IERI SERA, MENTRE noi si girava qui intorno, Aznar rispondeva delle sue presunte colpe davanti alla Camera dei Deputati di Madrid. Presunte per modo di dire, secondo la piccola, microscopica folla di trenta parenti e amici delle vittime dell'11 marzo spagnolo, che la Cnn+, quella che parla spagnolo, riprendeva dal basso a campo stretto come se fossero una massa oceanica e schiamazzante. Ma l'uomo (che tanto avrebbe voluto andarsene a Washington come ambasciatore, a chiacchierare col suo amico presidente) non si fa domare facilmente.
Nessun imbarazzo, dicevano Aznar e la sua tranquilla coscienza, perché "furono altri a mentire, ad attizzare il settarismo, a manipolare i sentimenti dell'opinione pubblica". L'ex premier non è arrivato a sposare le tesi di Giuliano Ferrara (ma il tono è quello) della manifestazione di piazza "spontaneamente pilotata" dall'allora opposizione. In compenso, la mia amica di El Pais - che avevo conosciuto a Denver un po' di tempo fa - è rispuntata fuori per le sue interviste tecnologiche ed era incazzata nera. Scusate il termine, lei magari è più addentro alla storia di me e quindi ne ha ben donde. Io riporto e basta.
Oggi, invece, c'è un qualche incontro bilaterale italospagnolo: Mr Berlusconi e Mr Fini sono stati avvistati in città. Da noi, invece, Jeremy Rifkin, ospite strapagato dei nostri anfitrioni, è stato invitato a tenere un discorsetto sulla fine del sogno americano e la nascita del sogno europeo. L'economista più in voga tra i fan di Bertinotti ha dimostrato di essere quantomeno fiero del suo paese. Con buona pace di quella sinistra che sposa chiunque paia criticare gli Usa, anche senza averne motivo.
Infine, mi sono trovato a presentare una tesi che gli stessi fan di Porto Alegre troverebbero un po' troppo "in avanti". Ho sostenuto con le persone che mi accompagnano, infatti, che lavorare per una multinazionale straniera, se pure è buono da un punto di vista occupazionale e certamente produce benessere indirettamente, in realtà contribuisce a drenare ricchezza al di fuori del nostro paese.
La mia tesi è nata come una provocazione in risposta di una (secondo me) provocazione: dopo il discorso di Rifkin, infatti, era partita la critica all'uomo e alla sua "superamericanità fuori luogo e infantile come sono infantili gli americani che io li conosco bene perché lì ci ho vissuto tre anni". Mi son sentito di rispondere con la prima idea massimalista che potessi partorire e - peccando per scarsa fantasia - ho fatto quel che potevo. Di sicuro non ho ricevuto un'accoglienza particolarmente calda: la mia non è parsa una tesi illuminante.
Forse perché è solo sciocca, o forse perché tocca la vita vera, intendo dire quella degli aperitivi e del "mi compro il golden retriever" con annesso giardinetto in un paesino fuori Milano, quella di "io sono professional, mica impiegata, lavoro a progetto, con obiettivi ma senza straordinari", insomma, forse toccando tutto questo la gente poi quando si organizza il capodanno gli rimangono sulla gola le lenticchie e la cosa non piace. Forse, oppure io sono pronto per essere internato in un centro sociale...
30.11.04
28.11.04
Area Uno (che diventa anche due)
THE INCREDIBLES E' il nuovo cartone computerizzato, il penultimo, realizzato con l'accordo tuttora in corso tra Disney e Pixar (l'ultimo sarà Cars il prossimo Natale). Bello, un po' diverso dalla media dei precedenti (Alla ricerca di Nemo, tra gli altri), tuttavia assolutamente godibile. Consigliato. Da notare il cameo virtuale di una coppia di attori "vecchia scuola" che purtroppo adesso non ci sono più: Jack Lemmon e Walther Matthau.
Per quanto riguarda Sky Captain and the World of Tomorrow, il caso è più complesso. Infatti, il film non è per niente male. E' intrigante il modo in cui è stato concepito (c'è una mela dietro le quinte) e soprattutto godibile la ricerca delle citazioni: Metropolis, King Kong, Flash Gordon, Buck Rogers, Il Mago di Oz, La guerra dei mondi, Superman (quello vecchio degli anni Quaranta)... Consigliato anche questo, dunque, anche se c'è da dire che una domanda s'impone: com'è che c'è tutta questa enfasi questa volta sui bei vecchi tempi di una volta?
Una domanda, infine: ma a voi i cartoni animati non vi fanno mai piangere?
Per quanto riguarda Sky Captain and the World of Tomorrow, il caso è più complesso. Infatti, il film non è per niente male. E' intrigante il modo in cui è stato concepito (c'è una mela dietro le quinte) e soprattutto godibile la ricerca delle citazioni: Metropolis, King Kong, Flash Gordon, Buck Rogers, Il Mago di Oz, La guerra dei mondi, Superman (quello vecchio degli anni Quaranta)... Consigliato anche questo, dunque, anche se c'è da dire che una domanda s'impone: com'è che c'è tutta questa enfasi questa volta sui bei vecchi tempi di una volta?
Una domanda, infine: ma a voi i cartoni animati non vi fanno mai piangere?
Madrid, Madrid
DOMANI MATTINA VADO un attimo a Madrid. Ragazzi, non ci sono mai stato, vado a rendermi conto di quel che succede e vi tengo aggiornati. Per la cronaca: mi porta Iberia... è una vita che non volo con loro, poi vi faccio sapere
27.11.04
Friends don’t let friends do Windows
FORSE SI POTREBBE chiamare anche "Orgoglio e pregiudizio". Ma insomma, sono al Linux Day, dopo aver fatto il mio intervento, mangiato la pizza con la mozzarella di bufala e aver passato due ore a rispondere a ragazzi che, più che a Linux, sono interessati al mio PowerBook, a "come hai fatto a fare quella presentazione con le transizioni delle slide così belle", a "ma davvero MacOsX usa Bsd, che poi sarebbe Unix che è come Linux?"...
Ecco, adesso navigo senza fili, le gambe in alto, la pizza che mi concilia il sonno, Dean Martin in sottofondo. Incappo in questo sito, che spiega cosa capita a chi molla il Mac per un Pc (con annesse illustrazioni dei dialoghi).
I just wanted to properly eat crow, and admit to all of you that my Windows experiment was an abject failure. A combination of crappy hardware, inelegant programming, in-your-face alerts, and a few other insurmountable factors have led me to eBay my windows laptop, and, since I already sold my 1.5Ghz PowerBook (for $100 more than it cost me… Yay developer discount and eBay craziness!), I’m writing this from my 1.2Ghz 12” iBook, which I will be delighted to use until the G5/Freescale (whichever comes first) PowerBooks arrive.
I have to say, I am now officially platform-biased. I was nearly there before, but I am SEVERELY so now.
E allora? L'orgoglio di essere Mac. Il pregiudizio per quelli che non lo sono. E la certezza che un amico non lascia che l'amico nelle mani di Windows. Porca miseria!
Ecco, adesso navigo senza fili, le gambe in alto, la pizza che mi concilia il sonno, Dean Martin in sottofondo. Incappo in questo sito, che spiega cosa capita a chi molla il Mac per un Pc (con annesse illustrazioni dei dialoghi).
I just wanted to properly eat crow, and admit to all of you that my Windows experiment was an abject failure. A combination of crappy hardware, inelegant programming, in-your-face alerts, and a few other insurmountable factors have led me to eBay my windows laptop, and, since I already sold my 1.5Ghz PowerBook (for $100 more than it cost me… Yay developer discount and eBay craziness!), I’m writing this from my 1.2Ghz 12” iBook, which I will be delighted to use until the G5/Freescale (whichever comes first) PowerBooks arrive.
I have to say, I am now officially platform-biased. I was nearly there before, but I am SEVERELY so now.
E allora? L'orgoglio di essere Mac. Il pregiudizio per quelli che non lo sono. E la certezza che un amico non lascia che l'amico nelle mani di Windows. Porca miseria!
26.11.04
A che punto è la notte
VI PREGO, ANCHE se avete altro da fare, anche se di professione fate l'operatore ecologico o se usate internet per cercare sexy, bionde, asiatiche con lingerie che ne evidenzino le rotonde forme (e per questo i motori di ricerca vi hanno portato su questa pagina), fermatevi e andate a leggere questo.
Soprattutto, dopo aver letto il testo della pagina, addentratevi nei quattro Pdf linkati (non perdetevi l'ultimo, mi raccomando). Vi prego, cercate di entrare nel meccanismo, di cogliere lo spirito, di vedere cosa stiamo facendo a noi stessi e agli altri. Poi, prendete seriamente in considerazione, se siete impiegati nel terziario, di rifarvi una vita spacciando in periferia oppure tornando a quella vita agreste che i vostri nonni hanno voluto a tutti i costi abbandonare venendo in città.
Qualcuno li fermi, vi prego.
Soprattutto, dopo aver letto il testo della pagina, addentratevi nei quattro Pdf linkati (non perdetevi l'ultimo, mi raccomando). Vi prego, cercate di entrare nel meccanismo, di cogliere lo spirito, di vedere cosa stiamo facendo a noi stessi e agli altri. Poi, prendete seriamente in considerazione, se siete impiegati nel terziario, di rifarvi una vita spacciando in periferia oppure tornando a quella vita agreste che i vostri nonni hanno voluto a tutti i costi abbandonare venendo in città.
Qualcuno li fermi, vi prego.
Cose da fare prima di domani
SI TIENE A Milano, udite udite, il Linux Day italiano. Evento che eccita gli animi e fa mormorare i benpensanti. Cosa faranno? Cosa diranno? Chi ci sarà? Altro che Blogfest...
Il qui presente Posto domani dovrà essere lì a tenere - ore 12, presentatevi con una copia di questo post stampato per identificarvi - un'avvincente relazione. Che, per inciso, non ha ancora preparato. E quindi, adesso si mette buono buono a lavorare. Ma un dubbio lo assilla: per quante ora bisognerà prepararsi se poi si parla mezz'ora? Basterà una notte?
Il qui presente Posto domani dovrà essere lì a tenere - ore 12, presentatevi con una copia di questo post stampato per identificarvi - un'avvincente relazione. Che, per inciso, non ha ancora preparato. E quindi, adesso si mette buono buono a lavorare. Ma un dubbio lo assilla: per quante ora bisognerà prepararsi se poi si parla mezz'ora? Basterà una notte?
Convergenza, mon amour
E' SEMPRE STUPEFACENTE quanto il marketing (e noialtri giornalisti) riusciamo a dare un'idea artefatta delle cose. Prendiamo ad esempio il concetto di convergenza, una roba che ci riguarda tutti perché le tecnologie digitali sono dentro le nostre vite sempre di più.
La convergenza è il processo in base al quale, visto che i bit che trasportano le informazioni sono indifferenti al tipo di canale con il quale vengono trasmessi, i suddetti canali tendono a diventare uno. Il televisore un po' computer, il telefonino un po' palmare, il film diventa una roba che si guarda dove ci pare, basta che ci sia un processore e uno schermo.
Ecco, sembrerebbe una cosa bella, che arricchisce. Ma in realtà è un processo (quindi dinamico) molto selettivo, praticamente darwiniano, in cui le "cose", che poi sono quelle che compriamo (computer, palmari, telefonini), diventano obsolete molto, molto rapidamente. O addirittura, vengono gettate fuori della finestra.
Un esempio? Adesso si studia come portare connessione negli aerei. C'è chi lo vuol fare con un collegamento Internet diretto via satellite, ridistribuito con access point senza fili a bordo dell'aereo. Si userà il Pc portatile (o il Mac) in questo caso. Oppure c'è chi vuol creare reti per cellulari (pico-cellule, reti con celle molto piccole) a bordo del velivolo e collegate sempre via satellite con la rete attraverso Internet.
Sembra la stessa cosa, ma in un caso ci si porta dietro il computer, si naviga e siguarda la posta (se si vuol telefonare bisogna usare un accrocchio tipo Skype, ma non è impossibile) però il nostro numero di cellulare non funziona. Nell'altro, funziona il cellulare, siamo reperibili, però per guardare la posta e navigare bisogna usare quest'ultimo come modem del computer (oppure comprare una connect card) altrimenti non c'è trippa per gatti.
Non credo che entrambe le tecnologie avranno contemporaneamente lo stesso successo. Una avrà la meglio, l'altra finirà nell'angolino e in definitiva la convergenza avrà avuto luogo. Lasciando vittime sul campo: i famosi costi di trasformazione e stabilizzazione del mercato. Sarà una bella cosa? Dipende da cosa avete comprato: il telefonino o la scheda senza fili per il portatile?
La convergenza è il processo in base al quale, visto che i bit che trasportano le informazioni sono indifferenti al tipo di canale con il quale vengono trasmessi, i suddetti canali tendono a diventare uno. Il televisore un po' computer, il telefonino un po' palmare, il film diventa una roba che si guarda dove ci pare, basta che ci sia un processore e uno schermo.
Ecco, sembrerebbe una cosa bella, che arricchisce. Ma in realtà è un processo (quindi dinamico) molto selettivo, praticamente darwiniano, in cui le "cose", che poi sono quelle che compriamo (computer, palmari, telefonini), diventano obsolete molto, molto rapidamente. O addirittura, vengono gettate fuori della finestra.
Un esempio? Adesso si studia come portare connessione negli aerei. C'è chi lo vuol fare con un collegamento Internet diretto via satellite, ridistribuito con access point senza fili a bordo dell'aereo. Si userà il Pc portatile (o il Mac) in questo caso. Oppure c'è chi vuol creare reti per cellulari (pico-cellule, reti con celle molto piccole) a bordo del velivolo e collegate sempre via satellite con la rete attraverso Internet.
Sembra la stessa cosa, ma in un caso ci si porta dietro il computer, si naviga e siguarda la posta (se si vuol telefonare bisogna usare un accrocchio tipo Skype, ma non è impossibile) però il nostro numero di cellulare non funziona. Nell'altro, funziona il cellulare, siamo reperibili, però per guardare la posta e navigare bisogna usare quest'ultimo come modem del computer (oppure comprare una connect card) altrimenti non c'è trippa per gatti.
Non credo che entrambe le tecnologie avranno contemporaneamente lo stesso successo. Una avrà la meglio, l'altra finirà nell'angolino e in definitiva la convergenza avrà avuto luogo. Lasciando vittime sul campo: i famosi costi di trasformazione e stabilizzazione del mercato. Sarà una bella cosa? Dipende da cosa avete comprato: il telefonino o la scheda senza fili per il portatile?
ForUsa
QUESTI SIGNORI, DAL nome che ricorda un insetticida, stanno per primi importando la Smart negli Stati Uniti. Poi, nel 2006, arriverà anche un SUV (i fuoristrada-furgonati-dimensione-ciclope) "tascabile". La "S" di Sport Utility Vehicle sarà l'iniziale di "Smart Utility Vehicle"...
Dopo il successone della nuova Mini di Bmw, secondo me la Smart classica farà una rivoluzione da quelle parti (già hanno chiarito che fa 60 miglia con un gallone di benzina verde e inquina pochissimo...).
Dopo il successone della nuova Mini di Bmw, secondo me la Smart classica farà una rivoluzione da quelle parti (già hanno chiarito che fa 60 miglia con un gallone di benzina verde e inquina pochissimo...).
Tutti pazzi per iPod
UN MIO AMICO ha pubblicato un libro. Avete capito di cosa stiamo parlando? Come? Vi state mettendo la giacca per andare a comprarlo? Ah, già ce l'avete? Come non detto, allora...
25.11.04
Il senso della notizia
SUCCEDONO COSE STRANE: l'Ansa ha pubblicato (ed è passato praticamente sotto silenzio) questo:
HACKER DA 2 GIORNI ATTACCANO SENATO
Spam con immagini gay porno 'ferme' su diversi pc
(ANSA) - ROMA, 23 NOV - Da due giorni un virus ha attaccato il sistema telematico del Senato causando un traffico anomalo sulla rete e bloccandone la funzionalita'. Lunedì mattina, secondo quello che e' stato riferito da diverse fonti, alcuni dei computer sotto attacco avevano immagini porno gay 'ferme' sul monitor. Per due giorni gran parte dei computer di Palazzo Madama sono rimasti quindi fermi, senza possibilita' di utilizzare ne' i sistemi di scrittura, ne' Internet ne' le e-mail.
Peccato oltretutto che la versione che viene fornita da siti di news inglesi sia un po' diversa...
Italian Senate in gay porn worm attack outrage
By John Leyden
Published Wednesday 24th November 2004 13:40 GMT
Proceedings in the Italian Senate were disrupted this week after hackers used a computer worm to display hardcore gay porn on computer monitors.
Computers in the Senate chamber, and Senator's office, were affected by the attack which used variants of the Rbot worm to disseminate smut across the upper house of the Italian parliament. The Rbot family of worms includes a backdoor component which allows crackers to seize control of infected computers, steal information or in this case redirect users towards "inappropriate" content.
One theory suggests that the attack was motivated by the recent dismissal of Dario Mattiello, assistant to the Senate's Vice President, after photographs were distributed showing him at a gay nightspot in Rome. The move has led to sit-down protest outside the Senate building by Italian gay rights groups last week
HACKER DA 2 GIORNI ATTACCANO SENATO
Spam con immagini gay porno 'ferme' su diversi pc
(ANSA) - ROMA, 23 NOV - Da due giorni un virus ha attaccato il sistema telematico del Senato causando un traffico anomalo sulla rete e bloccandone la funzionalita'. Lunedì mattina, secondo quello che e' stato riferito da diverse fonti, alcuni dei computer sotto attacco avevano immagini porno gay 'ferme' sul monitor. Per due giorni gran parte dei computer di Palazzo Madama sono rimasti quindi fermi, senza possibilita' di utilizzare ne' i sistemi di scrittura, ne' Internet ne' le e-mail.
Peccato oltretutto che la versione che viene fornita da siti di news inglesi sia un po' diversa...
Italian Senate in gay porn worm attack outrage
By John Leyden
Published Wednesday 24th November 2004 13:40 GMT
Proceedings in the Italian Senate were disrupted this week after hackers used a computer worm to display hardcore gay porn on computer monitors.
Computers in the Senate chamber, and Senator's office, were affected by the attack which used variants of the Rbot worm to disseminate smut across the upper house of the Italian parliament. The Rbot family of worms includes a backdoor component which allows crackers to seize control of infected computers, steal information or in this case redirect users towards "inappropriate" content.
One theory suggests that the attack was motivated by the recent dismissal of Dario Mattiello, assistant to the Senate's Vice President, after photographs were distributed showing him at a gay nightspot in Rome. The move has led to sit-down protest outside the Senate building by Italian gay rights groups last week
23.11.04
Voi la petizione la firmereste?
CI SONO QUESTI tre signori, Linus Torvalds (Linux), Michael "Monty" Widenius (MySQL) e Rasmus Lerdorf (PHP), che hanno creato tre fra i più importanti progetti Open Source del mondo. Sono anche europei, per quanto alcuni di loro vivano negli Stati Uniti, e non vorrebbero che l'Unione approvi la regolamentazione sul brevetto del software. Hanno fatto un appello, in cui sostengono che sia "pericoloso e illegittimo per la democrazia" Firmereste il loro appello? Mettereste online il loro banner?
22.11.04
Ehi, è inverno: lo vogliamo vestire il nostro piccolino?
RAGAZZI, E' ARRIVATO l'inverno. Fa freddo. Tra poco è Natale. Che cosa può fare un buon marketing, allora? Proporre qualcosa di natalizio, sfizioso, regaloso. Già, un buon marketing. Ma quando il marketing è geniale, è oltre qualunque classifica, al di là delle possibilità di noi comuni mortali? Propone le iPod Socks, le calze per l'iPod.
Voi pensate davvero che io a gennaio vada negli Stati Uniti, a San Francisco, al MacWorld 2005 e non me le compri? Non compri al mio iPod, cioè, un piccolo, grazioso, sfizioso accessorio adatto al rigido clima invernale? Che non lo vesta, insomma? Tzé...
