva di un'attesa tra due voli di sei ore all'interno di un grande scalo, allora non prendetelo. Altrimenti, 130 paginette veloci veloci con delle foto molto sacrificate nel formato (ma di ottima qualità) permettono a Guanda di pubblicare al prezzo popolare di 13 euro un libriccino succinto e gustoso, che si legge nel tempo di due Milano-Roma: uno la mattina all'andata e l'altro nel tardo pomeriggio al ritorno, come si conviene al vero gentiluomo dei nostri tempi.

Post scriptum: il libro vale la pena se non altro perché l'autore è riuscito a portarlo a termine senza scrivere neanche una volta "non-luogo". Che è un po' come scrivere un libro sulla "coda lunga" senza mai metterci dentro Amazon.

Post-post scriptum: David Foster Wallace e Alain de Botton sono un ardito accostamento, come i funghi e le cozze. Leggeteli entrambi, se volete, ma con parti diverse del vostro cervello.

Can I hold it?

ARRIVA IL BUON vecchio Garry B. Trudeau come ogni domenica con il suo Doonesbury

23.4.10

Teleduelli

OCCHETTO, PRODI, D'ALEMA, Rutelli. Se li è mangiati tutti. A saperlo, che per vincere un duello in televisione con Berlusconi invece ci voleva Fini, secondo me il centrosinistra s'organizzava prima…

(A Fassino e Bersani un po' gli ruga, secondo me, però)

Voglio l'America (2009)

CI SONO LIBRI che ci metti parecchio a leggere, anche se sono brevi. Voglio l'America di Enrico Franceschini, giornalista (oggi corrispondente dalla Gran Bretagna per Repubblica) è uno di questi. 190 pagine, editore Feltrinelli, il prezzo non lo so perché me l'ha regalato Fabio, è una storia di iniziazione, un passaggio dalla vita giovanile a quella adulta, un romanzo di apprendimento, e una biografia romanzata. E una fastidiosa opera di fantasia, che si redime ma solo nel finale.

L'avevo iniziato senza che mi piacesse: decine e decine di pagine di lenta partenza newyorkese per il provinciale di Bologna che sbarca a New York dopo la laurea (borsone, mille dollari, macchina per scrivere e gli scarafaggi della Grande Mela come coinquilini a Hell's Kitchen) e comincia a sognare in trasferta, ad occhi aperti. Il fastidio, tipico di noi provinciali che siamo sbarcati da qualche parte e poi non ce l'abbiamo fatta (perché non ce la facciamo mai veramente) di fronte a uno che invece ce l'ha fatta un po' di più. E poi, perfino un bolognese, con quel loro modo così simile eppure così antitetico rispetto ai fiorentini: una cultura divisa dall'Appennino, ovvero due culture aliene avvicinate dai capricci della geografia. Insomma, antipatico. Insomma, tutta una problematica da provinciali al bar.

Poi, a Pasqua sono stato quattro giorni a New York per il lancio di iPad, e la settimana dopo ci sono ripassato (senza mai uscire dall'aeroporto, sempre JFK) per andare a San Francisco. E ho ritrovato l'America che Franceschini voleva fortemente venti anni prima che io volessi la mia. In più, l'ultimo terzo del libro comincia a sembrare davvero quel mondo folle, maleducato e cattivo, sostanzialmente vuoto, nel quale mi muovo da dieci anni, incapace di andare avanti o indietro. Quindi, un crescendo: Voglio l'America mi ha fatto simpatia e la voce di Franceschini, al quale rimprovero di aver un po' troppo romanzato il suo racconto (ma come fai, mi dico io, a ricostruire dialoghi e dettagli dopo trent'anni senza un'ombra di imbarazzo per la fantasia che spacci per memoria eidetica? Hai la sindrome di Asperger?) è diventata più sincera e più simpatica.

Alla fine, dalla metà in poi, Voglio l'America è un bel libro. A volergli dare una lettura differente, è un affare privato, un bel gioco, una cosa intima che vale la pena leggere anche pubblicamente. Con queste figure vaganti di Angie e soprattutto di Bruce Willis, che lo rendono anche gustosamente surreale. Bravo Franceschini. Anche perché, come tutti i bravi corrispondenti, quando non sa o non ricorda, inventa. Dopotutto, chi può viaggiare fino in America, o meglio, sino in fondo ai suoi ricordi, per verificare? Il perfetto corrispondente.