Parliamoci chiaro: l'iPod è solo un lettore di musica digitale, un hard disk coperto da un guscio di plastica (e allora una custodia di poliuterano espanso con apposita fibbia per agganciarlo in vita è l'ideale, oltretutto viene fornita di serie) oppure è una piccola creaturina che patisce i rigordi dell'inverno e deve essere coperta e protetta?
Provate a indovinare, io intanto mi compro le iPod Socks, perché io al mio iPod ci voglio bene, ci voglio...
E speriamo che il quattro dicembre, quando cominceranno a vendere le calze a 29 dollari, ne facciano tante, veramente tante. Perché non credo che sarò l'unico...
Voi pensate davvero che io a gennaio vada negli Stati Uniti, a San Francisco, al MacWorld 2005 e non me le compri? Non compri al mio iPod, cioè, un piccolo, grazioso, sfizioso accessorio adatto al rigido clima invernale? Che non lo vesta, insomma? Tzé...
Parliamoci chiaro: l'iPod è solo un lettore di musica digitale, un hard disk coperto da un guscio di plastica (e allora una custodia di poliuterano espanso con apposita fibbia per agganciarlo in vita è l'ideale, oltretutto viene fornita di serie) oppure è una piccola creaturina che patisce i rigordi dell'inverno e deve essere coperta e protetta?
Provate a indovinare, io intanto mi compro le iPod Socks, perché io al mio iPod ci voglio bene, ci voglio...
E speriamo che il quattro dicembre, quando cominceranno a vendere le calze a 29 dollari, ne facciano tante, veramente tante. Perché non credo che sarò l'unico...
Nokia Neo, l'iPod venuto dal freddo
UNO NON FA in tempo a fare un paio di ipotesi che subito esce fuori che ci stava pensando qualcun altro. A cosa? A fare un telefono un po' iPod, con ghiera made in Ikea... A questo punto Apple cosa fa? Risponde all'appello?
Area Uno: Bye Bye, Lax
ERA UN BEL telefilm. Ma quest'anno alla Nbc sta andando tutto storto (soprattutto da quando è finito Friends). Questo è l'anno dell'Abc, l'anno di Desperate Housewives, la cui eco è arrivata anche dalle nostre parti. Quindi, niente più Lax, a quanto pare. Il serial con Blair Underwood (è appena passato su La7, nelle puntate di domenica di Sex and the City) e soprattutto Heather Locklear sta finendo nel purgatorio dei telefilm che non hanno uno share sufficientemente elevato. Adesso siamo alla decima puntata trasmessa. Probabilmente non vedremo la tredicesima, che oltretutto negli Usa porta pure sfortuna come il nostro diciassette.
Quindi, au revoire Lax, e forza avanti tutta con Desperate Housewives. Ne parleremo tra qualche giorno. Io intanto segnalo che c'è anche Huff, una interessante matricola, e soprattutto Lost, l'altro grande successo di questa stagione insieme - tra quelli per un pubblico di appassionati di fantascienza - Stargate Atlantis e il ritorno spettacolare di Battlestar Galactica. Abbiate un po' di pazienza, c'è spazio anche per loro in questo Posto...
Quindi, au revoire Lax, e forza avanti tutta con Desperate Housewives. Ne parleremo tra qualche giorno. Io intanto segnalo che c'è anche Huff, una interessante matricola, e soprattutto Lost, l'altro grande successo di questa stagione insieme - tra quelli per un pubblico di appassionati di fantascienza - Stargate Atlantis e il ritorno spettacolare di Battlestar Galactica. Abbiate un po' di pazienza, c'è spazio anche per loro in questo Posto...
Un dubbio che scuote l'Italia
STIMOLATO (E' IL caso di dirlo) da una nota di PensierInEcCesso, all'improvviso ho capito cos'è cambiato nel nostro Paese nell'ultimo decennio. Il modo in cui ci svegliamo.
Ci avete fatto caso? Usiamo il telefonino al posto della sveglia. Cioè, noi "thirtysomething" che guardiamo Sex and the City pensando che a noi non capita perché viviamo in periferia (io sto a Milano a trecento metri da Personalitàconfusa, ma mai che mi scrivesse una mail o mi mandasse un pensiero carino), che non abbiamo i soldi per farci la macchina ma diciamo che "preferiamo usare i mezzi, con tutto l'inquinamento che c'è in giro", che siamo flessibilmente precari (o precariamente flessibili), in perenne ritardo sulle scadenze, ricattati dalla vita e soprattutto da chi ci paga, che abbiamo opportunità che i nostri genitori non hanno mai avuto ma nessuna delle loro sicurezze, insomma noi, i nostri amici, le nostre compagne (compagni) che qualche volta ci dormono accanto, i parenti e i conoscenti, tutti usiamo il telefonino per resuscitare dal coma metropolitano nel quale piombiamo la sera.
Forse succede perché il nostro orologio biologico è andato definitivamente in bambola.
Domani mi vado a comprare una sveglia. Ci vuole un bel gesto simbolico, come quello del protagonista de Le mille luci di New York (cioé Bright Lights, Big City) che alla fine si andava a comprare il pane appena sfornato. Ecco, torniamo al minimalismo, va'...
Ci avete fatto caso? Usiamo il telefonino al posto della sveglia. Cioè, noi "thirtysomething" che guardiamo Sex and the City pensando che a noi non capita perché viviamo in periferia (io sto a Milano a trecento metri da Personalitàconfusa, ma mai che mi scrivesse una mail o mi mandasse un pensiero carino), che non abbiamo i soldi per farci la macchina ma diciamo che "preferiamo usare i mezzi, con tutto l'inquinamento che c'è in giro", che siamo flessibilmente precari (o precariamente flessibili), in perenne ritardo sulle scadenze, ricattati dalla vita e soprattutto da chi ci paga, che abbiamo opportunità che i nostri genitori non hanno mai avuto ma nessuna delle loro sicurezze, insomma noi, i nostri amici, le nostre compagne (compagni) che qualche volta ci dormono accanto, i parenti e i conoscenti, tutti usiamo il telefonino per resuscitare dal coma metropolitano nel quale piombiamo la sera.
Forse succede perché il nostro orologio biologico è andato definitivamente in bambola.
Domani mi vado a comprare una sveglia. Ci vuole un bel gesto simbolico, come quello del protagonista de Le mille luci di New York (cioé Bright Lights, Big City) che alla fine si andava a comprare il pane appena sfornato. Ecco, torniamo al minimalismo, va'...
Aspettando San Francisco
NON COMPRERESTE IL telefono? Poco male, perché è molto probabile che a gennaio Apple decida invece di aggiornare l'iBook, il piccolo portatile più popolare nelle scuole e nelle università statunitensi. E se il nostro amico giapponese che disegna, disegna, disegna, ci avesse visto giusto e anche l'iBook assumesse quel caratteristico schermo panoramico 16:10, voi lo comprereste?
Aggiungo, per chi non ha mai visto un iPod mini dal vivo e possa temere che sia troppo grosso, anche una immagine comparativa... ;-)
Aggiungo, per chi non ha mai visto un iPod mini dal vivo e possa temere che sia troppo grosso, anche una immagine comparativa... ;-)
Troppo grosso... Vi sembra davvero troppo grosso?
E SE UNO non lo volesse comprare perché troppo grosso? Ma siamo poi così sicuri che sia così grosso? Insomma, è un iPod mini con l'estensione, nelle fantasie del designer giapponese che passa le serate a creare queste pazzie. Ma guardate gli auricolari... vi sembra ancora troppo grosso? Non lo comprereste?
21.11.04
Comprereste questo telefonino?
E SE TRA qualche settimana un signore con barba e baffi sale e pepe salisse sul palco del Moscone Center a San Francisco e vi dicesse che vuole vendervi un iPod mini che telefona, voi che fareste? Lo comprereste?
(Qui il resto della storia)
(Qui il resto della storia)
20.11.04
Le gioie del lavoro
FORSE A VOI non capita così di sovente. Ma per chi si trova in una posizione professionale come la mia, capita spesso. E' il mio mestiere. Io faccio il giornalista ma non è questa la cosa importante. Il fatto è che mi occupo di tecnolgia, soprattutto di informatica. E questo provoca, nella maggior parte delle persone, un irrefrenabile impulso, una specie di comportamento istintivo. Sentono il bisogno di chiedermi aiuto per i loro problemi.
La cosa è fantastica, non fraintendetemi. Per quanto io sia poi un utente Mac e quindi poco avvezzo ai problemi, rispetto a chi usa il Pc, è fantastico vedere come ci si possa rendere utili e diventare anche un po' più popolari di prima. Mi piace. Ma alle volte il servizio 24/7, quello per cui ti arrivano le telefonate nei contesti più strani e ti si chiedono le cose più singolari, ecco quello alle volte è un po' difficile da spiegare alle persone care.
E poi, l'altra cosa, è che le amicizie evolvono. Mi ricordo dei primi tempi al quotidiano, quando lavoravo in redazione. Era quella degli Esteri, con gli inviati fighissimi, meglio ancora di quelli della mia amata redazione dell'Ansa (sempre Esteri, sempre lontani ricordi), con i quali intavolare affascinanti chiacchieratae sul mondo. La questione ebraica? Perché non trasferiamo Gerusalemme tra i boschi della Finlandia? La famiglia Bush? Niente più di qualche tycoon vecchio stile, in cerca di nuove fonti di business. Insomma, c'era dibattito.
Oggi, se ci incontriamo, è perché Outlook non si sincronizza col BlackBerry, oppure perché in Windows XP non sanno dove trovare la configurazione della scheda di rete per quando sono in albergo con la banda larga. Ma insomma, sono un giornalista anche io. Non è mica che se incontrate uno che lavora a Quattroruote gli chiedete di gonfiarvi le gomme e dare un'occhiatina all'olio, no? Suvvia, cari colleghi...
La cosa è fantastica, non fraintendetemi. Per quanto io sia poi un utente Mac e quindi poco avvezzo ai problemi, rispetto a chi usa il Pc, è fantastico vedere come ci si possa rendere utili e diventare anche un po' più popolari di prima. Mi piace. Ma alle volte il servizio 24/7, quello per cui ti arrivano le telefonate nei contesti più strani e ti si chiedono le cose più singolari, ecco quello alle volte è un po' difficile da spiegare alle persone care.
E poi, l'altra cosa, è che le amicizie evolvono. Mi ricordo dei primi tempi al quotidiano, quando lavoravo in redazione. Era quella degli Esteri, con gli inviati fighissimi, meglio ancora di quelli della mia amata redazione dell'Ansa (sempre Esteri, sempre lontani ricordi), con i quali intavolare affascinanti chiacchieratae sul mondo. La questione ebraica? Perché non trasferiamo Gerusalemme tra i boschi della Finlandia? La famiglia Bush? Niente più di qualche tycoon vecchio stile, in cerca di nuove fonti di business. Insomma, c'era dibattito.
Oggi, se ci incontriamo, è perché Outlook non si sincronizza col BlackBerry, oppure perché in Windows XP non sanno dove trovare la configurazione della scheda di rete per quando sono in albergo con la banda larga. Ma insomma, sono un giornalista anche io. Non è mica che se incontrate uno che lavora a Quattroruote gli chiedete di gonfiarvi le gomme e dare un'occhiatina all'olio, no? Suvvia, cari colleghi...
19.11.04
iPod, quindi sono
SI AVVICINA A larghe falcate il MacWorld di San Francisco (10 gennaio 2005) e sale la febbre. Nel mio caso, dell'iPod...
17.11.04
Everyone has a little dirty laundry
HANNO COMINCIATO A parlarne anche dalle nostre parti. Intendo Desperate Housewives, il serial dello scandalo, la pruderie di oggi, quella che ha conquistato le platee americane (in quel paese viene trasmesso da Abc) con ascolti fiume di quasi 25 milioni di persone. Adesso che è nel mirino dei nostri giornali, che se ne parla anche dalle nostre parti (chissà quando arriverà sul piccolo schermo di casa nostra) posso dire che io, invece, soffro. Sì, soffro perché l'episodio di domenica scorsa ancora non è stato recapitato dal "postino" e noialtri che seguiamo in lieve differita il telefilm siamo rimasti a bocca asciutta. Qui c'è gente che soffre, caro il mio postino...
Un milione di scimmie e un milione di redattori per un milione di saperi
L'ANNO SCORSO ho comprato la raccolta di volumi - pubblicata dal Corriere della Sera - con l'ennesima edizione della Storia d'Italia di Indro Montalelli (più Cervi e Gervaso). Quest'anno, ho cambiato parrocchia e mi sto dedicando a quella pubblicata da Repubblica sulla storia totale in (se non sbaglio) sedici volumi della Utet. Però non posso fare a meno, per qualunque scusa, di puntare verso un certo sito.
Si tratta di Wikipedia, un'enciclopedia online "open knowledge", creata collaborativamente da volontari del sapere. Fuori dalle accademie e con una metodologia non verticalistica. Il fenomeno sta diventando molto significativo, non solo perché Wikipedia emerge come il vincitore di questa fase di consolidamento dell'organizzazione spontanea del sapere nella Rete, ma anche perché sempre più spesso sempre più persone la utilizzano come fonte (unica) di informazione. Anche giornalisti. Anche scrittori. Anche insegnanti.
Adesso arriva un articolo dell'ex direttore dell'Enciclopedia Britannica. Che rompe un po' le scatole perché dice: Wikipedia fa schifo, gli articoli sono scritti male, inaffidabili, erratici nel loro divenire: la conoscenza - quella vera - non si organizza così. La critica è forte. La tesi di fondo è che per fare il lavoro per bene ci vogliano i professionisti. Un milione di scimmie forse, picchiando a caso sulle macchine per scrivere, potrebbero riscrivere Shakespeare. Ma di sicuro non se ne accorgerebbero mai.
Cosa dire? Il fenomeno dei Wiki è considerato, negli ultimi tempi, estremamente importante. E' una di quelle utopie sociali che animano Internet e l'informatica quando queste vengono intese come uno strumento per la comunicazione tra le persone e per migliorare le capacità di conoscenza di tutti. E' l'evoluzione di un lungo percorso, che ha nel suo sfondo una linea positivistica: date la tecnologia al popolo, e il mondo sarà migliore.
Non è una cosa da sottovalutare, un argomento da buttare lì, distrattamente. Ci stanno dentro discorsi lunghissimi (...issimi, ...issimi) sulla conoscenza, l'ideologia, la cultura. Ma sono discorsi che non si possono fare, soprattutto per mancanza di capacità in chi scrive. Comunque, l'idea che un software (wiki) possa rivoluzionare il modo in cui si raccoglie il sapere (enciclopedia) senza quasi ulteriori ragionamenti, un po' mi fa specie...
Si tratta di Wikipedia, un'enciclopedia online "open knowledge", creata collaborativamente da volontari del sapere. Fuori dalle accademie e con una metodologia non verticalistica. Il fenomeno sta diventando molto significativo, non solo perché Wikipedia emerge come il vincitore di questa fase di consolidamento dell'organizzazione spontanea del sapere nella Rete, ma anche perché sempre più spesso sempre più persone la utilizzano come fonte (unica) di informazione. Anche giornalisti. Anche scrittori. Anche insegnanti.
Adesso arriva un articolo dell'ex direttore dell'Enciclopedia Britannica. Che rompe un po' le scatole perché dice: Wikipedia fa schifo, gli articoli sono scritti male, inaffidabili, erratici nel loro divenire: la conoscenza - quella vera - non si organizza così. La critica è forte. La tesi di fondo è che per fare il lavoro per bene ci vogliano i professionisti. Un milione di scimmie forse, picchiando a caso sulle macchine per scrivere, potrebbero riscrivere Shakespeare. Ma di sicuro non se ne accorgerebbero mai.
Cosa dire? Il fenomeno dei Wiki è considerato, negli ultimi tempi, estremamente importante. E' una di quelle utopie sociali che animano Internet e l'informatica quando queste vengono intese come uno strumento per la comunicazione tra le persone e per migliorare le capacità di conoscenza di tutti. E' l'evoluzione di un lungo percorso, che ha nel suo sfondo una linea positivistica: date la tecnologia al popolo, e il mondo sarà migliore.
Non è una cosa da sottovalutare, un argomento da buttare lì, distrattamente. Ci stanno dentro discorsi lunghissimi (...issimi, ...issimi) sulla conoscenza, l'ideologia, la cultura. Ma sono discorsi che non si possono fare, soprattutto per mancanza di capacità in chi scrive. Comunque, l'idea che un software (wiki) possa rivoluzionare il modo in cui si raccoglie il sapere (enciclopedia) senza quasi ulteriori ragionamenti, un po' mi fa specie...
16.11.04
Ecce blog
L'ARGUTO WITTGENSTEIN ha lanciato il sasso. Dice: i blogger italiani, nel campo del giornalismo, sono praticamente delle pippe. Non fanno opinione, non sono buon giornalismo né capaci di influenzare, fare politica: "Non esistono blogs - scrive Luca Sofri - in cui si coniughino una capacità giornalistica non dilettantesca, una conoscenza svelta e competente di internet e un’attenzione eclettica alle cose del mondo".
Concordare è facile. Mi permetto, tra le eccezioni che invece pare di poter notare, di segnalare LaVoce. Non esistendo una definizione canonica di blog io, più che "sito" o "rivista online", lo considero un blog corale. E' praticamente uno strumento attento di analisi economica e critica fatta da persone competenti (sono tutti economisti e giuristi) che - badate bene perché è questo il punto - hanno trovato nella rete e soprattutto nel minestrone di comunicazione orizzontale nata con i blog, lo strumento per nascere e crescere.
Non sono sicuro che dicano cose con le quali sono sempre in accordo (nonostante la stima per Tito Boeri, che dirige il gruppo), però la formula mi piace. Persone competenti, potenziali editorialisti (molti in effetti lo sono) e commentatori che hanno scelto la formula del blog - informazione gratuita, ricerca seria, taglio efficace, conoscenza degli strumenti informativi basati sulla rete - per comunicare. Insomma, hanno fatto quel che parecchi giornalisti e commentatori hanno fatto negli Stati Uniti. Si sono detti: i giornali e le televisioni non ci lasciano lo spazio che vorremmo? Ok, grazie tante, facciamo da soli. Secondo me funziona, anche se dovrebbero mettere qualche link in più verso la rete...
Cosa sia LaVoce lo spiegava (luglio 2003) meglio di me, comunque, l'allora direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco:
Lavoce.info si legge gratis, costa poco, ha finanziamenti minimi, trasparenti e pubblicati sul web. A mio parere è caso classico di un servizio il cui valore per la società non viene catturato dal mercato ma è importante. Un’esternalità positiva. Nel suo libro sulla Libertà (The future of freedom, Norton, 2003), Fareed Zakaria dedica grande attenzione a questo tipo di media: di alta qualità, sostenuti su base volontaria, destinati a pochi lettori, ma tuttavia essenziali nel gioco democratico. Grazie dunque a Francesco, a Tito e a tutti quelli che contribuiscono con passione e intelligenza. Quando leggiamo e riflettiamo, anche quando dissentiamo, hanno fatto un buon lavoro.
Concordare è facile. Mi permetto, tra le eccezioni che invece pare di poter notare, di segnalare LaVoce. Non esistendo una definizione canonica di blog io, più che "sito" o "rivista online", lo considero un blog corale. E' praticamente uno strumento attento di analisi economica e critica fatta da persone competenti (sono tutti economisti e giuristi) che - badate bene perché è questo il punto - hanno trovato nella rete e soprattutto nel minestrone di comunicazione orizzontale nata con i blog, lo strumento per nascere e crescere.
Non sono sicuro che dicano cose con le quali sono sempre in accordo (nonostante la stima per Tito Boeri, che dirige il gruppo), però la formula mi piace. Persone competenti, potenziali editorialisti (molti in effetti lo sono) e commentatori che hanno scelto la formula del blog - informazione gratuita, ricerca seria, taglio efficace, conoscenza degli strumenti informativi basati sulla rete - per comunicare. Insomma, hanno fatto quel che parecchi giornalisti e commentatori hanno fatto negli Stati Uniti. Si sono detti: i giornali e le televisioni non ci lasciano lo spazio che vorremmo? Ok, grazie tante, facciamo da soli. Secondo me funziona, anche se dovrebbero mettere qualche link in più verso la rete...
Cosa sia LaVoce lo spiegava (luglio 2003) meglio di me, comunque, l'allora direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco:
Lavoce.info si legge gratis, costa poco, ha finanziamenti minimi, trasparenti e pubblicati sul web. A mio parere è caso classico di un servizio il cui valore per la società non viene catturato dal mercato ma è importante. Un’esternalità positiva. Nel suo libro sulla Libertà (The future of freedom, Norton, 2003), Fareed Zakaria dedica grande attenzione a questo tipo di media: di alta qualità, sostenuti su base volontaria, destinati a pochi lettori, ma tuttavia essenziali nel gioco democratico. Grazie dunque a Francesco, a Tito e a tutti quelli che contribuiscono con passione e intelligenza. Quando leggiamo e riflettiamo, anche quando dissentiamo, hanno fatto un buon lavoro.
15.11.04
Monsieur, il suo software su misura è pronto
L'ALTRA SETTIMANA SONO stato dal mio sarto virtuale e ho preso il browser nuovo. Si tratta di Firefox, un modello gratuito che veste bene, evita i pop up, si fa personalizzare con facilità, è docile nel seguire i comandi e pure veloce nell'eseguirli.
Il mio sarto si chiama Open Source. In realtà è un'entità collettiva, un WuMing del codice, che lavora in allegro disordine ma adesso ha imparato a far le cose per benino. Altro che i soliti negozi di codice pret-à-porter. Questi dell'Atelier Open Source fanno robina fatta proprio con cura e passione, e soprattutto te la tagliano su misura.
Mi spiego meglio: ognuno di noi (intendo me che scrivo e voi che leggete) usa un computer. Facile, fin qui. Può essere un Mac o più probabilmente un Pc. I programmi per Mac non sempre si trovano sul Pc e viceversa, perché sono due sistemi diversi. Chiaro, no? Però è meno chiaro che, per esempio, due Pc possano essere diversi tra loro. Uno magari è un Pentium IV e l'altro un Centrino, oppure un Amd (mi riferisco nei primi due casi a processori Intel, nel secondo caso all'altro produttore di processori in competizione con la casa di Santa Clara), processori che appartengono a famiglie completamente differenti, sia per velocità che per modo in cui sono stati progettati.
Orbene, disse l'anziano professore calcando gli occhiali sul naso, due processori diversi funzionano in modo parzialmente diverso (altrimenti sarebbero uguali...). Non è solo una questione di velocità, ma anche di set di istruzioni, vale a dire di comandi che il processore è in grado di eseguire quando macina il codice del software.
Allora, come fa il software a funzionare alla stessa maniera su processori diversi? Semplice, viene compilato, cioè reso utilizzabile dal computer, usando una modalità che vada bene per tutti. Vale a dire quella modalità che tutti i Pc capiscono dai tempi (remoti) del 486. E questo taglia via un sacco di possibilità di miglioramento che il singolo computer potrebbe avere, se si sfruttassero le sue caratteristiche al meglio. Anche perché dopo il 486 ci sono state cinque generazioni di Pentium e saddio che cosa d'altro in casa Amd: qualche miglioramento l'avranno pur fatto, no?
Quindi, il mio sarto del mondo Open Source, anziché darmi il software già bell'e pronto, buono un po' per tutte le taglie (i magri e i bassi, gli altri e i grassi, i Pentium III e i Celeron) me lo fornisce in tagli di stoffa fina e mi dà le istruzioni per montarlo. Difficile? Mica tanto. Comunque, visto che poi i processori non è che sono milioni ma una ventina, c'è chi ha preparato già le compilazioni per ciascun tipo. In pratica, anziché scaricare la versione generica, si va a scaricare la propria.
In questo modo il browser viaggia veloce come una scheggia, sfruttando tutte le caratteristiche del processore, e veste bene, proprio su misura. Insomma, piace e si fa piacere.
Per inciso, questo è il motivo per cui Linux, oltre che più stabile è anche tendenzialmente più veloce di Windows: te lo puoi compilare su misura per il tuo processore anche quello, senza problemi...
Ora, siccome io uso il Mac e non il Pc, vi offro questi due link, uno per chi ha il G5 e uno per chi ha il G4, e poi fate voi. Scegliete se passare dalla sartoria oppure vestire un po' cafone, come fate di solito...
Il mio sarto si chiama Open Source. In realtà è un'entità collettiva, un WuMing del codice, che lavora in allegro disordine ma adesso ha imparato a far le cose per benino. Altro che i soliti negozi di codice pret-à-porter. Questi dell'Atelier Open Source fanno robina fatta proprio con cura e passione, e soprattutto te la tagliano su misura.
Mi spiego meglio: ognuno di noi (intendo me che scrivo e voi che leggete) usa un computer. Facile, fin qui. Può essere un Mac o più probabilmente un Pc. I programmi per Mac non sempre si trovano sul Pc e viceversa, perché sono due sistemi diversi. Chiaro, no? Però è meno chiaro che, per esempio, due Pc possano essere diversi tra loro. Uno magari è un Pentium IV e l'altro un Centrino, oppure un Amd (mi riferisco nei primi due casi a processori Intel, nel secondo caso all'altro produttore di processori in competizione con la casa di Santa Clara), processori che appartengono a famiglie completamente differenti, sia per velocità che per modo in cui sono stati progettati.
Orbene, disse l'anziano professore calcando gli occhiali sul naso, due processori diversi funzionano in modo parzialmente diverso (altrimenti sarebbero uguali...). Non è solo una questione di velocità, ma anche di set di istruzioni, vale a dire di comandi che il processore è in grado di eseguire quando macina il codice del software.
Allora, come fa il software a funzionare alla stessa maniera su processori diversi? Semplice, viene compilato, cioè reso utilizzabile dal computer, usando una modalità che vada bene per tutti. Vale a dire quella modalità che tutti i Pc capiscono dai tempi (remoti) del 486. E questo taglia via un sacco di possibilità di miglioramento che il singolo computer potrebbe avere, se si sfruttassero le sue caratteristiche al meglio. Anche perché dopo il 486 ci sono state cinque generazioni di Pentium e saddio che cosa d'altro in casa Amd: qualche miglioramento l'avranno pur fatto, no?
Quindi, il mio sarto del mondo Open Source, anziché darmi il software già bell'e pronto, buono un po' per tutte le taglie (i magri e i bassi, gli altri e i grassi, i Pentium III e i Celeron) me lo fornisce in tagli di stoffa fina e mi dà le istruzioni per montarlo. Difficile? Mica tanto. Comunque, visto che poi i processori non è che sono milioni ma una ventina, c'è chi ha preparato già le compilazioni per ciascun tipo. In pratica, anziché scaricare la versione generica, si va a scaricare la propria.
In questo modo il browser viaggia veloce come una scheggia, sfruttando tutte le caratteristiche del processore, e veste bene, proprio su misura. Insomma, piace e si fa piacere.
Per inciso, questo è il motivo per cui Linux, oltre che più stabile è anche tendenzialmente più veloce di Windows: te lo puoi compilare su misura per il tuo processore anche quello, senza problemi...
Ora, siccome io uso il Mac e non il Pc, vi offro questi due link, uno per chi ha il G5 e uno per chi ha il G4, e poi fate voi. Scegliete se passare dalla sartoria oppure vestire un po' cafone, come fate di solito...
New Kid in Town
A PARTIRE DAL prossimo dicembre (il 17, pare) spunta una nuova compagnia aerea low cost italiana: MyAir che propone voli da 1 centesimo di euro (tasse escluse) comunque con un tetto massimo di costo di 69,99 euro.
Se non ho capito male hanno una flotta tutta di Airbus A320-A319 e volano da Bergamo - Orio al Serio, Venezia e Catania per varie destinazioni italiane ed europee (tra le quali Brindisi, Napoli, Madrid, Barcellona).
Questo Posto invece annuncia che a fine mese va a Madrid con Iberia, per lavoro. Tre giorni "mordi-e-fuggi", tutte miglia sprecate...
Se non ho capito male hanno una flotta tutta di Airbus A320-A319 e volano da Bergamo - Orio al Serio, Venezia e Catania per varie destinazioni italiane ed europee (tra le quali Brindisi, Napoli, Madrid, Barcellona).
Questo Posto invece annuncia che a fine mese va a Madrid con Iberia, per lavoro. Tre giorni "mordi-e-fuggi", tutte miglia sprecate...
13.11.04
Only 4 Mac Users (astenersi perditempo e utenti Pc)
UN GRAN PEZZO di letteratura. Una lunga lettera, un momento di storia, un racconto appassionante che mi ha fatto ridere e piangere contemporaneamente. E' la storia vera in prima persona di cos'era Audion (uno dei software pionieri per ascoltare gli Mp3 poi messo fuori mercato da iTunes), di quel giorno che Steve Jobs ha risposto all'email e poi si sono anche incontrati, di come un'applicazione con i controfiocchi si sia fatta un nome e poi sia uscita silenziosamente dal mercato. Sì, perché anche i software migliori qualche volta se ne vanno in pensione, si mettono comodi sul dondolo e raccontano ai nipotini di quand'erano giovani e nelle loro vene scorreva fuoco...
12.11.04
Excuse me, are you a journalist?
IL VERO PROBLEMA - parliamoci chiaro - sono i giornalisti. Figure losche e prive di freni inibitori, che interpretano la loro ipotetica immagine di autonomi mediatori delle informazioni, di produttori di notizie, come una vacanza dalle convenzioni sociali. Quelli seri, che ardono del sacro fuoco della carriera e del mestiere, stanno cupi negli angoli a scrivere come dannati dio solo sa che cosa, perché dopo tre giorni praticamente hanno buttato giù sei capitoli di un libro ma poi sul giornale escono sessanta striminzite righe. Quelli tattici o strategici fanno un sacco di scena, gran turbinio di relazioni, aneddoti su quella volta a cena che Arafat (buonanima) gli ha passato la birretta mentre Sharon scaldava le salsicce sul barbecue, però come per miracolo dopo l'intervista one-to-one escono sempre fuori scazzati perché "il tipo non ha capito le domande, era rincoglionito, non rispondeva a tono, questi non sanno nulla, è uno scandalo, così non si può lavorare e dove diavolo sono i comunicati di oggi?"
Infine, e più che un paragrafo meriterebbero un libro a parte, ci sono i vecchi scazzati e scazzoni, quelli che pesano un quintale e tre quarti, che ormai hanno visto tutto, che se la camicia una volta al mese se la lavassero ci farebbero miglior figura, che ormai mi ricordo che l'Xml (o era C#?) l'ho visto nascere e gli ho insegnato io a dire "pio pio" quindi figuriamoci cazzo me ne frega a me di queste fregnacce. Sono quelli che se va bene, se non hanno bevuto troppo, se la sera prima hanno preso la pasticchina, se in camera passa una delle linee cosmiche di energia e si sono ricaricati, se non tira vento di scirocco che si sa che può far danni alle menti fragili, non fanno neanche troppo brutta figura. Ma se gli dice male, se gli salta la mosca al naso, se hanno la piega storta nell'imbottitura della seggiola, sono quelli che si alzano in piedi, fanno una sparata di mezz'ora perché il cervello ancora non gliel'ha detto che non sono più a San José, in California, alla conferenza sui router, ma a Barcellona, in Spagna, a quella sulla sicurezza. E che, comunque, al mondo frega un cazzo di quello che loro pensano, perché fondamentalmente dovrebbero informarsi e raccontare quel che succede, mica fare i consulenti aziendali. Anzi, i guru dei poveri, gli editorialisti de noartri.
Sono loro il vero terrore delle pierre.
Infine, e più che un paragrafo meriterebbero un libro a parte, ci sono i vecchi scazzati e scazzoni, quelli che pesano un quintale e tre quarti, che ormai hanno visto tutto, che se la camicia una volta al mese se la lavassero ci farebbero miglior figura, che ormai mi ricordo che l'Xml (o era C#?) l'ho visto nascere e gli ho insegnato io a dire "pio pio" quindi figuriamoci cazzo me ne frega a me di queste fregnacce. Sono quelli che se va bene, se non hanno bevuto troppo, se la sera prima hanno preso la pasticchina, se in camera passa una delle linee cosmiche di energia e si sono ricaricati, se non tira vento di scirocco che si sa che può far danni alle menti fragili, non fanno neanche troppo brutta figura. Ma se gli dice male, se gli salta la mosca al naso, se hanno la piega storta nell'imbottitura della seggiola, sono quelli che si alzano in piedi, fanno una sparata di mezz'ora perché il cervello ancora non gliel'ha detto che non sono più a San José, in California, alla conferenza sui router, ma a Barcellona, in Spagna, a quella sulla sicurezza. E che, comunque, al mondo frega un cazzo di quello che loro pensano, perché fondamentalmente dovrebbero informarsi e raccontare quel che succede, mica fare i consulenti aziendali. Anzi, i guru dei poveri, gli editorialisti de noartri.
Sono loro il vero terrore delle pierre.
Zitti, zitti, non fate rumore...
PARE, SEMBRA, SI dice che forse - ma ancora è prematuro, non stappate le bocce - i reality siano alla frutta, almeno negli Stati Uniti. Nielsen docet.
Fusse che non fusse la volta buona?
Fusse che non fusse la volta buona?
Oakland Bay Bridge
PROPRIO OGGI, NEL 1936, apriva "l'altro" ponte di San Francisco. Non il Golden Gate ma quello che collega la città con Oakland, detto "Bay Bridge" (ponte della baia). Nell'immagine qui sotto, ditemi se non somiglia a quell'altro, più famoso. La prima volta io, che sono anche daltonico e quindi non vedevo la mancanza del rosso sulla struttura, li ho confusi.
Portmanteau
IO MI EMOZIONO come un bambino quando incontro una parola nuova che non conosco. Per questo amo, ad esempio, i post di Personalità Confusa (l'avete letto l'ultimo del Papa? Che meraviglia...) o gli articoli di Indro Montanelli: entrambi (certo, su scale un po' diverse, ma si fa per parlare, no?) conoscono l'arte di inserire improvvisamente nel discorso fino a quel momento semplice, piano e lineare un termine antico, particolare, appartenente al linguaggio alto, colto. Fateci caso. E' una forma retorica della quale, se non si abusa, sono del tutto schiavo.
Per questo passo le giornate, anziché lavorando (che per un giornalista per altro è un'attività inconsueta, come sosteneva il predetto Montanelli), vagando per Internet alla ricerca di parole che non conosco e della loro storia. Vi prego, adesso non pensate subito ad avverbi di 38 sillabe, a polinomi linguistici appartenenti ai più improbabili ma prevedibili gerghi. Invece, cerco le parole come Diogene cercava l'Uomo, con la lanterna e lentamente, senza fretta, mirando alla genuinità.
Oggi sono incappato in portmanteau. In francese non esiste, anche se i termini che lo compongono derivano da quella lingua. Vuol dire "portare" e "mantella, cappotto", che per traslato si trasforma in quello che è il suo più antico significato: un tipo di valigia, particolarmente grande, di cuoio, a due elementi tenuti insieme da una cerniera.
Però, indica anche - e qui c'è lo stupore del bambino - quelle parole che nascono dalla fusione di due (raramente tre o più) termini. Un esempio? Portmanteau, ovviamente, ma anche "emoticon", mix di emotion e icon, freeware, da free e software, Internet (inter e networks), pixel (picture ed element), smog (smoke e fog), cyborg (cybernetic e organism), brunch (breakfast e lunch).
Il secondo traslato, però, si fa ancora più interessante. E' vero che le parole portmanteau sono state forgiate con lena e con dovizia da Lewis Carroll (nei suoi libri ci ha quasi scritto una lingua nuova, a suon di neologismi, a tal punto che proprio a lui dobbiamo la felice invenzione di questo nome). Ma è vero anche che il termine diventa il modo per coniare differenti strategie e pratiche lavorative o d'uso. Portmanteau è un film con episodi diversi fusi in un'unica cornice. Oppure portamanteau è l'autore di un libro scritto a più mani, siano esse esplicite (Luther Blisset oggi WuMing) che implicite (crederete mica che John Grisham se li scriva tutti da solo, i suoi legal thriller, vero?).
E ancora, di cose su portamanteau ce ne sono tante da scoprire: ho appena tolto il tappo al porto di Genova, un po' ci vuole prima che l'acqua esca tutta. Per esempio, prima che emerga che in francese si dice (nell'accezione linguistica) "mot-valise", secondo il traduttore di Lewis Carroll, cioè "parola-valigia".
C'è tempo per scoprire di più o confutare quanto scoperto (un privilegio garantito quando la fonte di conoscenza è Internet). Peccato solo che in me alberghi, oltre all'entusiasmo del bambino, anche la memoria di un pesce rosso. Il grazioso animale che nel tempo di una rivoluzione all'interno della sua boccia si è già dimenticato da dove è partito. Adieu, portmanteau, allora. E' stato bello conoscerti, anche se per poco. Domani non ricorderò più di aver scritto questo post e non riuscirò ad avere una conversazione brillante e intelligente agli aperitivi con il bel mondo milanese. Maledetta dislessia...
Ps:
Scriveva Lewis Carroll in Through the Looking-Glass:
'That's enough to begin with', Humpty Dumpty interrupted: 'there are plenty of hard words there. "Brillig" means four o'clock in the afternoon—the time when you begin broiling things for dinner.'
'That'll do very well', said Alice: 'and "slithy"?'
'Well, "slithy" means "lithe and slimy". "Lithe" is the same as "active". You see it's like a portmanteau—there are two meanings packed up into one word.'
'I see it now', Alice remarked thoughtfully: 'and what are "roves"?'
'Well, "totwes" are something like badgers—they're something like lizards—and they're something like cork screws.'
'They must be very curious looking creatures.'
'They are that', said Humpty Dumpty; 'also they make their nests under sun-dials - also they live on cheese.'
'To pyre" is to go round and round like a gyroscope. To "gamble" is to make holes like a gimlet.'
'And "the wabe" is the grass-plot round a sun-dial, I suppose?' said Alice, surprised at her own ingenuity.
'Of course it is. It's called "wabe" you know, because it goes a long way before it, and a long way behind it—'
'And a long way beyond it on each side', Alice added.
'Exactly so. Well then, "mimsy" is "flimsy and miserable" (there's another portmanteau for you). And a "borogrove" is a thin shabby-looking bird with its feathers sticking out all round—something like a live mop.'
Per questo passo le giornate, anziché lavorando (che per un giornalista per altro è un'attività inconsueta, come sosteneva il predetto Montanelli), vagando per Internet alla ricerca di parole che non conosco e della loro storia. Vi prego, adesso non pensate subito ad avverbi di 38 sillabe, a polinomi linguistici appartenenti ai più improbabili ma prevedibili gerghi. Invece, cerco le parole come Diogene cercava l'Uomo, con la lanterna e lentamente, senza fretta, mirando alla genuinità.
Oggi sono incappato in portmanteau. In francese non esiste, anche se i termini che lo compongono derivano da quella lingua. Vuol dire "portare" e "mantella, cappotto", che per traslato si trasforma in quello che è il suo più antico significato: un tipo di valigia, particolarmente grande, di cuoio, a due elementi tenuti insieme da una cerniera.
Però, indica anche - e qui c'è lo stupore del bambino - quelle parole che nascono dalla fusione di due (raramente tre o più) termini. Un esempio? Portmanteau, ovviamente, ma anche "emoticon", mix di emotion e icon, freeware, da free e software, Internet (inter e networks), pixel (picture ed element), smog (smoke e fog), cyborg (cybernetic e organism), brunch (breakfast e lunch).