22.4.10

Libri (letti, da leggere, da non leggere)

VLADIMIR BARTOL NEL 1938 scrisse Alamut. Pur abitando all'epoca a Parigi lo scrisse nella sua lingua natale, lo sloveno. Il romanzo, che prende il nome dalla fortezza omonima, racconta la storia di Hassan-i Sabbah e della sua setta degli Hashshashin. Alamut vuol dire "Nido dell'aquila". La dedica del romanzo, ironicamente data a Benito Mussolini, è stata fatta perché il libro pur ambientato nell'undicesimo secolo echeggia maliziosamente l'assassinio perpetrato da nazionalisti radicali croati e bulgari al re Alessandro I di Jugoslavia. In Italia il romanzo è stato tradotto solo nel 1989, in Turchia nel 1995, in Israele nel 2003, in Gran Bretagna e Stati Uniti nel 2004. La massima del romanzo è: "Niente è vero, tutto è permesso".

Nonostante sia nel regime di "pubblico dominio", l'opera di Emilio Salgari è tutt'altro che facilmente reperibile. Una dozzina di cose ancora si trovano in circolazione, anche in formato digitale, la maggior parte pare essere stata inghiottita nel niente. Questo nonostante pochi anni fa un editore l'abbia ripubblicata integralmente o quasi con una collana enciclopedica periodica per l'edicola. Inoltre, non è chiaro cosa ancora esista e cosa non ci sia: attorno a Salgari era nato un fiorente mercato di falsi pubblicati negli anni ante-guerra (per sfruttare "l'avviamento" del nome) e gli studi sugli archivi per ripescare qualche inedito o qualche romanzo pubblicato sotto pseudonimo sono ancora parecchio indietro. Uno dei siti dai quali partire per capirci qualcosa di più è l'omonimo Emilio Salgari.it. Oltretutto, si scopre che a Verona il 30 aprile è organizzato un pranzo salgariano (costo di 20 euro a persona, prenotazione obbligatoria) nell'ambito del Premio di Letteratura Avventurosa Emilio Salgari, organizzato dal Consorzio Pro Loco della Valpolicella. A Torino si è appena tenuta invece la manifestazione I cavalieri dell'Avventura, organizzata dalla Fondazione Tancredi Barolo presso il Museo della Scuola e del Libro per l'infanzia.

Dorothy Dunnett è una affascinante e inquietante figura di "scrittrice minore". In realtà, una vera e propria celebrità in Gran Bretagna: è nata in Scozia nel 1923, dov'è  scomparsa nel 2001. Ricca e ben sposata con Sir Alastair Dunnett, Dorothy era annoiata dall'idea di non avere sostanzialmente niente da fare dalla mattina alla sera. Animata fin da piccola dalla passione per la lettura, la leggenda racconta che avendo finito di leggere quel che le piaceva e non avendo altro, iniziò a scrivere su consiglio del marito "cose che le sarebbe piaciuto leggere". Si è data così al romanzo storico, con racconti estremamente documentati e articolati in lunghi cicli: The House of Niccolò, Lymond Chronicles, la serie Johnson Johnson (nome orribile, per un ciclo di sette romanzi più l'abbozzo di un'ottavo lasciato incompiuto) e quello che lei riteneva il suo capolavoro, cioè il King Hereafter. Ha ovviamente scritto anche altre cose, perché nell'arco di una vita non si è risparmiata. I suoi fan sono numerosi, sia su Internet che nei raduni che da più di vent'anni si tengono a giro per il mondo. Molti dei suoi romanzi sono stati tradotti anche in italiano. È richiesta un'estate molto lunga o altrettanto tempo libero. Il garbo, il gusto e la misura della Dunnett (a parte la grafomania) sono invidiabili.

Non passerà alla storia neanche come "minore", secondo me. Però la sua intervista è interessante. Michael Harvey ha appena dato alle stampe il suo nuovo "thriller-azione-avventura", The Third Rail, anche questo legato a una sua serialità però di taglio più televisivo. È il terzo di una serie di romanzi che seguono le avventure dell'investigatore privato Michael Kelly. Intervistato da Amazon, Harvey spiega come ha costruito il presupposto del suo romanzo, cioè l'attentato terroristico il cui scenario è stato disegnato nel 1993 dal governo americano. Mettendo insieme elementi staccati ma plausibili, Harvey si è trovato praticamente già scritto il presupposto della storia, a cui poi ha dato gambe e fiato con i suoi personaggi e il classico intreccio delle storie d'azione (l'eroe sta bene, accade qualcosa che lo mette in crisi, cerca di risolverlo, non ce la fa, precipita, interviene un amico che lo aiuta/indirizza/sostiene, ce la fa all'ultimo minuto). Siccome di letteratura d'evasione serializzata stiamo parlando, non tutti i nodi vengono al pettine e alcune questioni di sfondo rimangono aperte in maniera tale che ci sia interesse per comprare anche il prossimo volume della saga.