Il secondo traslato, però, si fa ancora più interessante. E' vero che le parole portmanteau sono state forgiate con lena e con dovizia da Lewis Carroll (nei suoi libri ci ha quasi scritto una lingua nuova, a suon di neologismi, a tal punto che proprio a lui dobbiamo la felice invenzione di questo nome). Ma è vero anche che il termine diventa il modo per coniare differenti strategie e pratiche lavorative o d'uso. Portmanteau è un film con episodi diversi fusi in un'unica cornice. Oppure portamanteau è l'autore di un libro scritto a più mani, siano esse esplicite (Luther Blisset oggi WuMing) che implicite (crederete mica che John Grisham se li scriva tutti da solo, i suoi legal thriller, vero?).
E ancora, di cose su portamanteau ce ne sono tante da scoprire: ho appena tolto il tappo al porto di Genova, un po' ci vuole prima che l'acqua esca tutta. Per esempio, prima che emerga che in francese si dice (nell'accezione linguistica) "mot-valise", secondo il traduttore di Lewis Carroll, cioè "parola-valigia".
C'è tempo per scoprire di più o confutare quanto scoperto (un privilegio garantito quando la fonte di conoscenza è Internet). Peccato solo che in me alberghi, oltre all'entusiasmo del bambino, anche la memoria di un pesce rosso. Il grazioso animale che nel tempo di una rivoluzione all'interno della sua boccia si è già dimenticato da dove è partito. Adieu, portmanteau, allora. E' stato bello conoscerti, anche se per poco. Domani non ricorderò più di aver scritto questo post e non riuscirò ad avere una conversazione brillante e intelligente agli aperitivi con il bel mondo milanese. Maledetta dislessia...
Ps:
Scriveva Lewis Carroll in Through the Looking-Glass:
'That's enough to begin with', Humpty Dumpty interrupted: 'there are plenty of hard words there. "Brillig" means four o'clock in the afternoon—the time when you begin broiling things for dinner.'
'That'll do very well', said Alice: 'and "slithy"?'
'Well, "slithy" means "lithe and slimy". "Lithe" is the same as "active". You see it's like a portmanteau—there are two meanings packed up into one word.'
'I see it now', Alice remarked thoughtfully: 'and what are "roves"?'
'Well, "totwes" are something like badgers—they're something like lizards—and they're something like cork screws.'
'They must be very curious looking creatures.'
'They are that', said Humpty Dumpty; 'also they make their nests under sun-dials - also they live on cheese.'
'To pyre" is to go round and round like a gyroscope. To "gamble" is to make holes like a gimlet.'
'And "the wabe" is the grass-plot round a sun-dial, I suppose?' said Alice, surprised at her own ingenuity.
'Of course it is. It's called "wabe" you know, because it goes a long way before it, and a long way behind it—'
'And a long way beyond it on each side', Alice added.
'Exactly so. Well then, "mimsy" is "flimsy and miserable" (there's another portmanteau for you). And a "borogrove" is a thin shabby-looking bird with its feathers sticking out all round—something like a live mop.'
11.11.04
Li chiamavano "mobisodes"
LA MITOLOGICA SERIE 24, quella che si svolge nell'arco di ventiquattrore (ma noi la vediamo nell'arco di ventiquattro settimane) sbarca anche sul telefonino. Nuovo formato e nuova idea della Fox per dare fiato anche ai contenuti "broadcast" dei cellulari a larga banda negli Stati Uniti e lanciare la quarta stagione. Arriverà anche da noi. Per adesso, ne ho scritto qui. Ah, i geni della comunicazione, gli episodi nel formato "mobile", per telefonini, li hanno già battezzati mobisodes...
Su tutto questo, comunque, veglia attento Wittgenstein...
Su tutto questo, comunque, veglia attento Wittgenstein...
Quel sottile piacere che solo Barcellona...
LA CHIAMANO LA Milano di Spagna, perché a Barcellona, oltre a parlare catalano e ad esserci un gran mare, la gente lavora sodo. Certo, c'è Madrid, ci sono un sacco di altri posti, c'è persino Ibiza - da qualche parte nella penisola iberica - ma Barcellona, Barcellona...
Innanzitutto è terra incontaminata, perché Almodovar ancora non è andato lì a girarci dei film, a quanto mi risulta. Poi, perché somiglia un po' all'Italia degli anni Settanta, con i tassisti che hanno l'auto lercia e le macchine sfigate che si mescolano alle Mercedes da 120 mila euro. I viali son più larghi ma i tram sono brutti come quelli nostri, in compenso le sigarette costano 2,60 euro anziché 3,50. La sensazione, alla fine, è che sembra di stare più in un duty-free che non in una città. Sono piccole cose, ma alla lunga scopri che contano anche queste.
Le ragazze? Carine, alcune bellocce, altre (parecchie) da urlo. E soprattutto, si difendono bene quanto le italiane. L'architettura? Frutto di vari incidenti temporali, degni di un episodio di Star Trek o di qualche errore della matrice: Gaudì lo citano tutti, forse perché piace "La Sagrada Famìlia" edizione cattedrale incompiuta oppure quella di Alan Parsons Project su Cd e Dvd Emi. Io propendo per la seconda. In compenso, nei ristoranti quando ti siedi puoi parlare italiano, loro catalano, ed è come se all'improvviso ti rendessi conto che quel deficiente del tuo amico che ti diceva: "Vai tranquillo in Spagna, che con loro ci si capisce al volo, siamo tutti latini figli di Roma" è veramente un gran testa di pinolo.
Come suona il catalano? Qui i casi sono due: o masticano tutti tabacco oppure sono affetti da laringite cronica. Emettono suoni degni di un siderurgico che espettora prima di rientrare a casa per cena. La silicosi dev'essere un'abito mentale catalano. In confronto il bergamasco è la lingua romantica da usare con le donne.
Io a Barcellona ci sono andato per partecipare a una conferenza sulla sicurezza informatica. Tema avvincente (sigh). Ecco cos'ho capito:
L'orario di punta, come avrebbero dovuto spiegare agli americani della società che ha organizzato l'evento, è quella che hanno scelto per farci partire con il pullman la sera alla volta dei ristoranti. Semplice e banale, tanto che ci potevi rimettere l'orologio come facevano nel paesino dove passeggiava il pomeriggio Kant. E il traffico di Barcellona è uno stato della mente e dell'esperienza che chi non ha letto Sartre non può capire.
Ma, signore mie, la cosa bella, anzi bellissima, è un'altra. Lo stato mentale di quel circo ambulante che sono le conferenze internazionali di tecnologia. Un mix di giornalisti, clienti, analisti e personale d'azienda un po' eropeo e un po' statunitense. La fine della civiltà per come la conosciamo, l'inizio dell'abominio.
Innanzitutto perché gli americani hanno due obblighi nella loro vita professionale: essere di buon umore (comunicandotelo ogni trenta secondi) e indossare con orgoglio la sfigata camicia aziendale, quella unisex (nel senso che è di foggia maschile ma la danno anche alle donne) con lo stemmino della compagnia sopra il taschino e la scrittona dietro. Sembrano tanti meccanici della Ferrari che non hanno fatto in tempo a cambiarsi quando sono usciti dal circuito. Tristissimi.
Ma non sono loro i protagonisti. I veri protagonisti siamo noi, i giornalisti. Che, a differenza di analisti e clienti, ci possiamo vestire come ci pare. E quindi ci vestiamo male. Male? Alla cazzo di cane, se mi perdonate il francesismo. Perché molti colleghi o sembrano degli scherzi di natura, con il fisico da nanetto rachitico, oppure eccedono il quintale di un buon paio di terzi. Nel primo caso si mettono improbabili maglioni o giacche-maglione (non trovo altro modo per definirli, credo che unicamente i cardigan di Nino Manfredi avrebbero potuto rendere l'idea, se solo lui avesse sviluppato l'abitudine di dormire vestito), nel secondo sono in magliettina felici a meno cinque gradi. Tanto, l'adipe coibenta, quindi chissenefrega.
Perché, dite voi, a Barcellona ci sono meno cinque gradi? No, ovviamente, almeno non negli ultimi dodicimila anni, da quando cioè è finita l'ultima era glaciale. Ma siccome per uno statunitense medio i massimi segnali di lusso e comfort sono la presenza di quintali di ghiaccio nei secchielli e l'aria condizionata tarata per un pubblico di pinguini smanianti, capirete anche perché io tenga il cappotto e il cappello durante le sessioni plenarie. Tira una bora che neanche a Trieste, mentre loro stanno lì, stolidi, sotto gli elementi (artificiali) che imperversano.
Si dicono cose interessanti, almeno, a Barcellona? Non lo so. Vi dico quel che ho visto io, invece: l'aeroporto, il taxi, la camera d'albergo, la sala delle conferenze (sempre in albergo), la sala stampa (accanto a quella delle conferenze), il pullman, il ristorante... Però durante l'evento (sì, li chiamano così: eventi) di cose interessanti se ne dicono. Soprattutto quando c'è l'incontro con il mega-boss dell'azienda, un italiano di terza generazione in verità amabile, che ti riceve nella suite al diciottesimo piano per il tuo slot di intervista di 25 minuti, preceduti da una chiacchierata chill-out con la sua attempata segretaria personale sotto la scorta della pierre inglese. Pezzo di figliola, quest'ultima, di meno di trent'anni: lei sì che sarebbe da frequentare, se solo non avesse l'accento di un manovale di Liverpool e un'insana passione per le vacanze zaino in spalla nell'Outback australiano.
Di cose però se ne apprendono. Ad esempio, che loro, quelli dell'azienda, vivono tutti nell'area di Boston. Già te li vedi la sera andare nel barrettino di Cheers, dove dietro al bancone c'è Ted Danson, tutti conoscono il tuo nome e sei felice perché i tuoi problemi ce li hanno anche gli altri. Macché. Vilino residenziale nel New Hampshire e poca voglia di socializzare con i Latinos (che saremmo noi).
Sono strani questi americani, verrebbe da dire. Mi sono interrogato sull'argomento e ho cercato di osservare, appuntando qualche considerazione sul mio notes. Che ripropongo qui:
Gli americani, sul lavoro, sembrano sempre un po' bolliti. Ma hanno il dono della sintesi, frutto di anni di laboriosi uso del rasoio di Ockham, probabilmente. Quindi, niente da fare. Ti dicono proprio le cose essenziali. E l'approccio delle interviste alla "Ottoemezzo" di Giuliano Ferrara non paga, se le domande eccedono i quindici secondi. Però se ti sei preparato e chiedi cose che abbiano senso in maniera un po' originale, si sentono tanto gratificati. Perché hanno studiato il materiale del marketing su come si deve posizionare il prodotto, quello dei commerciali sulle debollezze e i punti di forza nel mercato, quello del finance su come la cosa possa o stia performando, quello della comunicazione su quale sia il taglio profilato del giornalista (tu), della sua testata, delle precedenti interviste fatte all'azienda e dell'output in termini di articoli positivi/negativi. Si sono anche allenati a dire cose incisive e chiare, che possano colpire e allo stesso tempo informare il giornalista medio e te in particolare. Quindi, loro si sono fatti il culo. E se percepiscono che te lo sei fatto anche tu e che l'incontro sta dando un po' di spettacolo, pensano che lo sforzo sia valso la pena.
Aggiungo, per completezza, che quando lavoravo a Firenze in una radio di sinistra la questura aveva un faldone meno pesante su di me, rispetto al dossier preparato dal loro ufficio di comunicazione. Son pronto a scommetterci.
L'approccio delle P.R., i piccoli rottweiller che ti seguono durante il viaggio - ma non chiamatele "escort" perché sennò sembra che di lavoro facciano le mignotte - differisce logicamente a seconda che siano italiane o straniere. Le prime, a parte alcune lodevoli eccezioni, sono giovani (tendenzialmente donne, ma anche uomini) con meno di trent'anni esaltate all'idea di portare il giornalista a giro. Oppure tristi figure con più di trent'anni scoglionate all'idea di portare il giornalista a giro. Quelli inglesi, tedeschi e francesi sono sempre sotto i trenta e relativamente esaltati di portare il giornalista a giro. Se sono donne, hanno di default la coscia lunga. Altri modelli fanno eccezione e meritano approfondimento.
In generale, con i pierre stranieri - soprattutto quelli americani - è praticamente impossibile fare un discorso che non sia legato al lavoro durante le ore diurne. Ma è anche corretto, dato che dopotutto siamo lì per lavorare, no?
Innanzitutto è terra incontaminata, perché Almodovar ancora non è andato lì a girarci dei film, a quanto mi risulta. Poi, perché somiglia un po' all'Italia degli anni Settanta, con i tassisti che hanno l'auto lercia e le macchine sfigate che si mescolano alle Mercedes da 120 mila euro. I viali son più larghi ma i tram sono brutti come quelli nostri, in compenso le sigarette costano 2,60 euro anziché 3,50. La sensazione, alla fine, è che sembra di stare più in un duty-free che non in una città. Sono piccole cose, ma alla lunga scopri che contano anche queste.
Le ragazze? Carine, alcune bellocce, altre (parecchie) da urlo. E soprattutto, si difendono bene quanto le italiane. L'architettura? Frutto di vari incidenti temporali, degni di un episodio di Star Trek o di qualche errore della matrice: Gaudì lo citano tutti, forse perché piace "La Sagrada Famìlia" edizione cattedrale incompiuta oppure quella di Alan Parsons Project su Cd e Dvd Emi. Io propendo per la seconda. In compenso, nei ristoranti quando ti siedi puoi parlare italiano, loro catalano, ed è come se all'improvviso ti rendessi conto che quel deficiente del tuo amico che ti diceva: "Vai tranquillo in Spagna, che con loro ci si capisce al volo, siamo tutti latini figli di Roma" è veramente un gran testa di pinolo.
Come suona il catalano? Qui i casi sono due: o masticano tutti tabacco oppure sono affetti da laringite cronica. Emettono suoni degni di un siderurgico che espettora prima di rientrare a casa per cena. La silicosi dev'essere un'abito mentale catalano. In confronto il bergamasco è la lingua romantica da usare con le donne.
Io a Barcellona ci sono andato per partecipare a una conferenza sulla sicurezza informatica. Tema avvincente (sigh). Ecco cos'ho capito:
L'orario di punta, come avrebbero dovuto spiegare agli americani della società che ha organizzato l'evento, è quella che hanno scelto per farci partire con il pullman la sera alla volta dei ristoranti. Semplice e banale, tanto che ci potevi rimettere l'orologio come facevano nel paesino dove passeggiava il pomeriggio Kant. E il traffico di Barcellona è uno stato della mente e dell'esperienza che chi non ha letto Sartre non può capire.
Ma, signore mie, la cosa bella, anzi bellissima, è un'altra. Lo stato mentale di quel circo ambulante che sono le conferenze internazionali di tecnologia. Un mix di giornalisti, clienti, analisti e personale d'azienda un po' eropeo e un po' statunitense. La fine della civiltà per come la conosciamo, l'inizio dell'abominio.
Innanzitutto perché gli americani hanno due obblighi nella loro vita professionale: essere di buon umore (comunicandotelo ogni trenta secondi) e indossare con orgoglio la sfigata camicia aziendale, quella unisex (nel senso che è di foggia maschile ma la danno anche alle donne) con lo stemmino della compagnia sopra il taschino e la scrittona dietro. Sembrano tanti meccanici della Ferrari che non hanno fatto in tempo a cambiarsi quando sono usciti dal circuito. Tristissimi.
Ma non sono loro i protagonisti. I veri protagonisti siamo noi, i giornalisti. Che, a differenza di analisti e clienti, ci possiamo vestire come ci pare. E quindi ci vestiamo male. Male? Alla cazzo di cane, se mi perdonate il francesismo. Perché molti colleghi o sembrano degli scherzi di natura, con il fisico da nanetto rachitico, oppure eccedono il quintale di un buon paio di terzi. Nel primo caso si mettono improbabili maglioni o giacche-maglione (non trovo altro modo per definirli, credo che unicamente i cardigan di Nino Manfredi avrebbero potuto rendere l'idea, se solo lui avesse sviluppato l'abitudine di dormire vestito), nel secondo sono in magliettina felici a meno cinque gradi. Tanto, l'adipe coibenta, quindi chissenefrega.
Perché, dite voi, a Barcellona ci sono meno cinque gradi? No, ovviamente, almeno non negli ultimi dodicimila anni, da quando cioè è finita l'ultima era glaciale. Ma siccome per uno statunitense medio i massimi segnali di lusso e comfort sono la presenza di quintali di ghiaccio nei secchielli e l'aria condizionata tarata per un pubblico di pinguini smanianti, capirete anche perché io tenga il cappotto e il cappello durante le sessioni plenarie. Tira una bora che neanche a Trieste, mentre loro stanno lì, stolidi, sotto gli elementi (artificiali) che imperversano.
Si dicono cose interessanti, almeno, a Barcellona? Non lo so. Vi dico quel che ho visto io, invece: l'aeroporto, il taxi, la camera d'albergo, la sala delle conferenze (sempre in albergo), la sala stampa (accanto a quella delle conferenze), il pullman, il ristorante... Però durante l'evento (sì, li chiamano così: eventi) di cose interessanti se ne dicono. Soprattutto quando c'è l'incontro con il mega-boss dell'azienda, un italiano di terza generazione in verità amabile, che ti riceve nella suite al diciottesimo piano per il tuo slot di intervista di 25 minuti, preceduti da una chiacchierata chill-out con la sua attempata segretaria personale sotto la scorta della pierre inglese. Pezzo di figliola, quest'ultima, di meno di trent'anni: lei sì che sarebbe da frequentare, se solo non avesse l'accento di un manovale di Liverpool e un'insana passione per le vacanze zaino in spalla nell'Outback australiano.
Di cose però se ne apprendono. Ad esempio, che loro, quelli dell'azienda, vivono tutti nell'area di Boston. Già te li vedi la sera andare nel barrettino di Cheers, dove dietro al bancone c'è Ted Danson, tutti conoscono il tuo nome e sei felice perché i tuoi problemi ce li hanno anche gli altri. Macché. Vilino residenziale nel New Hampshire e poca voglia di socializzare con i Latinos (che saremmo noi).
Sono strani questi americani, verrebbe da dire. Mi sono interrogato sull'argomento e ho cercato di osservare, appuntando qualche considerazione sul mio notes. Che ripropongo qui:
Gli americani, sul lavoro, sembrano sempre un po' bolliti. Ma hanno il dono della sintesi, frutto di anni di laboriosi uso del rasoio di Ockham, probabilmente. Quindi, niente da fare. Ti dicono proprio le cose essenziali. E l'approccio delle interviste alla "Ottoemezzo" di Giuliano Ferrara non paga, se le domande eccedono i quindici secondi. Però se ti sei preparato e chiedi cose che abbiano senso in maniera un po' originale, si sentono tanto gratificati. Perché hanno studiato il materiale del marketing su come si deve posizionare il prodotto, quello dei commerciali sulle debollezze e i punti di forza nel mercato, quello del finance su come la cosa possa o stia performando, quello della comunicazione su quale sia il taglio profilato del giornalista (tu), della sua testata, delle precedenti interviste fatte all'azienda e dell'output in termini di articoli positivi/negativi. Si sono anche allenati a dire cose incisive e chiare, che possano colpire e allo stesso tempo informare il giornalista medio e te in particolare. Quindi, loro si sono fatti il culo. E se percepiscono che te lo sei fatto anche tu e che l'incontro sta dando un po' di spettacolo, pensano che lo sforzo sia valso la pena.
Aggiungo, per completezza, che quando lavoravo a Firenze in una radio di sinistra la questura aveva un faldone meno pesante su di me, rispetto al dossier preparato dal loro ufficio di comunicazione. Son pronto a scommetterci.