18.4.10

So.. Tired...

GARRY B. TRUDEAU torna qui con Doonesbury, come ogni domenica.

16.4.10

Professionisti nell'ombra

DA GIOVANI DI solito si celebrano gli artisti musicali (quelli inglesi, soprattutto) per un mix di divismo e di straordinaria capacità tecnica. Dimenticando che non sempre questa capacità è presente, o che non dura per sempre.

Riguardavo un po' di cose dal Live 8, che nel 2005 ha visto anche la reunion dei Pink Floyd (David Gilmour e Roger Waters, gli altri due erano per la presenza) e dato che era là mi è tornata alla mente la storia di Tim Renwick, il chitarrista-turnista che ha suonato su più dischi e su più palchi "classici" della maggior parte dei beniamini del rock, eppure nessuno sa chi è. La cosa divertente è che, dagli anni sessanta ad ora, ha fatto solo due album (uno nel 1980 e uno nel 2007). E sono pure molto belli.

Nel video sta tutto a sinistra per chi guarda il palco ed è sua la chitarra ritmica. Altri artisti con cui ha suonato:



Money Quote: Renwick started playing guitar in the 1960s. He performed with many bands, including Little Women, Wages of Sin, Junior's Eyes, The Hype, Quiver (later Sutherland Brothers & Quiver) and Lazy Racer. He also worked for the Alan Parsons' rhythm section at Abbey Road Studios with Pete Moss for the Sutherland Brothers, Al Stewart, and Pink Floyd. He did session work for Elton John, Procol Harum, David Bowie, Mike Oldfield, Gary Brooker, Roger Waters, Eric Clapton, David Byron, Richard Wright, Sally Oldfield, Pink Floyd and Brian Joseph Friel.

13.4.10

Learning to fly

SCRIVO CON IL buon vecchio iPad da 10mila metri di quota, in volo transcontinentale attraverso gli Usa, da San Francisco a New York.
Che figata! Un'esperienza surreale, navigare tra le nuvole, alla quale però ci si abitua in pochi minuti. È anche la dimostrazione che l'essere umano è estremamente flessibile, e che potremmo adattarci anche al teletrasporto o ai viaggi più veloci della luce...

Lock & Loaded

I WILL DEPART in 12 hours and 51 minutes: SFO-JFK-MXP 

It is not “anti-Catholic”

NON SI TRATTA di una campagna massone che pilota la stampa nordamericana. Temo invece che il problema dei preti pedofili e degli scandali sessuali nella Chiesa cattolica sia molto più ampio. E temo anche che, nel momentaneo silenzio dei paesi latini (soprattutto l'Italia), si nasconda la bomba che esploderà quando verrà tolto il tappo, per così dire, e potrà emergere l'anticlericalismo che avvelenato abita nei paesi cattolici. È comunque vero che il secolarismo all'americana che muove questa storia (peraltro inevitabile, come è stato osservato) è straniante e in parte sicuramente artificiale.

Da leggere l'articolo di Hendrik Hertzberg sul New Yorker

Money quote: It is not “anti-Catholic” to hypothesize that these things may have something to do with the Church’s extraordinary difficulty in coming to terms with clerical sexual abuse. The iniquities now roiling the Catholic Church are more shocking than the ones that so outraged Martin Luther. But the broader society in which the Church is embedded has grown incomparably freer. To the extent that the Church manages to purge itself of its shame—its sins, its crimes—it will owe a debt of gratitude to the lawyers, the journalists, and, above all, the victims and families who have had the courage to persevere, against formidable resistance, in holding it to account. Without their efforts, the suffering of tens of thousands of children would still be a secret. Our largely democratic, secularist, liberal, pluralist modern world, against which the Church has so often set its face, turns out to be its best teacher—and the savior, you might say, of its most vulnerable, most trusting communicants.

Hope we don't yellow

IN FORTE RITARDO, però la domenica è sempre il territorio di Garry B. Trudeau con il suo Doonesbury.

12.4.10

You bet I cried

IMMERSO NELLA PIÙ totale e basica americanità di San Francisco, la città dei cercatori d'oro (poi vi racconto qualcosa dell'hotel in cui sono), ho trovato questo pezzo del NYTimes su John Wayne. Potente.