L'approccio delle P.R., i piccoli rottweiller che ti seguono durante il viaggio - ma non chiamatele "escort" perché sennò sembra che di lavoro facciano le mignotte - differisce logicamente a seconda che siano italiane o straniere. Le prime, a parte alcune lodevoli eccezioni, sono giovani (tendenzialmente donne, ma anche uomini) con meno di trent'anni esaltate all'idea di portare il giornalista a giro. Oppure tristi figure con più di trent'anni scoglionate all'idea di portare il giornalista a giro. Quelli inglesi, tedeschi e francesi sono sempre sotto i trenta e relativamente esaltati di portare il giornalista a giro. Se sono donne, hanno di default la coscia lunga. Altri modelli fanno eccezione e meritano approfondimento.
In generale, con i pierre stranieri - soprattutto quelli americani - è praticamente impossibile fare un discorso che non sia legato al lavoro durante le ore diurne. Ma è anche corretto, dato che dopotutto siamo lì per lavorare, no?
Il frigorifero di Einstein
PROPRIO OGGI, NEL 1930, Albert Einstein (universalmente noto per la teoria della relatività) e Leo Szilard, suo ex studente, brevettarono negli Stati Uniti un modello di frigorifero definito "il frigorifero di Einstein".
Non solo l'oggetto è tutt'ora innovativo tecnologicamente - si basa infatti su un ciclo di raffreddamento basato su ammoniaca, butano e acqua, ottenuto senza parti in movimento, partendo dalla sola introduzione di calore, molto affidabile e poco costoso - ma un altro punto interessante della storia è che Einstein utilizzò le conoscenze (accumulate negli anni passati a lavorare all'ufficio svizzero dei brevetti) per registrare l'invenzione in tutto il mondo allo scopo di far guadagnare un po' di soldi al suo ex studente. Il quale, in effetti, per anni ebbe una rendita consistente grazie all'opera del suo ex professore.
Il frigorifero di Einstein è commercializzato ancora oggi dalla svedese Electrolux, attraverso il marchio Dometic.
Non solo l'oggetto è tutt'ora innovativo tecnologicamente - si basa infatti su un ciclo di raffreddamento basato su ammoniaca, butano e acqua, ottenuto senza parti in movimento, partendo dalla sola introduzione di calore, molto affidabile e poco costoso - ma un altro punto interessante della storia è che Einstein utilizzò le conoscenze (accumulate negli anni passati a lavorare all'ufficio svizzero dei brevetti) per registrare l'invenzione in tutto il mondo allo scopo di far guadagnare un po' di soldi al suo ex studente. Il quale, in effetti, per anni ebbe una rendita consistente grazie all'opera del suo ex professore.
Il frigorifero di Einstein è commercializzato ancora oggi dalla svedese Electrolux, attraverso il marchio Dometic.
10.11.04
Doctor Livingstone, I presume
PROPRIO OGGI, NEL 1871, vagando dalle parti del lago Tanganica, in quel dell'odierna Tanzania, Sir Henry Morton Stanley - famoso giornalista ed esploratore - incontrò David Livingstone, missionario ed esploratore scozzese. Era stato l'editore del New York Herald, James Gordon Bennet, Jr, a dare incarico - senza badare a spese - a Stanley di ritrovare il disperso.
In quell'occasione, dopo mesi di ricerche e numerose traversie, Stanley fece onore alle sue origini britanniche (e per questo, nonostante si fosse trasferito negli Stati Uniti, ottenne moralmente il cavalierato) presentandosi con flemma anglosassone a Livingstone con il famoso: "Doctor Livingstone, I presume".
Da notare che Stanley tenne compagnia per un annetto al missionario, continuando a girellare nell'area del lago Tanganica, e poi rientrò negli Usa, lasciando Livingstone a vagare per l'Africa, cercando le sorgenti del Nilo (come avevano fatto anche Richard Francis Burton, Samuel Baker e John Hanning Spaeke, proponendo la tesi poi rivelatasi corretta ma all'epoca molto dibattuta che il fiume originasse dai laghi Albert e Victoria) fino a che la malaria non ebbe ragione di lui nel 1873. La salma, portata a spalla per migliaia di chilometri e poi traslata con una nave, venne seppellita nell'abbazia di Westmister.
Stanley, invece, salvò anche Emin Pasha, cercò le sorgenti del fiume Congo e già che c'era aiutò anche il tiranno del Congo a compiere i suoi terribili misfatti, tornò in definitivamente Europa dove sposò l'attrice gallese Dorothy Tennant, divenne parlamentare nell'ultimo quinquennio del diciannovesimo secolo e si spense, si crede serenamente, il 10 maggio del 1904 a Londra, all'età di 63 anni.
In quell'occasione, dopo mesi di ricerche e numerose traversie, Stanley fece onore alle sue origini britanniche (e per questo, nonostante si fosse trasferito negli Stati Uniti, ottenne moralmente il cavalierato) presentandosi con flemma anglosassone a Livingstone con il famoso: "Doctor Livingstone, I presume".
A sinistra, Stanley, a destra Livingstone
Da notare che Stanley tenne compagnia per un annetto al missionario, continuando a girellare nell'area del lago Tanganica, e poi rientrò negli Usa, lasciando Livingstone a vagare per l'Africa, cercando le sorgenti del Nilo (come avevano fatto anche Richard Francis Burton, Samuel Baker e John Hanning Spaeke, proponendo la tesi poi rivelatasi corretta ma all'epoca molto dibattuta che il fiume originasse dai laghi Albert e Victoria) fino a che la malaria non ebbe ragione di lui nel 1873. La salma, portata a spalla per migliaia di chilometri e poi traslata con una nave, venne seppellita nell'abbazia di Westmister.
Stanley, invece, salvò anche Emin Pasha, cercò le sorgenti del fiume Congo e già che c'era aiutò anche il tiranno del Congo a compiere i suoi terribili misfatti, tornò in definitivamente Europa dove sposò l'attrice gallese Dorothy Tennant, divenne parlamentare nell'ultimo quinquennio del diciannovesimo secolo e si spense, si crede serenamente, il 10 maggio del 1904 a Londra, all'età di 63 anni.
9.11.04
Lettera a una pierre non ancora nata
MIA CARA, FORSE un giorno ci incontreremo. Per adesso, vorrei solo raccontarti qualcosa del mondo nel quale sceglierai di vivere: quello delle pierre. Un mondo nel quale sarà dura entrare ma in cui, se sei veramente sfortunata, potresti trovarti davvero.
Le pierre, devi sapere, sono piccole e fragili creature. Vengono scelte con un casting, detto colloquio di lavoro, da alcune megere - talune le chiamano mammane - che gestiscono l'agenzia di pubbliche relazioni. Delle candidate le mammane misurano con occhio clinico la lunghezza del garrese e le rotondità delle forme, perché sono donne di mondo e conoscono sia la stampa che i manager delle aziende che richiederanno i loro servigi. Invece, le aspiranti pierre affrontano il colloquio con lo spirito delle aspiranti vestali del tempio di Giocasta perché credono che stia per iniziare la fase mistica e sacerdotale della loro vita. Quanto si sbagliano, mia cara, quanto si sbagliano.
Le pierre guadagnano quanto potrebbe guadagnare uno stagista dell'Atm, se i tram li guidassero gli stagisti, e devono anche pagarsi da sole il "tailleurino scuro" e "l'abitino giusto" per la serata. Quello con il pantalone nero, la camicetta chiara, la sciarpa color pastello e le scarpine leggere perché nel trolley non ci si può mettere tropa roba. Tutto questo succede perché le pierre coltivavano un sogno nel loro piccolo cuore di studentesse di scienze della comunicazione. Volevano lavorare nell'ambiente fighissimo e shopping in rosa alla Bridget Jones, organizzando scoppiettanti feste chiamate conferenze, stampa sperando che tizi come Hugh Grant le notino e se le portino a letto. Pardon, le sposino.
Invece, le hanno subito messe alla catena, che le mammane chiamano ruolo "junior", a far rassegne stampa e tradurre comunicati dall'inglese. Hanno anche riletto shopping in rosa in lingua originale per vedere di migliorare la performance nell'idioma della perfida Albione, ma non ci hanno capito molto (strano, perché l'avevano già letto, ma certi libri si sa che passano via veloci e non lasciano poi tanto il segno), e si sono convinte che l'unica cosa intelligente che potevano fare era aprire un blog. Tante giovani pierre, avevano letto su Grazia, lo fanno.
Ma non è successo, perché in realtà le pierre, a parte il desiderio mai confessato di possedere Hugh Grant, in realtà sono il corpo speciale delle impiegate modello. Sono le paracadutiste dei lavori di segreteria, i marines della comunicazione, i Navy Seals del terziario. Così, vittime del genio dell'ottimizzazione, quelle che non sono state brutalmente licenziate perché sorprese a tenere un blog hanno lentamente salito i gradini della via crucis professionale, conquistandosi il diritto ad interagire di persona con i giornalisti.
Ok - si sono dette la prima volta che hanno incontrato i temuti dei della comunicazione pret-à-porter - questi si vestono come idioti e non ce n'è uno che somigli a Hugh Grant. Perciò, lisciandosi un po' nervosamente la gonna plissettata, hanno preso l'appunto mentale di non esagerare con i vestiti per non far fare la figuraccia ai giornalisti (care, piccole, idealiste e materne pierre). Poi si sono lette tutto d'un fiato quattro capitoli di Shopping in New York nell'edizione francese. Per prepararsi al primo viaggio di lavoro, of course. Destinazione, inutile dirlo, Parigi.
Era il sogno di una vita, il posto dove andare per la prima volta con l'uomo giusto, quello che ti sorprende e ti offre un week-end nella Ville Lumiére, chiamandolo fin-de-la-semàn perché è forse anche un po' più fico di Hugh Grant, con quel pizzetto sbarazzino. Invece, si sono presentati all'area imbarchi di Malpensa tre tizi - i giornalisti da portare alla conferenza - che sono roba da mettersi subito a piangere. La pierre ha fatto buon viso a cattivo gioco (la nonna sarebbe stata orgogliosa di lei e le avrebbe anche comprato quel dolcetto che da bambine le piaceva tanto) e all'improvviso pareva stesse di nuovo filando tutto liscio. Tutti avevano il biglietto aereo e la carta d'identità, in albergo la prenotazione era a posto, le camere decenti, la cena serena - anche se tutti stavano lì un po' rigidi - e dopo un bicchierino al bar da mettere in nota spese, tutti a nanna presto.
Poi, la conferenza stampa in un salone bruttissimo, a cinque gradi sotto zero di un non meglio identificato "centro convegni" di una sudicia Parigi invernale. Lei è stata tormentata fin dalla porta dell'hotel dalla pioggia, che le ha già inzaccherato la gonna e infradiciato i piedi dentro le scarpette. Nella calca di giornalisti di almeno ventotto nazionalità diverse, ognuno scortato da una selezionata pierre dell'agenzia della sua country, è successo il patatrac. Ma la cosa grave è che è successo proprio sotto gli occhi di un manipolo di stronzette dell'agenzia interna, la casa madre internazionale dell'agenzia italiana della piccola pierre.
Uno dei tre deficienti, tizi che la pierre all'improvviso ha iniziato a odiare in maniera viscerale, si è alzato e ha fatto una domanda che in realtà era una filippica, una sparata assolutamente fuori luogo, in un inglese improvvisato, senza neanche presentarsi. Riuscendo così a dimostrare di non aver capito niente e neanche di aver letto i comunicati che lei aveva tradotto la sera prima sul portatile dell'agenzia stampandoli alle sette di mattina giù al centro stampa dell'hotel. Il silenzio e le occhiate gelide delle stronzette dell'agenzia interna le hanno tolto almeno un battito cardiaco ogni tre sotto il golfino blu scuro e la giacchetta aggiustata per stare bene sulla gonna plissettata. Altre scene minori di panico durante le interviste one-to-one (possibile che gli dei della comunicazione, i giornalisti, possano essere tanto bestie, si chiedeva con gli occhi bassi durante lo stillicidio di domande fuori luogo e sbiascicate) e la pierre è tornata dal suo primo viaggio agghiacciata e traumatizzata. Dopo, non sarà più la stessa. E, soprattutto, non si fiderà mai più di un giornalista.
Anche se, bisogna ammetterlo, a furia di leggere i romanzi della serie shopping in vari colori e in varie città, e sarà un po' perché al posto di Hugh Grant ha trovato questo tizio un po' strano che studia ancora economia e commercio ma quando si vedono a cena (paga lei, ha avuto l'aumento di 36 euro al mese), le cose sono meno tristi e quindi il suo lato romantico ha ripreso quota. Insomma, se il giornalista che non aveva mai incontrato prima invece compare come per incanto con la barba fatta ed è appena passabile, si veste come i suoi vecchi compagni di scuola, magari come quello alto e simpatico che un po' le piaceva e giocava tanto bene a pallone, lei quasi quasi si lascia un po' andare e si fida.
Mal gliene incoglie. Volete indovinare chi sarà il prossimo, a Barcellona o a Berlino, a Londra o a New York, ad alzarsi e fare una clamorosa sparata, travestita da domanda, totalmente fuori luogo e in un inglese improvvisamente abborracciato? Dimostrando non solo di non aver capito un tubo di quello di cui si sta parlando, ma soprattutto che la selezione fatta dall'agenzia locale e quindi, in ultima analisi, dalla povera pierre, era pessima secondo l'inflessibile metro di valutazione delle efficientissime e stronzissime replicanti dell'agenzia interna.
E' dura la vita delle pierre, sono creature fragili, idealiste, andrebbero tutelate. Ma tu, cara, se lo vuoi, puoi ancora salvarti. Iscriviti a chimica, non a scienze della comunicazione. Da quelle parti di Hugh Grant non ne passano, è vero, e la matematica è una gran palla (anche se a scuola ti veniva bene). Però sotto il camice di laboratorio puoi tenere gonne e golfini di tutti i tipi e non si sciupano neanche. Il camice, infatti, è un po' largo e viene giù dritto, senza neppure segnare troppo le forme. Poi chissà, mio cugino ha studiato proprio chimica e lui è un bel figliolo, alto, moro, col pizzetto e i capelli riccioli. Ha vent'anni, gioca a basket e quando va al cinema con una ragazza paga sempre lui. O almeno, così mi dice e credo di potermi fidare. Fidati anche tu. Non è mai stato a Parigi e se dovesse capitare ti garantisco che glielo dico io di invitarti per un fin-de-la-semàn dai i cugini d'Oltralpe. Dai, non lasciarti tentare dai vari Shopping, ce la puoi fare...
Le pierre, devi sapere, sono piccole e fragili creature. Vengono scelte con un casting, detto colloquio di lavoro, da alcune megere - talune le chiamano mammane - che gestiscono l'agenzia di pubbliche relazioni. Delle candidate le mammane misurano con occhio clinico la lunghezza del garrese e le rotondità delle forme, perché sono donne di mondo e conoscono sia la stampa che i manager delle aziende che richiederanno i loro servigi. Invece, le aspiranti pierre affrontano il colloquio con lo spirito delle aspiranti vestali del tempio di Giocasta perché credono che stia per iniziare la fase mistica e sacerdotale della loro vita. Quanto si sbagliano, mia cara, quanto si sbagliano.
Le pierre guadagnano quanto potrebbe guadagnare uno stagista dell'Atm, se i tram li guidassero gli stagisti, e devono anche pagarsi da sole il "tailleurino scuro" e "l'abitino giusto" per la serata. Quello con il pantalone nero, la camicetta chiara, la sciarpa color pastello e le scarpine leggere perché nel trolley non ci si può mettere tropa roba. Tutto questo succede perché le pierre coltivavano un sogno nel loro piccolo cuore di studentesse di scienze della comunicazione. Volevano lavorare nell'ambiente fighissimo e shopping in rosa alla Bridget Jones, organizzando scoppiettanti feste chiamate conferenze, stampa sperando che tizi come Hugh Grant le notino e se le portino a letto. Pardon, le sposino.
Invece, le hanno subito messe alla catena, che le mammane chiamano ruolo "junior", a far rassegne stampa e tradurre comunicati dall'inglese. Hanno anche riletto shopping in rosa in lingua originale per vedere di migliorare la performance nell'idioma della perfida Albione, ma non ci hanno capito molto (strano, perché l'avevano già letto, ma certi libri si sa che passano via veloci e non lasciano poi tanto il segno), e si sono convinte che l'unica cosa intelligente che potevano fare era aprire un blog. Tante giovani pierre, avevano letto su Grazia, lo fanno.
Ma non è successo, perché in realtà le pierre, a parte il desiderio mai confessato di possedere Hugh Grant, in realtà sono il corpo speciale delle impiegate modello. Sono le paracadutiste dei lavori di segreteria, i marines della comunicazione, i Navy Seals del terziario. Così, vittime del genio dell'ottimizzazione, quelle che non sono state brutalmente licenziate perché sorprese a tenere un blog hanno lentamente salito i gradini della via crucis professionale, conquistandosi il diritto ad interagire di persona con i giornalisti.
Ok - si sono dette la prima volta che hanno incontrato i temuti dei della comunicazione pret-à-porter - questi si vestono come idioti e non ce n'è uno che somigli a Hugh Grant. Perciò, lisciandosi un po' nervosamente la gonna plissettata, hanno preso l'appunto mentale di non esagerare con i vestiti per non far fare la figuraccia ai giornalisti (care, piccole, idealiste e materne pierre). Poi si sono lette tutto d'un fiato quattro capitoli di Shopping in New York nell'edizione francese. Per prepararsi al primo viaggio di lavoro, of course. Destinazione, inutile dirlo, Parigi.
Era il sogno di una vita, il posto dove andare per la prima volta con l'uomo giusto, quello che ti sorprende e ti offre un week-end nella Ville Lumiére, chiamandolo fin-de-la-semàn perché è forse anche un po' più fico di Hugh Grant, con quel pizzetto sbarazzino. Invece, si sono presentati all'area imbarchi di Malpensa tre tizi - i giornalisti da portare alla conferenza - che sono roba da mettersi subito a piangere. La pierre ha fatto buon viso a cattivo gioco (la nonna sarebbe stata orgogliosa di lei e le avrebbe anche comprato quel dolcetto che da bambine le piaceva tanto) e all'improvviso pareva stesse di nuovo filando tutto liscio. Tutti avevano il biglietto aereo e la carta d'identità, in albergo la prenotazione era a posto, le camere decenti, la cena serena - anche se tutti stavano lì un po' rigidi - e dopo un bicchierino al bar da mettere in nota spese, tutti a nanna presto.
Poi, la conferenza stampa in un salone bruttissimo, a cinque gradi sotto zero di un non meglio identificato "centro convegni" di una sudicia Parigi invernale. Lei è stata tormentata fin dalla porta dell'hotel dalla pioggia, che le ha già inzaccherato la gonna e infradiciato i piedi dentro le scarpette. Nella calca di giornalisti di almeno ventotto nazionalità diverse, ognuno scortato da una selezionata pierre dell'agenzia della sua country, è successo il patatrac. Ma la cosa grave è che è successo proprio sotto gli occhi di un manipolo di stronzette dell'agenzia interna, la casa madre internazionale dell'agenzia italiana della piccola pierre.
Uno dei tre deficienti, tizi che la pierre all'improvviso ha iniziato a odiare in maniera viscerale, si è alzato e ha fatto una domanda che in realtà era una filippica, una sparata assolutamente fuori luogo, in un inglese improvvisato, senza neanche presentarsi. Riuscendo così a dimostrare di non aver capito niente e neanche di aver letto i comunicati che lei aveva tradotto la sera prima sul portatile dell'agenzia stampandoli alle sette di mattina giù al centro stampa dell'hotel. Il silenzio e le occhiate gelide delle stronzette dell'agenzia interna le hanno tolto almeno un battito cardiaco ogni tre sotto il golfino blu scuro e la giacchetta aggiustata per stare bene sulla gonna plissettata. Altre scene minori di panico durante le interviste one-to-one (possibile che gli dei della comunicazione, i giornalisti, possano essere tanto bestie, si chiedeva con gli occhi bassi durante lo stillicidio di domande fuori luogo e sbiascicate) e la pierre è tornata dal suo primo viaggio agghiacciata e traumatizzata. Dopo, non sarà più la stessa. E, soprattutto, non si fiderà mai più di un giornalista.