11.4.10

iPad, la recensione di ArsTechnica

IL SITO CHE ha fatto della tecnologia una cultura, si è immerso in una delle più lunghe (18mila parole) e articolate recensioni dell'iPad. Tutta da leggere. Se non avete tempo, però, queste sono le conclusioni (che sottoscrivo).

Money quote: The best way for us to sum up our collective and unanimous conclusion on the iPad, is to say that it's the first device to substantially deliver on the promise made by the iPhone and, in some respects, the Newton. Both of these earlier Apple products gave us glimpses at what a real, usable, purpose-built tablet computer might one day look like, and the iPad at long last gives us the complete picture. So in a sense, the iPad is both the end of a long journey and the start of a new one. We can't wait to see where it takes us next.

10.4.10

Spostamenti

VADO UN ATTIMO a San Francisco per il fine settimana e torno. Saluti.

(MXP-AMS-SFO)

9.4.10

La signora s'è offesa

E ADESSO LA colpa è del web. Non demonizzo, ma le critiche a valanga ( e che valanga) sono una brutta cosa: per superarle è previsto che si creda in se stessi e nella fondatezza delle proprie ragioni. Alessandra Farkas, corrispondente da New York del Corriere che ha goffamente recensito iPad ed è stata travolta dai suoi lettori, è più centrata sul primo aspetto, il secondo non penso riesca a percepirlo.

Il tema, al di là dell'episodio, è interessante e poi ci ritorno quando ho tempo (devo chiudere varie cose e domani a quanto pare riparto). Premetto solo che la colpa, se di colpa si può parlare (e Farkas lo fa, chiamando in gioco l'intolleranza), in questo caso non è tutta dalla parte del web. Anzi.

8.4.10

Esperto o fanatico?

SABATO SCORSO HO comprato a New York, nel negozio Apple della Quinta strada, uno dei primissimi iPad messi in commercio. Sono andato apposta a NYC per lavoro con Macity, in un viaggio auto-finanziato, e abbiamo coperto in maniera penso più che esauriente l'evento. Dal momento che il sito di Macity è dedicato al mondo Apple, la copertura è stata abbastanza di dettaglio: dopotutto se compri TuttoTreno ti aspetti lo speciale sul nuovo TGV, no? Per questo ritengo che molti commenti personali che mi sono arrivati nei giorni a seguire, in cui in buona sostanza si parla di "fanboy" e di "fanatismo", siano decisamente fuori luogo.

Oltretutto, in un momento in cui si dice che in rete serve una informazione specializzata e che sappia molto bene di che cosa sta parlando, è singolare che poi, quando si va sul sito di quelli specializzati, gli si comincia subito a rimproverare di avere in testa sempre la stessa cose. Bah!

C'è poi chi dice che, comunque, queste sono cose super-specializzate che con il giornalismo non c'entrano niente, perché non è così che si dovrebbe fare. O che ci sia l'obbligo della "par condicio". Direi proprio di no. Chi pensa questo è molto fuori strada. La specializzazione è da sempre uno degli obiettivi a tendere di buona parte del giornalismo, non solo quello di settore. Addirittura, nel vecchio contratto giornalistico (che è in essere da più di trent'anni, variamente novellato) è sempre esistita la figura del "redattore esperto", cioè competente su uno specifico argomento, che in fondo al mese si becca in busta paga pure di più di un "redattore ordinario".

Quindi, casomai, rifatevela con la categoria e non con me. E se proprio c'è un problema, potete sempre andare a navigare da qualche altra parte (o comprarvi un bel Pc anziché scandalizzarvi perché l'iPad non ha il fottuto multitasking).

7.4.10

La primavera dell'iPad

AL PROSSIMO CHE mi dice che non ha la telecamera o che Safari è senza Flash, vado lì e gli spengo l'email per una settimana. Per tutti gli altri, questo video dovrebbe bastare. La mitica entrata all'Apple store della Fifth Avenue.

2.4.10

"Using an iPad is going to be profound for many people" (SJ)

TIME DEDICA LA sua copertina a Steve Jobs e all'iPad. L'articolo è affidato a Stephen Fry, personaggio particolare del mondo dello spettacolo britannico, che condisce un pezzo solo apparentemente ingenuo (la tendenza è quella a cercare uno spazio giornalistico "inedito" con i personaggi pubblici, simile a quel che succede in rete con i blog d'autore). Tuttavia, Fry è davvero bravo e va a toccare alcuni dei punti chiave della vicenda, compreso trovare una delicata e azzeccata somiglianza nella sofferenza del volto di Jobs post-operazioni con quello di William Hurt. Daniele li riassume qui, se masticate l'inglese vi suggerisco di leggervi tutto il pezzo, ne vale la pena. Non è saccente e perfettino come i capolavori di ghiaccio di Wired Usa, e vale lo stesso se non di più.