Anche se, bisogna ammetterlo, a furia di leggere i romanzi della serie shopping in vari colori e in varie città, e sarà un po' perché al posto di Hugh Grant ha trovato questo tizio un po' strano che studia ancora economia e commercio ma quando si vedono a cena (paga lei, ha avuto l'aumento di 36 euro al mese), le cose sono meno tristi e quindi il suo lato romantico ha ripreso quota. Insomma, se il giornalista che non aveva mai incontrato prima invece compare come per incanto con la barba fatta ed è appena passabile, si veste come i suoi vecchi compagni di scuola, magari come quello alto e simpatico che un po' le piaceva e giocava tanto bene a pallone, lei quasi quasi si lascia un po' andare e si fida.
Mal gliene incoglie. Volete indovinare chi sarà il prossimo, a Barcellona o a Berlino, a Londra o a New York, ad alzarsi e fare una clamorosa sparata, travestita da domanda, totalmente fuori luogo e in un inglese improvvisamente abborracciato? Dimostrando non solo di non aver capito un tubo di quello di cui si sta parlando, ma soprattutto che la selezione fatta dall'agenzia locale e quindi, in ultima analisi, dalla povera pierre, era pessima secondo l'inflessibile metro di valutazione delle efficientissime e stronzissime replicanti dell'agenzia interna.
E' dura la vita delle pierre, sono creature fragili, idealiste, andrebbero tutelate. Ma tu, cara, se lo vuoi, puoi ancora salvarti. Iscriviti a chimica, non a scienze della comunicazione. Da quelle parti di Hugh Grant non ne passano, è vero, e la matematica è una gran palla (anche se a scuola ti veniva bene). Però sotto il camice di laboratorio puoi tenere gonne e golfini di tutti i tipi e non si sciupano neanche. Il camice, infatti, è un po' largo e viene giù dritto, senza neppure segnare troppo le forme. Poi chissà, mio cugino ha studiato proprio chimica e lui è un bel figliolo, alto, moro, col pizzetto e i capelli riccioli. Ha vent'anni, gioca a basket e quando va al cinema con una ragazza paga sempre lui. O almeno, così mi dice e credo di potermi fidare. Fidati anche tu. Non è mai stato a Parigi e se dovesse capitare ti garantisco che glielo dico io di invitarti per un fin-de-la-semàn dai i cugini d'Oltralpe. Dai, non lasciarti tentare dai vari Shopping, ce la puoi fare...
7.11.04
Gitex, lo Smau dei beduini, lo show del futuro e il mio divano
ALCUNE SETTIMANE FA, se ricordate, sono andato a Dubai per tre o quattro giorni. I ricordi di quel viaggio stanno per fortuna scemando, quindi posso finalmente scrivere quelle cose che non ho più lucidamente in testa senza timore di cadere in contraddizione. Logico, no?
La prima cosa che vorrei dire è che i locali in cui i ricchi manager vanno trovando compagnie femminili sono una gran cosa. Ti riempiono gli occhi. Questo è l'effetto che ha avuto, perlomeno, la visita serale con una sparuta pattuglia di genovesi alla parte "sociale" di un grande albergo e trovando, praticamente in un sottoscala foderato di marmo, il famigerato "locale notturno" che alle due si popola di vita galeotta. Legni, specchi, ori e arabeschi (siamo dopotutto nel regno degli sceicchi, no?). E la vita femminile mercenaria, che lì alligna, in tutta la sua fresca e giovane naturalezza coperta di Chanel, colori scuri e scarpe lunghitaccodotate. Parlucchiando a gruppetti di tre o quattro, di ogni razza e colore, guardando impudica quando entri. Così, tanto per soppesarti il portafoglio e saiddio che cosa d'altro. Un'emozione in più nella vita, da raccontare ai nipoti. Che tanto si chiederanno perché non ne abbiamo poi approfittato, e vagli a spiegare a quelle puzzole impertinenti che non bisogna mai pagare per quel che si può avere gratis: giovani debosciati.
Ma la cosa significativa, come già accennavo, è il Gitex in quanto tale. Avete presente lo Smau, la triste e perdente mostra-mercatino dell'informatica per microcefali? Avete presente il fastidio sia della collocazione spaziale (la Fiera di Milano è territorio che fortunatamente verrà raso al suolo, anche se il tutto si sposterà a Rho, e peggio non si poteva) che temporale (piove sempre sullo Smau, e in compenso dentro si suda come le bestie), la rabbia degli stand che si restringono, l'impudicizia delle giovani cubiste alte un metro e quaranta che si dimenano in perizoma, la tristezza esistenziale dei padiglioni e degli stand dell'eGovernment, l'afasia del pubblico, il numero impressionante di telefonini in promozione, la maleducazione dei ragazzini, il lancio di penne, cd e chissà cos'altro, la folla di venditori in giacca e cravatta, studenti di informatica col curriculum in mano (quello Europeo, di cui un giorno parleremo), i branchi starnazzanti di pr e i visitatori per caso che ogni anno giurano sarà l'ultimo ma poi son sempre lì? Ecco, il Gitex non è così.
Il Gitex è in un centro per le esposizioni più bello della Fiera di Milano. E non perché non ci voglia molto (infatti ci vuole pochissimo), ma perché quando l'hanno fatto non avevano in mente una struttura fordista delle esposizioni. Avevano in mente un centro commerciale, un modo per turlopinare la gente - in questo caso i beduini - con più classe e più relax. Senza farla anche faticare.
Poi c'è il pubblico, guardato a vista dalle squadre di poliziotti con le divise kachi e senza armi, che si aggira ordinato. Poche le donne, qualcuna anche velata, molte le straniere. Tanti gli occidentali, tutti in giacca e cravatta perché lì son persone serie mica vendono tarallucci, tantissimi i beduini col caffetano e magari anche l'orologione placcato d'oro e tempestato di pietre luccicanti. Sapevate che le "camicione" degli arabi, come le chiamano i telecronisti della Rai vittime di deficit linguistici che evidentemente non inficiano la loro professionalità, hanno i polsini con i gemelli d'oro? E che l'orologio è un po' pacchiano perché è l'unico accessorio che si può esibire (niente camicia, sandali al posto delle scarpe tanto non si vedono, niente cravatta, insomma, alla fine quasi ci si risparmia a investire solo nel gioiello da polso) quindi deve essere un po' lo specchio di un senso del benessere tribale da esibire ma anche un bene rifugio in caso di chiari di luna economici?
La cosa più fetente di Dubai City (che coincide sostanzialmente con Dubai regno) è l'umidità e le lunghe code all'aperto per aspettare i taxi. E il fatto che il creek, il canale che taglia la città, sia dotato di soli due ponti, clamorosi ingorghi di traffico e chiaramente il mio albergo fosse da una parte, l'area espositiva dall'altra e l'ora di punta corrispondesse al momento in cui cercavo di attraversare la distanza tra i due posti.
La cosa più bella di Dubai City sono i tassisti fluviali, che ti portano con dei gozzi che a Genova farebbero rabbrividire un camallo guidandoli come li potrebbero guidare solo a Napoli se fosse Venezia. Si danno anche le spallate e si rubano i clienti che è un piacere. Basta dargli un pugno di dollari e ti porterebbero anche sull'asfalto, montando le ruotine all'imbarcazione.
La cosa più divertente di Dubai City sono i palazzi, che vengono su per settanta piani in tre mesi e l'amministratore delegato - genovese - dell'importante società italiana che si appresta a investire nell'aerea li guardava perplesso dicendo: "ma non è che poi dentro son tutti vuoti?"
La cosa più triste di Dubai City era quella ragazza che passandomi accanto nel localino notturno mi ha toccato la schiena per farmi spostare, con gentilezza ma anche palpando e prendendo le misure. Era un sondaggio professionale, un'analisi da laboratorio, lucida ma disperata, se ci si pensa su per un momento.
Adesso, però, sta arrivando il momento di altra vita palpitante e rutilante nella metropoli tecnologica del nord Italiano (alias: Milano), vale a dire il FuturShow. Che, dopo un anno di silenzio, migra dalla natìa Bologna nel capoluogo meneghino e innova la sua formula facendo di necessità - pochi soldi - virtù, con "l'innovativa scelta" di quest'anno.
In pratica, fanno dieci stand alla Fiera e il resto saranno tutti allestimenti in giro per Milano, tra negozi, botteghe, aziende, locali e musei. Seguendo i dettami della città che deve essere vissuta sì come spazio e luogo sociale, ma anche come emozione (le ascelle sudate nei tram d'inverno? l'ingorgo intorno al Monumentale che si estende come un'unico verme sino a piazza Cinque Giornate?) e aperitivo-vernissage-seratinagiusta. Io, cari signori e creativi di questa cippa, sono pronto. Se il FuturShow decide, come la Triennale, di "abitare la città", di essere un po' qui e un po' lì, potete trovarmi a casa mia, sul divano, che guardo la tivù col portatile in braccio. Quello è il mio FuturShow 3004 o come cacchio lo chiamano. Mi volete? Connettetevi. Comunicate senza confini. Esaltate il concetto di "boundless". Poratemi l'evento in soggiorno. Sbattetevi, fate i creativi.
Soffro di presbiopia giornalistica, se non succede a tremila chilometri dal mio divano, non mi interessa. Anche perché i biglietti dell'Atm non li contano ai fini del frequent flyer.
La prima cosa che vorrei dire è che i locali in cui i ricchi manager vanno trovando compagnie femminili sono una gran cosa. Ti riempiono gli occhi. Questo è l'effetto che ha avuto, perlomeno, la visita serale con una sparuta pattuglia di genovesi alla parte "sociale" di un grande albergo e trovando, praticamente in un sottoscala foderato di marmo, il famigerato "locale notturno" che alle due si popola di vita galeotta. Legni, specchi, ori e arabeschi (siamo dopotutto nel regno degli sceicchi, no?). E la vita femminile mercenaria, che lì alligna, in tutta la sua fresca e giovane naturalezza coperta di Chanel, colori scuri e scarpe lunghitaccodotate. Parlucchiando a gruppetti di tre o quattro, di ogni razza e colore, guardando impudica quando entri. Così, tanto per soppesarti il portafoglio e saiddio che cosa d'altro. Un'emozione in più nella vita, da raccontare ai nipoti. Che tanto si chiederanno perché non ne abbiamo poi approfittato, e vagli a spiegare a quelle puzzole impertinenti che non bisogna mai pagare per quel che si può avere gratis: giovani debosciati.
Ma la cosa significativa, come già accennavo, è il Gitex in quanto tale. Avete presente lo Smau, la triste e perdente mostra-mercatino dell'informatica per microcefali? Avete presente il fastidio sia della collocazione spaziale (la Fiera di Milano è territorio che fortunatamente verrà raso al suolo, anche se il tutto si sposterà a Rho, e peggio non si poteva) che temporale (piove sempre sullo Smau, e in compenso dentro si suda come le bestie), la rabbia degli stand che si restringono, l'impudicizia delle giovani cubiste alte un metro e quaranta che si dimenano in perizoma, la tristezza esistenziale dei padiglioni e degli stand dell'eGovernment, l'afasia del pubblico, il numero impressionante di telefonini in promozione, la maleducazione dei ragazzini, il lancio di penne, cd e chissà cos'altro, la folla di venditori in giacca e cravatta, studenti di informatica col curriculum in mano (quello Europeo, di cui un giorno parleremo), i branchi starnazzanti di pr e i visitatori per caso che ogni anno giurano sarà l'ultimo ma poi son sempre lì? Ecco, il Gitex non è così.
Il Gitex è in un centro per le esposizioni più bello della Fiera di Milano. E non perché non ci voglia molto (infatti ci vuole pochissimo), ma perché quando l'hanno fatto non avevano in mente una struttura fordista delle esposizioni. Avevano in mente un centro commerciale, un modo per turlopinare la gente - in questo caso i beduini - con più classe e più relax. Senza farla anche faticare.
Poi c'è il pubblico, guardato a vista dalle squadre di poliziotti con le divise kachi e senza armi, che si aggira ordinato. Poche le donne, qualcuna anche velata, molte le straniere. Tanti gli occidentali, tutti in giacca e cravatta perché lì son persone serie mica vendono tarallucci, tantissimi i beduini col caffetano e magari anche l'orologione placcato d'oro e tempestato di pietre luccicanti. Sapevate che le "camicione" degli arabi, come le chiamano i telecronisti della Rai vittime di deficit linguistici che evidentemente non inficiano la loro professionalità, hanno i polsini con i gemelli d'oro? E che l'orologio è un po' pacchiano perché è l'unico accessorio che si può esibire (niente camicia, sandali al posto delle scarpe tanto non si vedono, niente cravatta, insomma, alla fine quasi ci si risparmia a investire solo nel gioiello da polso) quindi deve essere un po' lo specchio di un senso del benessere tribale da esibire ma anche un bene rifugio in caso di chiari di luna economici?
La cosa più fetente di Dubai City (che coincide sostanzialmente con Dubai regno) è l'umidità e le lunghe code all'aperto per aspettare i taxi. E il fatto che il creek, il canale che taglia la città, sia dotato di soli due ponti, clamorosi ingorghi di traffico e chiaramente il mio albergo fosse da una parte, l'area espositiva dall'altra e l'ora di punta corrispondesse al momento in cui cercavo di attraversare la distanza tra i due posti.
La cosa più bella di Dubai City sono i tassisti fluviali, che ti portano con dei gozzi che a Genova farebbero rabbrividire un camallo guidandoli come li potrebbero guidare solo a Napoli se fosse Venezia. Si danno anche le spallate e si rubano i clienti che è un piacere. Basta dargli un pugno di dollari e ti porterebbero anche sull'asfalto, montando le ruotine all'imbarcazione.
La cosa più divertente di Dubai City sono i palazzi, che vengono su per settanta piani in tre mesi e l'amministratore delegato - genovese - dell'importante società italiana che si appresta a investire nell'aerea li guardava perplesso dicendo: "ma non è che poi dentro son tutti vuoti?"
La cosa più triste di Dubai City era quella ragazza che passandomi accanto nel localino notturno mi ha toccato la schiena per farmi spostare, con gentilezza ma anche palpando e prendendo le misure. Era un sondaggio professionale, un'analisi da laboratorio, lucida ma disperata, se ci si pensa su per un momento.
Adesso, però, sta arrivando il momento di altra vita palpitante e rutilante nella metropoli tecnologica del nord Italiano (alias: Milano), vale a dire il FuturShow. Che, dopo un anno di silenzio, migra dalla natìa Bologna nel capoluogo meneghino e innova la sua formula facendo di necessità - pochi soldi - virtù, con "l'innovativa scelta" di quest'anno.
In pratica, fanno dieci stand alla Fiera e il resto saranno tutti allestimenti in giro per Milano, tra negozi, botteghe, aziende, locali e musei. Seguendo i dettami della città che deve essere vissuta sì come spazio e luogo sociale, ma anche come emozione (le ascelle sudate nei tram d'inverno? l'ingorgo intorno al Monumentale che si estende come un'unico verme sino a piazza Cinque Giornate?) e aperitivo-vernissage-seratinagiusta. Io, cari signori e creativi di questa cippa, sono pronto. Se il FuturShow decide, come la Triennale, di "abitare la città", di essere un po' qui e un po' lì, potete trovarmi a casa mia, sul divano, che guardo la tivù col portatile in braccio. Quello è il mio FuturShow 3004 o come cacchio lo chiamano. Mi volete? Connettetevi. Comunicate senza confini. Esaltate il concetto di "boundless". Poratemi l'evento in soggiorno. Sbattetevi, fate i creativi.
Soffro di presbiopia giornalistica, se non succede a tremila chilometri dal mio divano, non mi interessa. Anche perché i biglietti dell'Atm non li contano ai fini del frequent flyer.
Le lasagne nella vaschetta di alluminio
STAVO MANGIANDO IN tranquilla solitudine (brutta bestia, ma nel medio periodo è per fortuna addomesticabile) le lasagne della sottostante rosticceria direttamente nella vaschetta di alluminio quando ho incocciato in questo. Slashdot lo introduce così:
"There is a very interesting article about Cities Without Borders in the latest issue of Mindjack. The author, Paul Hartzog, argues that we are seeing the emergency of 'global cities' concentrating command-and-control functions for the global economy. For instance, the increasing importance of certain cities such as New York, London, Tokyo, Frankfurt, Sydney or Miami shows they not only support complex webs of businesses but also participate in a global network for the production and distribution of finance and capital. This is just one example. You should read the original article to see if you agree with the author -- or not."
Gli slashdottini si interrogano, in modo disfunzionale com'è loro caratteristica, sul ruolo delle reti informatiche rispetto all'evoluzione dell'economia e della società. Sono dei poveri esempi di performing audiences, chiaramente. Anche se di cose interessanti ne dicono. Ma un po' senza conseguenze, così come viene... Che sia nella natura del medium?
Scrive per esempio pmc255:
I think the points made the artcile are quite intuitive and obvious. Rather, it is the context of formulation of the subject at hand that makes the way we think about cities as entities interesting. Any geographical entity, be it a city, state, or nation state, are essentially borderless. The spatial ontology of such geographical entities is predicated on the artificially constructed boundaries that are set in order to structurally delimit the start of an entity and the end of another. Such borders, however, are non-existent when it comes to social and cultural forces that span across multiple geographic entities. When the internet and the world wide web emerged, such boundaries were rendered virtually meaningless. People can transcend geographical borders and visit faraway places half way across the globe in the comfort of their homes. Like I said, most of this is already quite intuitive to all of us who participate in activities on the internet on a daily basis. The most interesting points that are highlighted by the article, however, have to do with how the globalization trend affects the global economy. It isn't farfetched to consider the internet as its own geographical entity.
Consiglio invece di tornare ai fondamentali e leggersi The city in History di Lewis Mumford, anziché attaccarsi sempre a John Maynard Keynes (che, come Marshall McLuhan, l'autore del Villaggio Globale, nessuno ha mai letto ma citano tutti) e farsi una fondata cultura su come in effetti le città siano nate, si siano trasformate e quali siano le loro prospettive.
Mumford, nonostante sia nato a Flushing, Long Island, scrive cose interessanti che hanno segnato qualche generazione di urbanisti e sociologi, anche se loro non lo sanno. Peccato solo che non lo citino, oltre a non averlo mai letto...
"There is a very interesting article about Cities Without Borders in the latest issue of Mindjack. The author, Paul Hartzog, argues that we are seeing the emergency of 'global cities' concentrating command-and-control functions for the global economy. For instance, the increasing importance of certain cities such as New York, London, Tokyo, Frankfurt, Sydney or Miami shows they not only support complex webs of businesses but also participate in a global network for the production and distribution of finance and capital. This is just one example. You should read the original article to see if you agree with the author -- or not."
Gli slashdottini si interrogano, in modo disfunzionale com'è loro caratteristica, sul ruolo delle reti informatiche rispetto all'evoluzione dell'economia e della società. Sono dei poveri esempi di performing audiences, chiaramente. Anche se di cose interessanti ne dicono. Ma un po' senza conseguenze, così come viene... Che sia nella natura del medium?
Scrive per esempio pmc255:
I think the points made the artcile are quite intuitive and obvious. Rather, it is the context of formulation of the subject at hand that makes the way we think about cities as entities interesting. Any geographical entity, be it a city, state, or nation state, are essentially borderless. The spatial ontology of such geographical entities is predicated on the artificially constructed boundaries that are set in order to structurally delimit the start of an entity and the end of another. Such borders, however, are non-existent when it comes to social and cultural forces that span across multiple geographic entities. When the internet and the world wide web emerged, such boundaries were rendered virtually meaningless. People can transcend geographical borders and visit faraway places half way across the globe in the comfort of their homes. Like I said, most of this is already quite intuitive to all of us who participate in activities on the internet on a daily basis. The most interesting points that are highlighted by the article, however, have to do with how the globalization trend affects the global economy. It isn't farfetched to consider the internet as its own geographical entity.
Consiglio invece di tornare ai fondamentali e leggersi The city in History di Lewis Mumford, anziché attaccarsi sempre a John Maynard Keynes (che, come Marshall McLuhan, l'autore del Villaggio Globale, nessuno ha mai letto ma citano tutti) e farsi una fondata cultura su come in effetti le città siano nate, si siano trasformate e quali siano le loro prospettive.
Mumford, nonostante sia nato a Flushing, Long Island, scrive cose interessanti che hanno segnato qualche generazione di urbanisti e sociologi, anche se loro non lo sanno. Peccato solo che non lo citino, oltre a non averlo mai letto...
Area Uno: ecco la scena del crimine newyorkese
IL BLOCKBUSTER TELEVISIVO Csi figlia ancora una volta. Dopo Csi: Miami ecco che arriva Csi: New York. La nuova serie viene trasmessa a partire da questa sera ed è quasi in contemporanea con la serie americana. Finora dai network statunitensi collegati alla Cbs sono stati trasmessi solo cinque episodi. Ma il successo in quel Paese è stato all'altezza delle aspettative. Meglio di Miami e un po' peggio di Csi normale, tanto per far contenti i produttori e dare dispiaceri solo a quelle arroganti puzzole che hanno voluto spostare a Miami il primo spin-off, creando personaggi da poliziesco vecchia maniera (Horatio, Horatio, ma quale mente malata...).
Il successo del primo Crime Scene Investigation (quest'anno alla quinta stagione) parte da due premesse e viene poi condito da una logica assolutamente coerente. Da un lato, attori nuovi e un po' "sfigati", di quelli che nella vita non te li ricordi aver mai fatto niente di particolare. Dall'altro, fanno un lavoro che di solito viene lasciato sullo sfondo. Quande decine, se non migliaia di telefilm ci siamo sorbiti con il solito tenenete o detective sulla scena del crimine, mentre lo specialista della scientifica che razzolava per terra alla ricerca di tracce non se lo filava nessuno? Al punto che, se c'era da trovare la pistola o il bossolo incriminato e incriminante ci pensava il detective stesso, mentre lo "scientifico" pareva più un amante compulsivo della fotografia, chinato su se stesso a scattare come un dannato. Ecco, l'idea è di mettere al centro lui, e far fare la figura della spalla al tenente (mentre di detective non se ne parla nemmeno, perché probabilmente non esistono o si occupano di furti di biciclette).
Ma se l'idea di mettere al centro quelli un po' sfigati potrebbe funzionare, soprattutto investendo su facce nuove perché sottolineano l'idea del fatto che accendiamo per la prima volta i riflettori sulle comparse di tanti altri show (con l'eccezione di Quincy, il patologo figo degli anni Settanta, ve lo ricordate? Ha tuttora un record personale di repliche tra le tre e le quattro del mattino su Canale 5 negli anni Novanta mai battuto), ci vuole la colla.
Questo è una cosa che dalle nostre parti gli ideatori di serie televisive, anche con budget consistenti, non riescono a capire. Fanno di tutto, dalle robe di polizia e carabinieri sino al medico in famiglia, ma non riescono a trovare la colla. Ovvero, se c'è è un caso, un po' come fanno quelli che imbroccano il libro giusto perché se lo portano dentro da una vita, non perché son professionisti che sapevano come andasse scritto. Qual è la colla, allora, che manca a Csi: Miami e non a Csi: New York e all'originale? Il protestantesimo.
Quell'attitudine assolutamente fastidiosa e studiata nel coprire con un devoto spirito di servizio il proprio lavoro, da perseguire lavorando tanto e sodo, senza che siano ammessi sbagli, perché lo sbaglio squalifica la professionalità e quindi porta all'esclusione delle persone. Anche quando è fatto da un amico e dettato da motivi personali gravissimi. Notare, Csi è stato per le prime tre stagioni popolato da personaggi assolutamente disfunzionali. Non ce n'era uno a cui nella vita andassero bene le cose. Chi zoppica, chi non ci sente ed è innamorato di una dark lady, chi lavora come una bestia (nevrotica) con un ex marito semicriminale e idee sul modo di educare la figlia degne di una diffida definitiva del tribunale dei minori, alcool, anche semplice idiozia. Insomma, tutte prove che il Signore ci manda e che si superano solo se lui ci vuol tanto bene. Altrimenti, se si scazza in modo definitivo e irrimediabile con gli inflessibili colleghi (li stessi con cui poi la sera si va a prendere l'aperitivo e gli si raccontano i fatti nostri) loro ci segano perché vuol dire che il buon Dio non ci vuole bene.
L'etica protestante e lo spirito della televisione, verrebbe da dire. Con Csi funziona veramente bene: quella barca di quaccheri che lavora con effetti speciali (un po' alla Nip/Tuck) degni di una produzione di alto livello ha una missione, dopotutto: mostrare che il crimine non paga perché l'intelligenza e la tecnologia possono sempre beccarlo. Una teoria, devo aggiungere, che ricorda quanto insegnavano i consulenti di strategia delle relazioni internazionali circa le attività di intelligence: mettere giù gente motivata e un sacco di tecnologia. Vedrete che i terroristi li becchiamo tutti. L'11 settembre ha insegnato un'altra lezione, ma nell'antico vizio stanno ricascando loro e tutto il loro paese, perché è qualcosa che sta nel Dna degli statunitensi e da lì non ce lo togli neanche a tirarlo col trattore.
Csi: Miami, adesso alla terza stagione, ha scazzato male. Lì i personaggi sono pochi, il mondo è piccolo, gli scenari cercano di non farci ricordare Miami Vice e in questo, solo in questo, colgono il risultato. Peccato invece che le investigazioni siano per esaltare il nuovo pastore del gregge scientifico, Horatio, che come macchina di servizio ha scelto un Hammer, il fuoristrada-Tir considerato un pelino eccessivo anche dagli stessi americani. E peccato che uno si chieda a cosa serve il resto del dipartimento di polizia di Miami se fa tutto lui, dall'analisi del liquido seminale all'arresto in flagranza di reato passando per inseguimento e sparatoria. Alla faccia del comprimario. La colla manca perché al pastore manca il senso dell'understatement, qualcosa che negli anni Venti era un optional ma adesso è parte integrante della mentalità wasp. Che sia un modo per dirci che a Miami ci sono i Latinos, gente sanguigna e anche un po' sparagnina, quindi le cose viaggiano in maniera differente? Eppure a Las Vegas (Csi) uno dei punti sorprendenti è proprio la vicinanza alla città reale e non a quella di plastica dei giocatori; tantissimi crimini residenziali e poche, pochissime concessioni all'hard boiled.
Csi: New York è tutta un'altra zuppa, invece. Dentro c'è New York, quindi la colla deve essere per forza un'altra. Perché, signore e signori, non ci dimentichiamo mai che la Grande Mela è la città dove si attraversa col semaforo rosso, dove i tassisti ignorano completamente l'idioma di Shakespeare e soprattutto dove si aggirano legioni di poliziotti e attrici, finanzieri miliardari e venditori di Pretzel all'angolo di strada. Prima che americani gli abitanti di New York sono newyorkesi. Quindi, un po' meno protestanti del resto del continente. D'altro canto, come fai se dalle fogne può uscirti alternativamente Godzilla o uno spiritaccio inseguito dai Ghost Buster? Per questo la colla è lui, Gary Sinise, il capo della sezione investigazione scientifica e si poggia sul suo carisma di attore noto il gioco nascosto di Csi: New York? Il mondo non è più piccolo, perché New York è una grande città di spazi piccoli (avete mai provato ad affittare un appartamento a Manhattan? Io no, ma mi dicono che siano tutti minuscoli e a prezzi proibitivi), in cui si gioca a uomo, non a zona.
Se quindi i protestanti sono dei gran giocatori a zona, nel senso che presidiano l'etica e i principi, mentre gli avversari passano seguendo il flusso, i protestanti di New York sono un po' italiani, un po' greci e un po' ebrei, mescolano cioè il catenaccio con il gioco a uomo, perché questo ti chiede New York: vedere l'uomo in faccia e possibilmente spaccargli le caviglie. Non solo con la violenza, magari anche con l'intelligenza e la tecnologia. E una bava, appena accennata, strisciante, di umorismo. (E le belle figliole: Merina Kanakaredes è una gran gnocca, gentili telespettatori, vedrete, vedrete. Altro che Sofia Milos... tzé!)
Ah, un'ultima nota: fa piacere vedere di nuovo un bel poliziesco ambientato nella Grande Mela in cui i cameramen non soffrano di delirium tremens. Non se ne poteva più di videocamere mosse sempre alla cazzo. E che diavolo, uno mica può passare tutta la vita col mal di mare seduto in poltrona davanti alla tivù...
Il successo del primo Crime Scene Investigation (quest'anno alla quinta stagione) parte da due premesse e viene poi condito da una logica assolutamente coerente. Da un lato, attori nuovi e un po' "sfigati", di quelli che nella vita non te li ricordi aver mai fatto niente di particolare. Dall'altro, fanno un lavoro che di solito viene lasciato sullo sfondo. Quande decine, se non migliaia di telefilm ci siamo sorbiti con il solito tenenete o detective sulla scena del crimine, mentre lo specialista della scientifica che razzolava per terra alla ricerca di tracce non se lo filava nessuno? Al punto che, se c'era da trovare la pistola o il bossolo incriminato e incriminante ci pensava il detective stesso, mentre lo "scientifico" pareva più un amante compulsivo della fotografia, chinato su se stesso a scattare come un dannato. Ecco, l'idea è di mettere al centro lui, e far fare la figura della spalla al tenente (mentre di detective non se ne parla nemmeno, perché probabilmente non esistono o si occupano di furti di biciclette).
Ma se l'idea di mettere al centro quelli un po' sfigati potrebbe funzionare, soprattutto investendo su facce nuove perché sottolineano l'idea del fatto che accendiamo per la prima volta i riflettori sulle comparse di tanti altri show (con l'eccezione di Quincy, il patologo figo degli anni Settanta, ve lo ricordate? Ha tuttora un record personale di repliche tra le tre e le quattro del mattino su Canale 5 negli anni Novanta mai battuto), ci vuole la colla.
Questo è una cosa che dalle nostre parti gli ideatori di serie televisive, anche con budget consistenti, non riescono a capire. Fanno di tutto, dalle robe di polizia e carabinieri sino al medico in famiglia, ma non riescono a trovare la colla. Ovvero, se c'è è un caso, un po' come fanno quelli che imbroccano il libro giusto perché se lo portano dentro da una vita, non perché son professionisti che sapevano come andasse scritto. Qual è la colla, allora, che manca a Csi: Miami e non a Csi: New York e all'originale? Il protestantesimo.
Quell'attitudine assolutamente fastidiosa e studiata nel coprire con un devoto spirito di servizio il proprio lavoro, da perseguire lavorando tanto e sodo, senza che siano ammessi sbagli, perché lo sbaglio squalifica la professionalità e quindi porta all'esclusione delle persone. Anche quando è fatto da un amico e dettato da motivi personali gravissimi. Notare, Csi è stato per le prime tre stagioni popolato da personaggi assolutamente disfunzionali. Non ce n'era uno a cui nella vita andassero bene le cose. Chi zoppica, chi non ci sente ed è innamorato di una dark lady, chi lavora come una bestia (nevrotica) con un ex marito semicriminale e idee sul modo di educare la figlia degne di una diffida definitiva del tribunale dei minori, alcool, anche semplice idiozia. Insomma, tutte prove che il Signore ci manda e che si superano solo se lui ci vuol tanto bene. Altrimenti, se si scazza in modo definitivo e irrimediabile con gli inflessibili colleghi (li stessi con cui poi la sera si va a prendere l'aperitivo e gli si raccontano i fatti nostri) loro ci segano perché vuol dire che il buon Dio non ci vuole bene.
L'etica protestante e lo spirito della televisione, verrebbe da dire. Con Csi funziona veramente bene: quella barca di quaccheri che lavora con effetti speciali (un po' alla Nip/Tuck) degni di una produzione di alto livello ha una missione, dopotutto: mostrare che il crimine non paga perché l'intelligenza e la tecnologia possono sempre beccarlo. Una teoria, devo aggiungere, che ricorda quanto insegnavano i consulenti di strategia delle relazioni internazionali circa le attività di intelligence: mettere giù gente motivata e un sacco di tecnologia. Vedrete che i terroristi li becchiamo tutti. L'11 settembre ha insegnato un'altra lezione, ma nell'antico vizio stanno ricascando loro e tutto il loro paese, perché è qualcosa che sta nel Dna degli statunitensi e da lì non ce lo togli neanche a tirarlo col trattore.
Csi: Miami, adesso alla terza stagione, ha scazzato male. Lì i personaggi sono pochi, il mondo è piccolo, gli scenari cercano di non farci ricordare Miami Vice e in questo, solo in questo, colgono il risultato. Peccato invece che le investigazioni siano per esaltare il nuovo pastore del gregge scientifico, Horatio, che come macchina di servizio ha scelto un Hammer, il fuoristrada-Tir considerato un pelino eccessivo anche dagli stessi americani. E peccato che uno si chieda a cosa serve il resto del dipartimento di polizia di Miami se fa tutto lui, dall'analisi del liquido seminale all'arresto in flagranza di reato passando per inseguimento e sparatoria. Alla faccia del comprimario. La colla manca perché al pastore manca il senso dell'understatement, qualcosa che negli anni Venti era un optional ma adesso è parte integrante della mentalità wasp. Che sia un modo per dirci che a Miami ci sono i Latinos, gente sanguigna e anche un po' sparagnina, quindi le cose viaggiano in maniera differente? Eppure a Las Vegas (Csi) uno dei punti sorprendenti è proprio la vicinanza alla città reale e non a quella di plastica dei giocatori; tantissimi crimini residenziali e poche, pochissime concessioni all'hard boiled.
Csi: New York è tutta un'altra zuppa, invece. Dentro c'è New York, quindi la colla deve essere per forza un'altra. Perché, signore e signori, non ci dimentichiamo mai che la Grande Mela è la città dove si attraversa col semaforo rosso, dove i tassisti ignorano completamente l'idioma di Shakespeare e soprattutto dove si aggirano legioni di poliziotti e attrici, finanzieri miliardari e venditori di Pretzel all'angolo di strada. Prima che americani gli abitanti di New York sono newyorkesi. Quindi, un po' meno protestanti del resto del continente. D'altro canto, come fai se dalle fogne può uscirti alternativamente Godzilla o uno spiritaccio inseguito dai Ghost Buster? Per questo la colla è lui, Gary Sinise, il capo della sezione investigazione scientifica e si poggia sul suo carisma di attore noto il gioco nascosto di Csi: New York? Il mondo non è più piccolo, perché New York è una grande città di spazi piccoli (avete mai provato ad affittare un appartamento a Manhattan? Io no, ma mi dicono che siano tutti minuscoli e a prezzi proibitivi), in cui si gioca a uomo, non a zona.
Se quindi i protestanti sono dei gran giocatori a zona, nel senso che presidiano l'etica e i principi, mentre gli avversari passano seguendo il flusso, i protestanti di New York sono un po' italiani, un po' greci e un po' ebrei, mescolano cioè il catenaccio con il gioco a uomo, perché questo ti chiede New York: vedere l'uomo in faccia e possibilmente spaccargli le caviglie. Non solo con la violenza, magari anche con l'intelligenza e la tecnologia. E una bava, appena accennata, strisciante, di umorismo. (E le belle figliole: Merina Kanakaredes è una gran gnocca, gentili telespettatori, vedrete, vedrete. Altro che Sofia Milos... tzé!)
Ah, un'ultima nota: fa piacere vedere di nuovo un bel poliziesco ambientato nella Grande Mela in cui i cameramen non soffrano di delirium tremens. Non se ne poteva più di videocamere mosse sempre alla cazzo. E che diavolo, uno mica può passare tutta la vita col mal di mare seduto in poltrona davanti alla tivù...
Scoperte
STASERA SONO STATO alla BlogFest, il raduno carbonaro e un po' fighetto (signore e signori, è pur sempre Milano, qualcosa da bere è rimasto) del popolo dei diari online. Una sensazione strana. Venerdì serà party aziendale a Barcellona, nella fighettosa casa Battllò realizzata da Gaudi in un non raro momento di grazia. Invidia dei milanesi ("che figata, a me Barcellona piace un casino, ci sono stato due estati fa giusto tre giorni di passaggio per andare a Valencia").
Stasera party digitale al Foyer - luogo strano neanche segnato sulle mappe di Giramilano dell'Atm. Invidia dei vicentini e dei senesi ("Che figata, a me Milano piace un casino per la vita notturna, tutti quei locali con le veline. Ci sono stato due anni fa andando a trovare mio cugino che lavora per una società di consulenza nell'ambito della moda e/o della televisione").
C'era anche il libro, antologia Einaudi Stile Libero coordinato da una graziosa giornalista di Repubblica in cui compaiono quasi venti blogger tra i più noti. Invidia della middle class intellettuali, impiegata di concetto nell'industria culturale italiana che da anni aspira a essere pubblicata da Einaudi (anche sulla brochure del catalogo semestrale, nella pagina delle lettere) senza successo: "Che figata, a me Einaudi è sempre piaciuta, dai tempi di Vittorini e poi di Calvino la cultura è passata da lì. Ci ho letto tutto Gino e Michele e anche le barzellette di Totti".
Ho scoperto che anche tra i blogger ci sono persone simpatiche assai, parecchie ragazze e alcune anche decisamente carine. Ovviamente, tutte impegnate. Invidia tutta personale, senza bisogno di commentare.
Ho scoperto anche che sono famoso. Non per quello che state leggendo. Ma per il ben più serio e decisamente interessante Macity. Il sito dal 1996 devoto al mondo di Apple magari non sarà un blog, però i miei dieci minuti di celebrità me li ha regalati. Stasera mi sento buono e penso un sacco di cose belle del mondo dei blogger. Domani, non so... (soprattutto se non compariranno commenti ironici e pungenti a questo post o non aumenteranno in maniera sensibile i contatti segnalati da quell'odiosa cosa che è ShinyStat).
Ps: doverosa aggiunta. Personalità confusa è come me e il contrario di me. Più divertente quando scrive che non dal vivo, non ha però un solo capello in testa... Ecco, io forse non sono simpatico quando scrivo (statisticamente quando parlo si, perché non mi cheto mai), però non ho un capello in testa. Volevo dirvelo, perché la cosa mi ha colpito.
Stasera party digitale al Foyer - luogo strano neanche segnato sulle mappe di Giramilano dell'Atm. Invidia dei vicentini e dei senesi ("Che figata, a me Milano piace un casino per la vita notturna, tutti quei locali con le veline. Ci sono stato due anni fa andando a trovare mio cugino che lavora per una società di consulenza nell'ambito della moda e/o della televisione").
C'era anche il libro, antologia Einaudi Stile Libero coordinato da una graziosa giornalista di Repubblica in cui compaiono quasi venti blogger tra i più noti. Invidia della middle class intellettuali, impiegata di concetto nell'industria culturale italiana che da anni aspira a essere pubblicata da Einaudi (anche sulla brochure del catalogo semestrale, nella pagina delle lettere) senza successo: "Che figata, a me Einaudi è sempre piaciuta, dai tempi di Vittorini e poi di Calvino la cultura è passata da lì. Ci ho letto tutto Gino e Michele e anche le barzellette di Totti".
Ho scoperto che anche tra i blogger ci sono persone simpatiche assai, parecchie ragazze e alcune anche decisamente carine. Ovviamente, tutte impegnate. Invidia tutta personale, senza bisogno di commentare.