Money Quote: I suggest there's a bit more to it than that; surely Apple stands at the intersection of liberal arts, technology and commerce? "Sure, what we do has to make commercial sense," Jobs concedes, "but it's never the starting point. We start with the product and the user experience. You seen an iBook yet?" His pleasure in showing me the Winnie the Pooh iBook bundled with every iPad is unaffected and engaging. He demonstrates how the case can be used as a lectern and as a stand. "I think the experience of using an iPad is going to be profound for many people," he says. "I really do. Genuinely profound." That rings a bell. "I've heard it said that this is the device for you," I reply. "The one that will change everything." "When people see how immersive the experience is," Jobs says, "how directly you engage with it ... the only word is magical."

1.4.10

La stanchezza e poi il guizzo del solista

PRIMA NOTAVO COME David Pogue, il giornalista che per conto del New York Times cura la "tecnologia personale", nella sua recensione dell'iPad sembrasse un po' fuori forma. L'idea è che l'uomo sia intelligente, ma la scelta di fare una doppia recensione, mezza per gli smanettoni e mezza per gli utenti "casuali", per quanto intellettualmente intrigante (mette al centro il tema di fondo dell'iPad, cioè la sua natura innovativa che viene male accettata dagli utenti più esperti), nell'esecuzione suona assai male.

Poi però Pogue, siccome è un cavallo di razza, spiega in rete che sulla carta "non c'è mai abbastanza spazio per dire tutto quel che si deve quando il prodotto in prova è così differente dagli altri". E nella "estensione" online del NYTimes Pogue allora fa il fiore. Insomma, ha il guizzo mentre risponde alle domande dei lettori, proprio quando uno chiede "Ma davvero ci si aspetta che io compri questo aggeggio se già ho un portatile e un iPhone?".

Guardate cosa risponde: "A dire il vero, non dovete comprarlo. L'acquisto è totalmente facoltativo. Detto questo, è un po' strano, perché iPad è davvero molto differente sia da un portatile che da un iPhone. Credo che le persone abbiamo delle difficoltà con l'idea che l'iPad sia una nuova categoria, qualcosa diverso da tutto quello a cui erano abituati prima. In realtà tutto quello che le persone fanno nella loro testa è compararlo con le cose che hanno già usato prima".

"Ma io ve lo devo dire: lo schermo e il software multitouch rendono l'iPad molto, molto differente da un portatile, e la dimensione dello schermo stesso lo rende invece molto, molto differente da un iPhone. Insomma, è qualcosa di completamente nuovo. E così, sì, se vi piace, dovreste proprio comprarlo, in aggiunta al vostro portatile e al vostro iPhone".

Perfetto, non trovate?

"Habemus iPad", dicono loro

ANDY IHNATKO HA "sbucciato" l'iPad. Qui sotto il video, che si aggiunge alle recensioni del New York Times (un David Pogue fuori-forma: deludente ma alla fine torna brillante) e del Wall Street Journal (Walt Mossberg filo-Apple come mai prima). C'è anche Usa Today, ma è una cosa minore fatta da Edward C. Baig (che però lo definisce "un vincente"): nella pagina c'è anche il loro unboxing.



La cosa più importante? Il libretto delle istruzioni: un piccolo cartoncino con una grande foto dell'iPad davanti e venti righe di testo sul retro. E basta. Geniale, e spiega perfettamente la filosofia, le critiche e il successo dell'iPad. Vedrete, vedrete: lo dico da tempo che questo aggeggio farà il boom molto più di iPhone... date retta a un bischero. L'iPad sembra un gioco, fa arrabbiare gli smanettoni (minoranza mondiale) ma farà innamorare il resto del mondo, che finalmente vedrà qualcosa che non richiede una laurea per essere usato e non è orribile da guardare. Ripeto: geniale. Personalmente non vedo l'ora.

Ah, tra l'altro: oggi su Repubblica (purtroppo non disponibile online) una intervista al Giovane Autore della brava Rosalba Castelletti: si parla di Emozione Apple e del successo di Apple. Da leggere, nel paginone di R2 con l'articolessa del maestro Federico Rampini.