Ho scoperto anche che sono famoso. Non per quello che state leggendo. Ma per il ben più serio e decisamente interessante Macity. Il sito dal 1996 devoto al mondo di Apple magari non sarà un blog, però i miei dieci minuti di celebrità me li ha regalati. Stasera mi sento buono e penso un sacco di cose belle del mondo dei blogger. Domani, non so... (soprattutto se non compariranno commenti ironici e pungenti a questo post o non aumenteranno in maniera sensibile i contatti segnalati da quell'odiosa cosa che è ShinyStat).
Ps: doverosa aggiunta. Personalità confusa è come me e il contrario di me. Più divertente quando scrive che non dal vivo, non ha però un solo capello in testa... Ecco, io forse non sono simpatico quando scrivo (statisticamente quando parlo si, perché non mi cheto mai), però non ho un capello in testa. Volevo dirvelo, perché la cosa mi ha colpito.
4.11.04
Per quelli in viaggio verso San Francisco
VOLEVO INFORMARE I viaggiatori che adesso, da metà di quest'anno a dire il vero, si può andare dall'aeroporto di San Francisco o di Oakland (prendetelo in considerazione, soprattutto se arrivate da New York JFK, visto che c'è JetBlue che costa molto poco) comodamente con la metropolitana BART a 4 dollari e mezzo in una trentina di minuti...
2.11.04
Mel Sembler e altri fenomeni par suo
L'AMBASCIATORE DEGLI USA - in un party all'ambasciata di Roma trasmesso in diretta da Porta a Porta - ha appena dichiarato che il sistema elettorale con cui negli Usa si elegge il presidente è mutuato dall'Impero Romano. Perché a me nessuno aveva mai detto niente?
Meno male che Rutelli, dallo studio di Roma, ha ribadito che "i parlamentari americani, non ce lo dimentichiamo, quando sono eletti entrano nel Campidoglio..." (applausi)
In compenso, poche ore fa Vittorio Zucconi, collegato dagli Usa con la trasmissione di RaiTre Ballarò, ha dichiarato che lui vota anche negli Usa "perché dopo tanto tempo in questo Paese anche gli stranieri possono votare". Mal di stomaco nella Roma bene, dove torme di wannabe scoprono con orrore che loro, poveri provinciali, non possono...
Sorgi, che dirige la Stampa, ha invece appena mostrato entrambe le aperture (ha vinto Kerry, ha vinto Bush) preparate per domani e pronte a essere mandate in stampa non appena si saprà qualcosa di più preciso (coccodrilli elettorali in chiave post-moderna?). Intanto, Sorgi sposa la strada della prudenza "visti i precedenti dell'altra volta".
L'Australia a questo punto sembra proprio un traguardo irrinunciabile...
Comunque, per buona misura, io domattina vado a Barcellona e torno venerdì sera. Saludos...
Meno male che Rutelli, dallo studio di Roma, ha ribadito che "i parlamentari americani, non ce lo dimentichiamo, quando sono eletti entrano nel Campidoglio..." (applausi)
In compenso, poche ore fa Vittorio Zucconi, collegato dagli Usa con la trasmissione di RaiTre Ballarò, ha dichiarato che lui vota anche negli Usa "perché dopo tanto tempo in questo Paese anche gli stranieri possono votare". Mal di stomaco nella Roma bene, dove torme di wannabe scoprono con orrore che loro, poveri provinciali, non possono...
Sorgi, che dirige la Stampa, ha invece appena mostrato entrambe le aperture (ha vinto Kerry, ha vinto Bush) preparate per domani e pronte a essere mandate in stampa non appena si saprà qualcosa di più preciso (coccodrilli elettorali in chiave post-moderna?). Intanto, Sorgi sposa la strada della prudenza "visti i precedenti dell'altra volta".
L'Australia a questo punto sembra proprio un traguardo irrinunciabile...
Comunque, per buona misura, io domattina vado a Barcellona e torno venerdì sera. Saludos...
1.11.04
Il rischio del software giusto
METTERE TUTTO IN mano a un'applicazione, magari neanche fatta da quella grande e famosa softwarehouse ma da un piccolo sviluppatore, è un discreto rischio.
Oggi ho deciso di correrlo con Mindola (nome idiota) che realizza però un software straordinariamente ben fatto: Miss Lonelynotes (altro nome idiota).
La cosa che più mi turba non sono i nomi, tuttavia, e neanche il fatto che l'applicazione sia fatta in Java (quindi c'è sia per Mac che per Pc, oltretutto con un po' di stranezze per lo standard di interfaccia Mac, ma tant'è, nessuno è perfetto), quanto l'idea di uscire dal seminato.
Mi spiego e spiego a cosa serve l'applicazione: mimando il sistema delle vecchie schede - buono da tempi immemorabili e reclamizzato anche da Umberto Eco - permette di usare una metafora consolidata per raccogliere idee e appunti in modo articolato e coerente, al fine poi di passare alla scrittura di testi complessi.
Tutto questo fa parte di un mio piano praticamente quinquennale che si caratterizza con la frase "ora che ho il computer, vediamo di sfruttarlo sul serio". Il disagio provato sino a questo momento con i software consueti, vale a dire soprattutto Word e i suoi fratelli, era arrivato a un livello di guardia notevole. A questo poi si aggiungono da un lato l'uso improprio di applicazioni nate per fare altre cose (ma vi rendete conto che c'è gente che fa la rubrica dei numeri di telefono su Excel?!) e dall'altro la fine dell'interfaccia così come la conosciamo.
Tutto troppo ricco e colorato, alla fine l'unica cosa che realmente serve per mettere ordine nel caos di dati che si accumulano nel disco rigido e che non è possibile strutturare a priori (anche perché se già sapessi cosa trovo su Internet sarei un genio e non avrei bisogno di andare a guardarci) è una nuova generazione di applicazioni, di motori di ricerca e soprattutto di interfacce e di modi di gestione della conoscenza.
Non sopporto l'idea di finire chiuso in formati proprietari (ho decine di file salvati come archivio dal vecchio Explorer per Mac Os 9 che sono compatibili solo con se stessi) e non sopporto neanche il pensiero che un bel giorno dovrò cambiare di nuovo tutto per adattarmi a modelli pensati da altri, sistemi di pensiero mainstream.
Per questo riorganizzo il tutto cercando di scoprire e sperimentare la flessibilità di altri modi di pensare. E' da lì, al di là di tutto, che arriva l'innovazione. Io mi ci diverto...
Oggi ho deciso di correrlo con Mindola (nome idiota) che realizza però un software straordinariamente ben fatto: Miss Lonelynotes (altro nome idiota).
La cosa che più mi turba non sono i nomi, tuttavia, e neanche il fatto che l'applicazione sia fatta in Java (quindi c'è sia per Mac che per Pc, oltretutto con un po' di stranezze per lo standard di interfaccia Mac, ma tant'è, nessuno è perfetto), quanto l'idea di uscire dal seminato.
Mi spiego e spiego a cosa serve l'applicazione: mimando il sistema delle vecchie schede - buono da tempi immemorabili e reclamizzato anche da Umberto Eco - permette di usare una metafora consolidata per raccogliere idee e appunti in modo articolato e coerente, al fine poi di passare alla scrittura di testi complessi.
Tutto questo fa parte di un mio piano praticamente quinquennale che si caratterizza con la frase "ora che ho il computer, vediamo di sfruttarlo sul serio". Il disagio provato sino a questo momento con i software consueti, vale a dire soprattutto Word e i suoi fratelli, era arrivato a un livello di guardia notevole. A questo poi si aggiungono da un lato l'uso improprio di applicazioni nate per fare altre cose (ma vi rendete conto che c'è gente che fa la rubrica dei numeri di telefono su Excel?!) e dall'altro la fine dell'interfaccia così come la conosciamo.
Tutto troppo ricco e colorato, alla fine l'unica cosa che realmente serve per mettere ordine nel caos di dati che si accumulano nel disco rigido e che non è possibile strutturare a priori (anche perché se già sapessi cosa trovo su Internet sarei un genio e non avrei bisogno di andare a guardarci) è una nuova generazione di applicazioni, di motori di ricerca e soprattutto di interfacce e di modi di gestione della conoscenza.
Non sopporto l'idea di finire chiuso in formati proprietari (ho decine di file salvati come archivio dal vecchio Explorer per Mac Os 9 che sono compatibili solo con se stessi) e non sopporto neanche il pensiero che un bel giorno dovrò cambiare di nuovo tutto per adattarmi a modelli pensati da altri, sistemi di pensiero mainstream.
Per questo riorganizzo il tutto cercando di scoprire e sperimentare la flessibilità di altri modi di pensare. E' da lì, al di là di tutto, che arriva l'innovazione. Io mi ci diverto...
Quel fenomeno chiamato iPod (non solo per macchisti)
E' PRATICAMENTE una rivoluzione sotto gli occhi di tutti. Il fenomeno dell'iPod, il lettore di musica digitale di Apple, ha passato quella sottile linea che divide un prodotto di successo da una vera rivoluzione, un'icona culturale. Ma quali sono i rischi? Che cosa potrebbe succedere adesso?
Da un certo punto di vista, calcolando solo il lato economico del fenomeno, ci sarebbe quasi da preoccuparsi. E' vero, Apple è in cima al mondo, l'iPod vende come non mai e questo Natale soprattutto farà un vero exploit, il suo unico limite sarà la capacità dell'azienda di consegnarne ai negozi un numero sufficiente. Però, quando si arriva al 92% del mercato dei lettori di musica digitale basati su hard disk, a più del 60% del mercato complessivo inclusi quelli da quattro soldi che praticamente li regalano al posto delle vecchie chiavette di memoria Usb, c'è da preoccuparsi. Dopo, direbbero quelli prudenti, si può solo perdere quote di mercato.
Infatti, di avversari l'iPod ne ha già tanti, e non c'è dubbio che qualcuno sia anche valido. O che, magari, il prossimo iPod stia già lasciando il tavolo da disegno di qualche tecnico giapponese o americano per avviarsi alla produzione. Chi può dirlo. Di certo, adesso è il momento dell'iPod.
Ma non si tratta solo di un problema di quote di mercato. Se fosse solo per quello, i prudenti e i pessimisti potrebbero avere ragione. No, in realtà l'iPod è andato molto più in là. Lo hanno definito più volte "il walkman del ventunesimo secolo". Con la "w" minuscola, per dire che il prodotto lanciato negli anni Settanta da Sony (e che ha costruito praticamente da solo le fortune dell'azienda) è divenuto cosa comune, acquisita nel costume e nell'immaginario di tutti quanti.
Ma dove sta l'innovazione? Nel fatto di far portare la musica in tasca? Questo già succedeva con il Walkman e, ad essere sinceri, anche con la prima radio a transistor, che peraltro proprio in questi giorni compie cinquant'anni. Allora? Non è il discorso della portabilità quello che ha un effetto distruttivo sul mercato. E' il modo in cui la portabilità si realizza. La Regency TR-1 ha messo davvero la musica in tasta a tantissima gente. L'innovazione del genere immediatamente successiva e più spettacolare è stata quella (per niente documentata) delle cuffie per rendere l'ascolto realmente individuale. Poi è arrivato il Walkman, che ha aggiunto la dimensione dell'archivio. Con l'apparecchio di Sony, cioè, come accade con il videoregistratore, l'ascolto diventa non solo personale e mobile, ma anche personalizzabile. E' l'utente che decide cosa vuole ascoltare.
Qual è l'innovazione dell'iPod allora? Musica in tasca? Cuffie stereo? Archivio e memoria? Quasi. Il suo è un concetto di totale personalizzazione dell'esperienza musicale. Chi usa l'iPod al pieno (e quello che ha reso memorabile la sua creazione) è colui il quale ha digitalizzato la sua biblioteca di compact disc e trasferisce sul piccolo lettore bianco di Apple tutta la sua storia musicale, i suoi gusti, le sue passioni. Solo in questo modo si ha una differenza sostanziale rispetto agli altri apparecchi precedenti o del genere.
In questo gioca un ruolo chiave sia il fattore della diffusione del computer (è inimmaginabile l'iPod senza un computer) che di sistemi che rendano l'interfaccia di sincronizzazione e di utilizzo molto, molto semplice e continua tra l'ambiente locale e quello mobile. In una parola, iTunes, il software di Apple che funziona da jukebox.
Ma non è stato il primo software del genere. Ce ne sono vari altri, soprattutto in ambiente Pc, che fanno le stesse cose. Ma - e qui scaturisce la vera genialità dell'operazione, iTunes è anche in grado di collegarsi a Internet mantenendo la medesima interfaccia (che non è quella di un browser dove si può sostanzialmente solo puntare e cliccare) e la stessa struttura di organizzazione dei file. Geniale.
Geniale perché coglie contemporaneamente due problemi tipici non solo delle interfacce ma dell'intera esperienza informatica. Senza un sistema di organizzazione e gestione dei dati, cioè delle canzoni, ci si perde. Si perde il divertimento e la passione per l'ascolto della musica. Intendiamoci, non che debba essere necessariamente la cosa più semplice del mondo, perché non lo è. Ma le persone si appassionano se trovano un sistema comprensibile per la gestione dei propri dati. E Apple l'ha creato con iPod e con iTunes. Semplice, altamente integrato, assolutamente coerente e funzionante.
Adesso, con iPod Photo, si ripete l'operazione. Giocando, in ambiente Mac, con iPhoto, un software per la gestione semplice e lineare delle immagini nella memoria del computer. In pratica, si permette di portare in tasca non solo tutti i propri gusti musicali, ma anche tutte le proprie istantanee. Come la gente sta cercando di fare con i telefonini a colori e dotati di macchina fotografica digitale. Lì vengono archiviate, entro certi limiti, una serie di immagini. Che tengono compagnia e fanno piacere. Così come la possibilità di avere copertine e immagini associate a ciascun album.
Pensateci, perché nella sua semplicità è geniale. Si scarica la musica dai propri cd oppure dal negozio digitale di Apple (o magari, anche da qualche altra fonte, diciamo così un po' meno. Si mette sul computer, e contemporaneamente finisce anche sull'iPod. Si organizza l'ascolto sulla base dell'ordine che si vuole: playlist, per album, per artista, per genere, qualunque cosa. Si mantiene la coerenza dell'esperienza e soprattutto non c'è bisogno di portarsi una borsata di cd a giro: se l'umore cambia durante il giorno, c'è sempre quel che serve con noi.
Questi sono solo alcuni degli elementi più rilevanti della rivoluzione, a mio modesto parere. Altri ancora si possono trovare in vari ambiti: da quello della comunicazione e del marketing sino a quello del design. Ne parleremo più avanti.
Da un certo punto di vista, calcolando solo il lato economico del fenomeno, ci sarebbe quasi da preoccuparsi. E' vero, Apple è in cima al mondo, l'iPod vende come non mai e questo Natale soprattutto farà un vero exploit, il suo unico limite sarà la capacità dell'azienda di consegnarne ai negozi un numero sufficiente. Però, quando si arriva al 92% del mercato dei lettori di musica digitale basati su hard disk, a più del 60% del mercato complessivo inclusi quelli da quattro soldi che praticamente li regalano al posto delle vecchie chiavette di memoria Usb, c'è da preoccuparsi. Dopo, direbbero quelli prudenti, si può solo perdere quote di mercato.
Infatti, di avversari l'iPod ne ha già tanti, e non c'è dubbio che qualcuno sia anche valido. O che, magari, il prossimo iPod stia già lasciando il tavolo da disegno di qualche tecnico giapponese o americano per avviarsi alla produzione. Chi può dirlo. Di certo, adesso è il momento dell'iPod.
Ma non si tratta solo di un problema di quote di mercato. Se fosse solo per quello, i prudenti e i pessimisti potrebbero avere ragione. No, in realtà l'iPod è andato molto più in là. Lo hanno definito più volte "il walkman del ventunesimo secolo". Con la "w" minuscola, per dire che il prodotto lanciato negli anni Settanta da Sony (e che ha costruito praticamente da solo le fortune dell'azienda) è divenuto cosa comune, acquisita nel costume e nell'immaginario di tutti quanti.
Ma dove sta l'innovazione? Nel fatto di far portare la musica in tasca? Questo già succedeva con il Walkman e, ad essere sinceri, anche con la prima radio a transistor, che peraltro proprio in questi giorni compie cinquant'anni. Allora? Non è il discorso della portabilità quello che ha un effetto distruttivo sul mercato. E' il modo in cui la portabilità si realizza. La Regency TR-1 ha messo davvero la musica in tasta a tantissima gente. L'innovazione del genere immediatamente successiva e più spettacolare è stata quella (per niente documentata) delle cuffie per rendere l'ascolto realmente individuale. Poi è arrivato il Walkman, che ha aggiunto la dimensione dell'archivio. Con l'apparecchio di Sony, cioè, come accade con il videoregistratore, l'ascolto diventa non solo personale e mobile, ma anche personalizzabile. E' l'utente che decide cosa vuole ascoltare.
Qual è l'innovazione dell'iPod allora? Musica in tasca? Cuffie stereo? Archivio e memoria? Quasi. Il suo è un concetto di totale personalizzazione dell'esperienza musicale. Chi usa l'iPod al pieno (e quello che ha reso memorabile la sua creazione) è colui il quale ha digitalizzato la sua biblioteca di compact disc e trasferisce sul piccolo lettore bianco di Apple tutta la sua storia musicale, i suoi gusti, le sue passioni. Solo in questo modo si ha una differenza sostanziale rispetto agli altri apparecchi precedenti o del genere.
In questo gioca un ruolo chiave sia il fattore della diffusione del computer (è inimmaginabile l'iPod senza un computer) che di sistemi che rendano l'interfaccia di sincronizzazione e di utilizzo molto, molto semplice e continua tra l'ambiente locale e quello mobile. In una parola, iTunes, il software di Apple che funziona da jukebox.
Ma non è stato il primo software del genere. Ce ne sono vari altri, soprattutto in ambiente Pc, che fanno le stesse cose. Ma - e qui scaturisce la vera genialità dell'operazione, iTunes è anche in grado di collegarsi a Internet mantenendo la medesima interfaccia (che non è quella di un browser dove si può sostanzialmente solo puntare e cliccare) e la stessa struttura di organizzazione dei file. Geniale.
Geniale perché coglie contemporaneamente due problemi tipici non solo delle interfacce ma dell'intera esperienza informatica. Senza un sistema di organizzazione e gestione dei dati, cioè delle canzoni, ci si perde. Si perde il divertimento e la passione per l'ascolto della musica. Intendiamoci, non che debba essere necessariamente la cosa più semplice del mondo, perché non lo è. Ma le persone si appassionano se trovano un sistema comprensibile per la gestione dei propri dati. E Apple l'ha creato con iPod e con iTunes. Semplice, altamente integrato, assolutamente coerente e funzionante.
Adesso, con iPod Photo, si ripete l'operazione. Giocando, in ambiente Mac, con iPhoto, un software per la gestione semplice e lineare delle immagini nella memoria del computer. In pratica, si permette di portare in tasca non solo tutti i propri gusti musicali, ma anche tutte le proprie istantanee. Come la gente sta cercando di fare con i telefonini a colori e dotati di macchina fotografica digitale. Lì vengono archiviate, entro certi limiti, una serie di immagini. Che tengono compagnia e fanno piacere. Così come la possibilità di avere copertine e immagini associate a ciascun album.
Pensateci, perché nella sua semplicità è geniale. Si scarica la musica dai propri cd oppure dal negozio digitale di Apple (o magari, anche da qualche altra fonte, diciamo così un po' meno. Si mette sul computer, e contemporaneamente finisce anche sull'iPod. Si organizza l'ascolto sulla base dell'ordine che si vuole: playlist, per album, per artista, per genere, qualunque cosa. Si mantiene la coerenza dell'esperienza e soprattutto non c'è bisogno di portarsi una borsata di cd a giro: se l'umore cambia durante il giorno, c'è sempre quel che serve con noi.
Questi sono solo alcuni degli elementi più rilevanti della rivoluzione, a mio modesto parere. Altri ancora si possono trovare in vari ambiti: da quello della comunicazione e del marketing sino a quello del design. Ne parleremo più avanti.
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